Capitolo 3

La sera successiva Gwen rimase a guardare il tramonto dalla sua finestra. Il cielo e l’acqua avevano preso l’esatta sfumatura dell’oro, e il lago era incorniciato da colline dalle cangianti tonalità seppia. Si spostò e si vestì con cura, e poi studiò il proprio riflesso. La domestica l’aveva aiutata a intrecciare le perline d’argento nella pesante crocchia di capelli sulla nuca, ma Gwen liberò un ricciolo. Laurence aveva organizzato una cena per presentarla. Voleva apparire al meglio, sebbene il vestito non fosse quello nuovo a frange arrivato da Londra. Avrebbe aspettato l’arrivo di Fran per indossarlo, e poi avrebbero potuto esercitarsi insieme a ballare il charleston. Il vestito di quella sera era di seta verde chiaro con una scollatura bordata in pizzo, più profonda del solito. Era, ovviamente, a vita bassa, con svasature in chiffon che si aprivano sull’orlo, già pericolosamente corto. Bussarono alla porta.

«Prego».

Laurence aprì l’uscio e rimase a gambe leggermente divaricate, a guardarla.

Indossava un abito nero, una camicia bianca, panciotto e papillon bianchi, e aveva accennato una riga tra i capelli. Gwen si sentì tremare sotto il suo sguardo prolungato e trattenne il respiro.

«Io… Tu… Oddio, Gwendolyn!», riuscì a dire lui.

«Anche tu non sei affatto male, Laurence. Ormai mi ero abituata a vederti in calzoni corti».

Lui le andò incontro, la circondò con un braccio e le baciò il collo proprio sotto l’attaccatura dei capelli. «Sei incantevole».

Gwen adorò la sensazione del suo caldo respiro sulla pelle e seppe che la serata sarebbe stata magnifica. Chi poteva dubitare di un uomo come Laurence? Era così forte che bastava stargli accanto per sentirsi desiderati e al sicuro.

«Sul serio, li farai sfigurare tutti quanti con quel vestito».

Lei si guardò l’abito luccicante. «È piuttosto corto».

«Di tanto in tanto abbiamo tutti bisogno di una scossa. Non dimenticare lo scialle. Anche con il fuoco acceso può fare un po’ freddo dopo il tramonto, come probabilmente avrai notato ieri sera».

La sera prima Laurence era stato impegnato con gli affari della proprietà, e così l’intimo momento accanto al fuoco non si era materializzato. Alle nove, i domestici erano entrati uno a uno, rigorosamente in ordine d’importanza. Primo, il maggiordomo con il turbante, responsabile di tutta la casa, poi il capocuoco, o appu, come veniva chiamato, che o era mezzo calvo, oppure si era rasato fino a metà testa; i restanti capelli erano raccolti in una bizzarra coda. I lineamenti erano vagamente orientali, come se da qualche parte nel suo passato ci fosse un antenato proveniente dall’Indocina, e indossava un lungo grembiule bianco sopra un saròng blu e oro. Poi c’era Naveena, che portava del latte di capra caldo, addolcito da miele d’api che si usava al posto dello zucchero non raffinato, le aveva spiegato, prima di darle la buonanotte con un sorriso incantevole. Dietro di lei cinque domestici che stavano in riga e le augurarono la buonanotte all’unisono, e infine fu il turno dei coolie della cucina che si limitarono a fissarsi i piedi nudi e a fare un inchino. Conclusosi l’elaborato rituale del personale, Gwen era andata a letto da sola, accusando un forte dolore alla caviglia. Ora sorrideva al pensiero di quanto fosse stato strano.

«Che c’è da ridere?», disse Laurence.

«Stavo pensando al personale».

«Ti ci abituerai presto».

Laurence la baciò sulle labbra, la sua pelle profumava di sapone e limone. A braccetto lasciarono la stanza per andare in salotto, dove avrebbero bevuto un cocktail prima di cena.

«Che profumo ha la domestica?», chiese lei.

«Parli di Naveena?».

Gwen annuì.

«Chiamala per nome, ti prego, Gwen».

«Va bene. Allora, il profumo?»

«Non lo so. È probabilmente un misto di cardamomo e noce moscata. Ce l’ha da sempre».

«Da quanto tempo lavora qui?»

«Da quando mia madre l’ha assunta perché fosse la mia ayah».

«Povera Naveena, non oso immaginarti da bambino, a scorrazzare dappertutto».

Lui si mise a ridere. «Mia madre ha raccolto una sorta di storia di famiglia: lettere, fotografie, certificati di nascita, certificati di matrimonio, cose così. Comunque, penso che ci siano anche alcune foto di Naveena quand’era più giovane».

«Mi piacerebbe vederle. Voglio sapere tutto di te».

«Non le ho viste nemmeno io. Verity ha una scatola con tutte queste cose in Inghilterra. Non vedo l’ora che vi conosciate, a proposito».

«Che peccato che non sia venuta al nostro matrimonio. Perché non le chiedi di portare gli album di famiglia la prossima volta che verrà?».

Lui annuì.

«Naveena è stata anche la ayah di Verity?».

«No, Verity aveva come ayah una donna più giovane, e poi è andata in collegio. È stata dura per lei quando sono morti i nostri genitori, poverina. Aveva soltanto dieci anni».

Gwen annuì. «Cosa accadrà quando Naveena sarà troppo anziana per lavorare?»

«Ci prenderemo cura di lei. Passiamo dalla veranda», disse lui, e spalancò le alte portefinestre.

Gwen fece un passo avanti e rise. Fuori i rumori erano assordanti. Rattatà. Cip cip. Tap tap. I fruscii, i fischi e i gracidii gutturali aumentarono in un crescendo prima di affievolirsi e ricominciare daccapo. Poi ci fu uno scroscio di acqua corrente e un forte fri fri, e il canto delle cicale che riempivano l’aria umida. Tra gli arbusti scuri decine di minuscoli lampi di luce saettavano e svolazzavano.

«Lucciole», disse lui.

Gwen intravide delle fiaccole accese nei pressi del lago.

«Stavo pensando che dopo potremmo fare una passeggiata di mezzanotte», disse Laurence. «Il lago è meraviglioso quando è illuminato soltanto dalle fiaccole e dalla luna».

Lei sorrise, incapace di contenere il piacere per quella chiassosa serata. «Mi piacerebbe tanto».

«E la sera ci sono meno probabilità di incappare in un bufalo d’acqua. Hanno la vista debole, quindi tendono a sguazzare nel lago solo di giorno, quando fa caldo».

«Oh mio Dio, davvero?»

«Sono pericolosi, e incornano o calpestano se si sentono particolarmente aggressivi».

«Per l’amor del cielo!».

«Non temere, non ce ne sono molti qui. Abbondano su, a Horton Plains».

Tornarono in salotto. Florence Shoebotham e suo marito Gregory furono i primi ad arrivare. Mentre Laurence e il signor Shoebotham discutevano vicino all’armadietto dei liquori, Gwen sorseggiò uno sherry e parlò del più e del meno con la moglie. Era una donna grossa, con i fianchi larghi e le spalle strette tipiche delle matrone inglesi. Indossava un vestito giallo chiaro a fiori lungo fin quasi alle caviglie, e aveva una voce molto acuta e stridula, che suonava strana in una persona della sua stazza.

«Santo cielo, sei proprio piccola piccola», disse Florence, con il mento che tremolava mentre parlava. «Mi auguro che tu sia in grado di resistere».

Gwen ce la mise tutta per non ridere. «Resistere?».

Florence sprimacciò il cuscino dietro di sé, lo afferrò e poi si avvicinò a Gwen sul divano. Aveva la fronte bassa e i suoi capelli erano di uno scolorito sale e pepe, ispidi e apparentemente difficili da gestire. Gwen percepì un odore misto di gin e sudore.

«Sono sicura che ti abituerai presto alle nostre usanze. Segui il mio consiglio, ragazza, e non essere troppo amichevole con i domestici. Non è il caso. A loro non piace e non ti porteranno rispetto».

«Sono sempre stata gentile con la domestica, in Inghilterra».

«Qui è diverso. La gente dalla pelle scura è diversa. Con la gentilezza non otterrai buoni risultati. Neanche un po’. E i meticci sono ancora peggio».

Mentre venivano annunciate altre coppie, Gwen si sentì a disagio. Conosceva la parola “meticcio”, ma non le piaceva per niente che fosse usata in quel modo.

«Trattali come bambini, e tieni d’occhio il tuo dhobi. Proprio la settimana scorsa ho scoperto che il mio pigiama di seta cinese era stato scambiato con un vecchio straccio che di sicuro veniva dal mercato di Hatton».

A quel punto Gwen era completamente nel pallone. Come poteva tenere d’occhio il dhobi se non sapeva nemmeno chi, o che cosa, fosse un dhobi?

Si guardò attorno. Avrebbe dovuto essere una cena intima, ma c’erano più di una decina di coppie ormai, e molto spazio per altre ancora. Cercò di attirare l’attenzione del marito e non riuscì a trattenersi dal ridere quando vide Laurence assorto nella conversazione con un uomo calvo, le cui orecchie spuntavano dalla testa ad angolo retto. Una specie di uomo-teiera.

«Probabilmente stanno parlando del prezzo del tè», disse Florence, seguendo il suo sguardo.

«Ci sono dei problemi con il prezzo del tè?»

«Oh no, cara, tutt’altro. Stiamo andando a gonfie vele. La nuova Daimler di tuo marito dovrebbe essere una prova sufficiente».

Gwen sorrise. «È splendida».

Un domestico vestito di bianco, in piedi accanto alla porta, suonò un gong d’ottone.

«Sei hai qualche domanda, non farti problemi. Chiedi pure. Sarò felice di aiutarti. Mi ricordo come ci si sente da giovani e appena sposati. Bisogna occuparsi di così tante cose». Florence le tese la mano e Gwen si alzò in piedi per aiutarla ad alzarsi.

Il soggiorno era bello, con tutti i candelabri d’argento accesi. Tutto luccicava o scintillava, e l’aria profumava di fresco grazie ai piselli odorosi sistemati in vasi di vetro sparsi per la stanza. Gwen scorse una donna giovane e curata che faceva un gran sorriso a Laurence. Aveva gli occhi verdi, gli zigomi pronunciati, e un collo lungo. I suoi capelli biondi erano acconciati in modo da sembrare un caschetto ondulato sul davanti, ma quando si voltò di lato, Gwen vide che erano lunghi ed elegantemente raccolti sulla nuca. Era pesantemente ingioiellata di rubini e indossava un semplice vestito nero. Gwen cercò di attirare la sua attenzione. Forse non sarebbe andata così male dopo tutto.

L’uomo mite e occhialuto seduto alla sua sinistra si presentò con il nome di Partridge. Lei notò che aveva il mento leggermente sporgente, piccoli baffi irsuti e occhi verdi dallo sguardo gentile. Lui si augurò che la padrona di casa si stesse ambientando e le disse di chiamarlo John.

Si intrattennero a chiacchierare, e presto ebbero gli occhi di tutti puntati addosso, ma poco dopo la conversazione si spostò sull’ultimo pettegolezzo arrivato da Nuwara Eliya, chi era chi, e cosa avevano fatto, e a chi, e perché. Gwen non afferrava gran parte dei discorsi. Non conosceva nessuna delle persone coinvolte e le importava anche poco. Soltanto quando la tavolata si fece silenziosa e l’uomo-teiera sbatté il pugno sul tavolo, lei trasalì e prestò attenzione.

«È una maledetta disgrazia, se volete sapere la mia opinione. Bisognava sparare a tutti».

Ci furono diversi “udite, udite” da parte di un paio di persone mentre l’uomo continuava la sua tirata.

«Di cosa stanno parlando, John?», sussurrò Gwen.

«Ci sono stati disordini a Kandy recentemente. Pare che il governo britannico abbia reagito piuttosto duramente agli oppositori. Questo ha provocato una rivolta. Fatto sta che in giro si dice che non sia stata assolutamente una protesta contro i britannici, ma una specie di commemorazione».

«Quindi non siamo in pericolo?».

Lui scosse la testa. «No. È solo un pretesto per far ciarlare i vecchi colonnelli. È cominciato tutto circa dieci anni fa quando i britannici hanno sparato a un gruppo di musulmani. È stata una terribile cantonata, a dire il vero».

«Non sembra una bella situazione».

«No. Vedi, il Congresso Nazionale di Ceylon non sta chiedendo l’indipendenza, ma soltanto più autonomia». Scosse la testa. «Ma, se vuoi la mia opinione, dobbiamo procedere con più cautela. Con tutto quello che sta succedendo in India, non manca molto perché Ceylon la segua a ruota. È ancora prematuro, ma ricorda le mie parole, il malcontento serpeggia».

«Santo cielo, sei un socialista?»

«No, cara, sono un dottore».

Lei sorrise.

«Il problema è che soltanto tre persone di Kandy sono state elette nel Consiglio, e così quest’anno alcuni di loro hanno lasciato il Congresso Nazionale di Ceylon e hanno creato al suo posto l’Assemblea Nazionale kandyana. Dobbiamo tenere gli occhi aperti sia su quest’ultima sia sulla Young Lanka League, che stanno cominciando a fomentare l’opposizione contro i britannici».

Gwen lanciò un’occhiata a Laurence all’altro capo del tavolo, sperando che desse il segnale convenuto perché le signore si ritirassero nel salotto, ma lui guardava altrove con gli occhi socchiusi.

«Diamo loro da mangiare», stava dicendo un altro degli uomini, «ci occupiamo di loro, mettiamo loro un tetto sopra la testa. Soddisfaciamo abbondantemente tutti i requisiti. Che altro vogliono? Personalmente…».

«Ma potremmo fare molto di più», lo interruppe Laurence, cercando di mantenere il controllo. «Io ho costruito una scuola, anche se ancora pochi bambini la frequentano. È ora di trovare una soluzione».

Una ciocca di capelli gli si era rizzata sulla fronte, un chiaro segno che ci aveva infilato le dita. Gwen si rese conto che era una cosa che faceva quando si sentiva a disagio. Quel ciuffo lo faceva sembrare più giovane e a lei venne una voglia disperata di abbracciarlo.

Il dottore le diede un colpetto sulla mano.

«Ceylon è… be’, Ceylon è Ceylon. Ti farai presto un’impressione tua», disse. «Il cambiamento è ancora lontano, ma non rimarremo per sempre immuni al messaggio di Gandhi. Lo swaray».

«Swaray

«L’autodeterminazione».

«Capisco. E sarebbe una cosa sbagliata?»

«Ora come ora, chi lo sa».

Dopo che tutti gli invitati se ne furono andati, Gwen guardò emozionata Laurence entrare in camera e cadere sul letto a gambe aperte. Con il fuoco che ancora ardeva, la stanza era troppo calda. Sarebbero scesi al lago insieme?

«Forza, tesoro», disse lui. «Vieni qui da me».

Lei gli si avvicinò e si stese sopra il copriletto, completamente vestita. Laurence si mise a sedere, appoggiandosi su un gomito, e sorrise.

«Dio, come sei bella».

«Laurence, chi era la donna bionda vestita di nero?»

«Di nero?»

«Sì, ce n’era solo una».

Si accigliò. «Probabilmente ti riferisci a Christina Bradshaw. È una vedova americana. Era la moglie di un banchiere, Ernest Bradshaw, il che spiega perché portasse tutti quei gioielli».

«Non mi è parsa una vedova addolorata». Fece una pausa e guardò il suo bellissimo volto, così ben fatto. «Laurence, mi ami, vero?».

Lui sembrò sorpreso. «E questa domanda da dove salta fuori?».

Gwen si morse le labbra, chiedendosi come avrebbe proseguito a quel punto. «Ma tu non… quello che voglio dire è che mi sono sentita un po’ sola da quando sono arrivata alla piantagione. Io voglio stare con te».

«Sei con me ora».

«Non intendevo questo».

Ci fu un breve momento di silenzio, durante il quale Gwen non poté fare a meno di sentirsi un po’ insicura. «Che albero è quello fuori dalla mia finestra?», chiese. «Sembra quasi un ciliegio».

«Oh Signore, non avrai mica assaggiato uno di quei frutti, vero?».

Lei annuì.

«Sono amari. Ci fanno il chutney. Non li ho mai toccati». All’improvviso lui le fu sopra e poi, tenendola ferma, la baciò sulla bocca. Le piacque il lieve sentore di alcol che emanava, e piena di aspettative, schiuse le labbra. Quando lui tracciò il contorno della sua bocca con un dito, Gwen sentì i muscoli sciogliersi. Poi però accadde qualcosa di strano. Laurence trattenne il respiro e si irrigidì, un barlume sinistro gli apparve negli occhi. Gwen gli sfiorò la guancia con l’intenzione di scacciarlo, ma lui la fissò – quasi la trapassò con lo sguardo – come se non sapesse chi fosse. Dopo un attimo, deglutì in fretta, si alzò e se ne andò.

Sul momento Gwen rimase immobile, poi si precipitò alla porta per chiamarlo. Le bastò fare solo qualche passo in corridoio per accorgersi che lui era già per le scale. A quel punto tornò nella sua stanza, non volendo che un domestico la sorprendesse a correre dietro al marito. Una volta all’interno, si appoggiò alla porta per riprendere fiato. Profondamente amareggiata dall’improvviso abbandono, chiuse gli occhi e lasciò che una cupa sensazione di solitudine si impadronisse di lei. Ormai svanito era anche il sogno di passeggiare a mezzanotte lungo il lago alla luce di una fiaccola. Ma che diavolo gli era preso?

Si svestì e si infilò a letto. Non era abituata a quel genere di emozioni e si sentì confusa. Desiderò sentire le braccia di Laurence attorno a sé, mentre veniva invasa da una forte nostalgia di casa. Suo padre le avrebbe dato un colpetto sulla mano e le avrebbe detto: “Testa alta”; sua madre invece le avrebbe lanciato un’occhiata piena di dispiacere e le avrebbe preparato una tazza di cioccolata. Sua cugina Fran avrebbe cercato di assumere un’espressione severa senza riuscirci, dicendole semplicemente di farsi forza. Avrebbe voluto assomigliare di più a Fran. Quella volta che sua cugina era andata da quella medium, madame Sostarjinskij, nessuno aveva approvato ma lei l’aveva fatto lo stesso; d’altronde non si poteva biasimarla, dopo che i genitori erano tragicamente morti nell’affondamento del Titanic.

Il pensiero di Laurence fece naufragare ogni tentativo di prendere sonno, e sospettando che sarebbe rimasta probabilmente sveglia tutta la notte, Gwen si sdraiò a pancia in su con gli occhi sbarrati. Lui doveva avere le sue ragioni, pensò, tuttavia proprio non riusciva a spiegarsi quello strano sguardo negli occhi. Per distogliere il pensiero dal marito assente, abbracciò il cuscino di piume e cercò di pensare invece alla cugina. Ora, a ventun anni, Fran poteva almeno accedere alla fortuna che i suoi genitori le avevano lasciato.

Infine, sfinita da un misto di eccitazione e ansia, Gwen si addormentò profondamente.