Capitolo 27
Mentre si chinava a raccogliere qualche penna che Hugh aveva fatto cadere sul pavimento del guardaroba, Gwen voltò il capo per guardare dalla finestra l’uomo che stava costruendo un’impalcatura di bambù fuori dal vecchio laboratorio per il formaggio. Ci erano voluti più di tre anni per cominciare, ma almeno adesso il lavoro era avviato. Non sapeva da dove iniziare per spiegare quel ritardo, che in realtà era dovuto a infinite discussioni su quale potesse essere un uso alternativo dell’edificio. A un certo punto avevano persino considerato l’idea di abbatterlo.
Gwen andò in sala da pranzo, dove il sole di agosto che penetrava dalle persiane disegnava strisce gialle sulle pareti. Fuori gli uccelli cantavano, ma il povero Hugh, che adesso aveva sette anni era seduto al tavolo e si grattava la testa rimuginando perplesso sulle sue addizioni. Gwen voleva che fosse ben preparato in matematica e in grammatica inglese prima di cominciare ad andare a scuola a Nuwara Eliya, dove avrebbe dormito in collegio durante la settimana, tornando a casa per il fine settimana.
Laurence aprì la porta. «Come sta andando?».
Gwen fece una smorfia. «Direi che l’aritmetica non è la sua materia preferita».
«Non era neanche la mia, devo ammetterlo».
Gwen sorrise. «Però disegna benissimo, Laurence. Che ne diresti di fargli prendere lezioni private?»
«Direi che sarebbe più sensato spendere soldi per qualche lezione privata di matematica».
Gwen sospirò. I disegni di Hugh erano molto più elaborati di quelli di Liyoni, tuttavia lei aveva conservato i tentativi della bambina di raffigurare alcune persone con enormi teste e i suoi disegni di strani animali che non avevano alcuna attinenza con quelli reali. Osava guardarli solo di notte, quando era sola. L’ultimo si era fatto attendere così a lungo che Gwen, in preda all’ansia, aveva mandato Naveena a controllare che fosse tutto a posto. Nei villaggi vicini era capitato che qualche bambino sparisse e fosse ritrovato qualche tempo al lavoro come bracciante a poco prezzo nelle risaie.
Gwen guardò Laurence e desiderò potergli parlare veramente. Dopo la festa di bentornato di tre anni prima, tutte le loro conversazioni parevano riguardare il denaro.
Lui sorrise. «Le cose non vanno poi così male. Uno dei pochi aspetti positivi di questa maledetta Depressione è che ha costretto i sindacati a moderare le pretese. La gente è troppo preoccupata per il lavoro per continuare con azioni radicali. So che un cambiamento è necessario, ma dobbiamo trovare il modo giusto per farlo».
Gwen si passò una mano sulla fronte. Nonostante più di trecento lavoratori immigrati fossero tornati in India, la sovrapproduzione e la Depressione avevano fatto crollare il prezzo del tè. Lei trovava orribile che così tante persone avessero perso il lavoro e con esso tutto ciò che possedevano al mondo. La loro condizione di povertà era veramente terribile.
«Il nostro problema principale al momento è cosa fare dei tàmil della piantagione», continuò Laurence. «Non concedere loro il diritto di voto è stato un grave errore. Alimenta solo la loro percezione di essere vittime di un’ingiustizia».
Gwen annuì. Dopo l’incendio le tensioni si erano diffuse in tutta Ceylon, con picchi più o meno intensi, anche se i tumulti più gravi erano stati quelli del 1931, quando tutti i braccianti, a parte i tàmil, avevano ottenuto il diritto di voto.
«Non capisco come si fa a considerarli ancora braccianti temporanei».
«Già. Come ho già detto, hanno solo peggiorato le cose», aggiunse Laurence.
Gwen continuava a tenere d’occhio i conti di casa e a tagliare con gran rigore le spese, ma di fatto vivevano ancora nel lusso. Sin da quando era piccola ogni respiro, ogni parola e ogni pensiero di Gwen erano stati rivolti all’essere moglie e madre, e aveva fatto del suo meglio. Ma era stato comunque triste veder morire ogni nuova speranza di Laurence di una nuova crescita dei profitti. Sebbene avesse brontolato parecchio quando il padre di Gwen si era offerto di pagare la retta scolastica di Hugh finché loro non si fossero ripresi, alla fine aveva accettato l’offerta con gratitudine.
«Hai notizie di Fran?», chiese Laurence.
«Verrà a trovarci tra qualche mese».
«Sono contento. Dobbiamo molto a tua cugina». Laurence arruffò i capelli del figlio. «Fa’ del tuo meglio per la mamma, Hugh, e domani ti porterò alla fabbrica. Intesi?».
Gli occhi di Hugh si illuminarono.
«Laurence, come mai Verity è di nuovo qui? A quanto pare non ha alcuna intenzione di lasciarci in pace».
Verity continuava a spuntare fuori a ogni occasione, con una sequela di scuse improbabili, da un tubo rotto che le impediva di lavarsi capelli, all’odore di pesce che le dava il mal di testa. Il matrimonio non aveva scalfito il suo attaccamento per il fratello, e adesso che quell’atteggiamento cominciava ad apparire piuttosto disperato, Gwen sentiva che doveva esserci sotto qualcosa.
Laurence aggrottò la fronte. «Davvero non lo so».
«E non riesci a scoprirlo? È qui da noi fin troppo spesso per una che si è sposata da poco. Se ha problemi con Alexander deve affrontarli, non scappare».
«Ci proverò, ma adesso devo andare. Vado a Hatton con il camioncino».
«Non prendi la Daimler?».
Lui distolse lo sguardo. «È ancora in garage a riparare».
Dopo che Laurence se ne fu andato, Gwen continuò a pensare a Verity mentre prendeva posto sulla sedia di fronte al figlio. Sua cognata continuava a essere soggetta a repentini sbalzi di umore, ma alla fine aveva sposato Alexander Franklin, un bravo ragazzo, sebbene un po’ insignificante. I due vivevano sulla costa, dove lui aveva un allevamento di pesci. Il matrimonio era stato celebrato sei mesi prima e aveva sorpreso tutti; Gwen era stata immensamente sollevata dalla notizia e aveva sperato che la vita matrimoniale facesse mettere la testa a posto a Verity. A quanto pareva le sue speranze erano state vane.
Guardò Hugh masticare l’estremità della penna e scrivere un’altra risposta. L’aritmetica era un vero ostacolo per lui e Gwen era preoccupata per come se la sarebbe cavata a scuola. I suoi capelli si erano scuriti e cadevano esattamente come quelli di Laurence, con un doppio strato e leggermente ondulati sulla fronte. Anche gli occhi di Hugh erano dello stesso marrone scuro di quelli del padre, mentre la pelle era chiara come quella di Gwen. Parlava ancora del suo amico immaginario, Wilf, come se fosse reale e a Laurence non piaceva.
Gwen stava per indicare a Hugh un errore di calcolo, quando Naveena entrò e si fermò sulla soglia.
Gwen alzò lo sguardo su di lei.
«Signora, posso parlarle un attimo?»
«Certo, vieni pure».
Ma Naveena indicò la porta con un cenno del capo e Gwen, vedendo lo sguardo preoccupato della vecchia ayah, si avvicinò immediatamente.
Gwen sedeva sulla panca del carro sovrastata dal telone ricurvo e si rigirava la fede nuziale intorno al dito. Erano passati sette anni dalla sua ultima visita al villaggio singalese, ma ricordava perfettamente le sensazioni che aveva provato. Superarono il punto in cui si era persa durante la sua assurda camminata sotto la pioggia e poco dopo svoltarono su una pista dissestata e fiancheggiata da alberi scuri piegati permanentemente dal vento.
La foresta era silenziosa, immersa in una cupa luce verde, ma quando uscirono in uno spazio aperto lo stesso odore di carbone e di spezie continuò a riempire l’aria. Quando raggiunsero la riva scoscesa del fiume, Naveena non si fermò, ma proseguì attraverso il villaggio fino a un punto in cui le sponde erano solo leggermente più alte del livello dell’acqua e il letto del fiume si faceva più ampio. Quel giorno il corso d’acqua era marrone e fangoso, non limpido e scintillante come in passato, e non c’erano elefanti intenti a farsi il bagno. C’erano invece diversi bambini che saltellavano su e giù lungo la riva, immergevano recipienti di terracotta e li portavano in equilibrio sulla testa.
Gwen smontò dal carro e li guardò chiamarsi l’un l’altro indicando il veicolo. Dopo qualche minuto però ripresero a ignorarlo e continuarono a farsi i fatti loro. I più piccoli avevano il ventre tondo e le costole che sporgevano più del normale. Era difficile dire quanti anni avessero, ma la loro età pareva andare dai tre agli undici o dodici. Gwen si concentrò per capire se tra loro ci fosse anche una ragazzina di sette anni.
«Oggi c’è vento forte», disse Naveena indicando la riva opposta, dove una bambina stava uscendo dall’acqua.
«Liyoni?».
Naveena annuì.
Incapace di smettere di fissarla, Gwen notò che la bimba era troppo magra. Indossava solo un saròng di cotone, che gocciolava dopo la nuotata nel fiume. I capelli legati all’indietro con una specie fiocco le ricadevano fino a metà schiena in una lunga treccia bagnata.
«A parte la magrezza mi pare che stia bene», disse Gwen voltandosi a guardare Naveena.
L’ayah le aveva solo detto che c’era un problema. Non aveva aggiunto altro.
«Qual è il problema?».
Naveena cominciò a spiegarle, ma Gwen era così concentrata a guardare la bambina tuffarsi di nuovo in acqua e nuotare verso la sponda opposta che smise di ascoltare. La testa della bimba emergeva dall’acqua, poi, un attimo dopo, tutto il suo corpo era completamente sommerso.
«Nuota come un pesce», disse Gwen, parlando più a se stessa che a Naveena.
«Aspetti, signora».
Mentre seguiva la scia che la bambina lasciava sull’acqua, Gwen continuava a meravigliarsi di quel modo audace di nuotare e dell’agilità con cui lei si spostava dalla sponda più lontana a quella più vicina del fiume.
Naveena le toccò un braccio. «Adesso».
Quando la bimba uscì dall’acqua, Gwen socchiuse gli occhi per osservarla meglio, ma solo quando lei cominciò a camminare lungo la riva capì quale fosse il problema.
«Zoppica».
«Sì».
«Cosa le è successo?».
Naveena scrollò le spalle. «Questa è solo una parte del problema. La madre adottiva non vuole più occuparsi di lei. È malata e gli altri suoi due figli sono andati a vivere dalla nonna».
«Quindi adesso chi si sta prendendo cura di Liyoni?»
«Dalla scorsa settimana, nessuno».
«Chiamala, per favore».
Naveena chiamò la bambina e le fece cenno di avvicinarsi. All’inizio lei continuò semplicemente a camminare come se fosse intenzionata a ignorarle, poi invece si voltò e le fissò. Fece qualche passo barcollante nella loro direzione e poi si fermò di nuovo.
Naveena le parlò in singalese e la bambina scosse la testa.
«Che succede?», chiese Gwen. «Perché non viene».
«Le dia qualche minuto. Ci sta pensando».
Gwen la osservò e comprese la sua ritrosia. L’istinto sviluppato dei nativi doveva averla avvisata che stava succedendo qualcosa di insolito.
«Dille che è al sicuro, che non le faremo del male».
Naveena parlò di nuovo e questa volta Liyoni scosse il capo imbarazzata, ma si avvicinò. Gwen fece una smorfia nel vederla zoppicare. «Dici che le fa male?»
«Credo di sì».
Mille pensieri turbinavano nella mente di Gwen, che chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide la bambina camminare verso il carro e fermarsi a pochi passi di distanza. Quando il sole illuminò il visetto di Liyoni, Gwen si sentì mozzare il fiato nel constatare che gli occhi marroni della bambina erano screziati da sfumature del suo stesso colore viola.
«Non c’è nessuno che possa badare a lei?».
Naveena scosse la testa. «Ho già chiesto, signora».
«Sei sicura?».
Gwen rimase in silenzio e tentò di riflettere, ma un senso di panico strisciante, che le saliva in gola, impediva al suo cervello di funzionare. Si affannò a cercare una soluzione, ma sebbene i suoi pensieri volassero in centinaia di direzioni diverse, alla fine convergevano sempre tutti sull’immagine di casa sua. Quando chiudeva gli occhi riusciva a vedere solo la piantagione e tutto ciò che vi aveva costruito in quegli anni. Non era solo la propria rovina che temeva, ma anche il dolore che avrebbe causato a Laurence. Seppellì il volto tra le mani. Non poteva sperare che la perdonasse, ma se Naveena non era riuscita a trovare una casa per Liyoni…
Quando Gwen rialzò lo sguardo sentì odore di legno che bruciava e di cibo cucinato. Ma nessuno stava cucinando per Liyoni.
«Non c’è proprio nessuno?».
L’ayah scosse la testa.
«Neanche in cambio di altro denaro?»
«Hanno paura della bambina. Non è una di loro».
Gwen chiuse gli occhi e ascoltò i suoni della vita intorno a sé, con un unico pensiero in mente.
«Non possiamo lasciarla qui abbandonata a se stessa».
Quando finalmente fu del tutto consapevole di ciò che doveva fare, la paura le svuotò completamente i polmoni. Si asciugò le mani sudate sulla gonna e, nonostante i profondi dubbi che l’attanagliavano, prese la sua decisione. Non aveva altra scelta, perciò si ricompose e deglutì prima di parlare.
«Bene. Vuol dire che verrà con noi».
Il sopracciglio inarcato di Naveena rivelò tutta la sua angoscia.
«Quando ha i capelli asciutti», chiese Gwen, «ha i riccioli uguali ai miei?».
Neveena annuì.
Gwen si mordicchiò l’interno della guancia fino a farlo sanguinare.
«Se tiene i capelli legati all’indietro in una treccia e indossa abiti semplici nessuno immaginerà che abbia qualcosa a che fare con me. Ci sarebbe solo l’insolito colore degli occhi, ma nessuno starà lì a cercare somiglianze, o no?».
Naveena gonfiò le guance e sospirò.
Per un istante Gwen riuscì a prendere le distanze dalle proprie paure, che lasciarono il posto a un desiderio più primitivo: quello di essere la madre di sua figlia.
«Allora è deciso. Diremo che è una tua parente, che è venuta a imparare il lavoro di domestica e di aiutante di un’ayah. Puoi spiegarglielo?».
Naveena parlò dolcemente alla bimba, mentre Gwen osservava la scena con il cuore che le batteva forte. All’inizio lei scosse la testa e si ritrasse, ma Naveena le prese la mano e indicò la gamba ferita. Anche la ragazzina la guardò, poi alzò lo sguardo su Gwen e disse qualcosa in singalese.
«Cosa ha detto?»
«Vuole sapere se potrà ancora nuotare se viene con noi».
«Dille che potrà nuotare nel lago tutti i giorni».
Questa volta Liyoni sorrise nel sentire le parole di Naveena.
«Le ho spiegato tutto, signora. Sa già che la madre adottiva se n’è andata e che adesso è sola. Ovviamente lei pensa che sia la sua vera madre ed è molto triste».
Gwen sentì all’improvviso un groppo in gola e annuì, incapace di parlare. Singhiozzò, e Naveena, vedendola in preda a quella forte emozione, si concentrò sulla bambina in modo da concederle un momento per riprendersi. Gwen si sentiva male per il senso di colpa e la vergogna. La ragazzina aveva perso la sua famiglia. Tentò di convincersi che sarebbe andato tutto bene, ma non riuscì a liberarsi della paura che era legata a doppio filo ai sentimenti che provava per quella bambina.
«Ha molte cose da portare con sé?»
«No. Andiamo a prenderle. Lei aspetti qui».
Mentre Naveena e la bimba si allontanavano, Gwen scrutò il sentiero in terra battuta. Una famigliola di scoiattoli si rincorreva tra i rami squittendo. Poco lontano, due donne con indosso un sari colorato e una tunica bianca portavano in equilibrio sulla testa due grosse ceste. Un’altra donna si fermò accanto al carro e la fissò. Aveva le labbra carnose, il naso fino e gli occhi cerchiati di nero. Gwen si coprì il volto con lo scialle.
Aveva sempre pensato che Ceylon fosse il luogo in cui i sogni dell’impero britannico si erano realizzati, dove la gente aveva fatto fortuna, le famiglie inglesi avevano vissuto e fatto nascere i propri figli, e dove la sua vita era cambiata in un modo che non avrebbe mai osato immaginare. Ma quello che aveva di fronte ora era un mondo diverso, dove le ragazzine se ne andavano in giro con indosso una semplice canottiera di cotone e una gonna lacera, i bimbi piccoli gorgogliavano e si rotolavano nella sporcizia e la gente non aveva abbastanza da mangiare.
Naveena riportò indietro Liyoni vestita come le altre ragazze e con un fagotto sottobraccio.
Gwen guardò il cielo. Nuvole cariche di pioggia si stavano ammassando all’orizzonte. Sarebbe stata una fortuna riuscire a rientrare prima del temporale.
Durante il lungo viaggio di ritorno Gwen si sentì così male che Naveena dovette fermarsi due volte per permetterle di vomitare nei cespugli. Tra un accesso di nausea e l’altro, lei e l’ayah elaborarono un piano.
Una volta tornate a casa Gwen aiutò la bambina a scendere dal carro e la avvolse nel suo scialle per proteggerla dalla pioggia. Guardò la porta d’ingresso e con il cuore in gola decise di girare intorno alla casa costeggiando il lago per entrare dalla portafinestra della veranda. In questo modo si riducevano le possibilità di essere notate, anche se quell’espediente implicava bagnarsi parecchio.
Quando Naveena tornò indietro per occuparsi del carro, Liyoni fece per seguirla. Ma Gwen scosse la testa e prese la mano della bambina, che per quanto spaventata non si oppose e andò con lei a capo chino.
Quando passarono davanti al salone, videro Verity in piedi di fronte alla finestra, con indosso un ampio abito giallo, apparentemente intenta a osservare il giardiniere che tagliava l’erba. Alzò un braccio per salutare e Gwen vide la sua mano bloccarsi a mezz’aria, come a riflettere l’espressione sorpresa che si era dipinta sul suo volto.
Una folata di vento le investì e Gwen, battendo i denti per la paura, annuì e si affrettò a raggiungere la sua stanza, intenzionata a far passare la ragazzina dalla nursery il più in fretta possibile. Maledizione! Proprio Verity! Il maggiordomo aveva tenuto d’occhio Hugh tutto il giorno e quando lei sentì suo figlio giocare al piano di sopra fu sollevata nell’accorgersi che era occupato con i suoi trenini, proprio come aveva sperato. Non riusciva a immaginare come avrebbe potuto prendere l’idea di un altro bambino in casa.
Fece cenno a Liyoni di seguirla ed entrò, fermandosi solo il tempo necessario a chiudere le finestre e la porta della camera dall’interno. Poi prese uno scialle asciutto e tolse dalle spalle di Liyoni quello bagnato. Infine, passando per il bagno e la porta di servizio, in un attimo raggiunsero la nursery, il loro temporaneo rifugio. Prima di perdere coraggio Gwen chiuse le tende tagliando fuori la luce e qualsiasi altro curioso che poteva aver notato il loro arrivo. Infine si appoggiò alla parete con il capo chino. Come avrebbe gestito la curiosità di Verity? Calmò il ritmo del suo respiro e chiuse gli occhi per frenare le lacrime. Naveena non c’era, ma Gwen sapeva che stava raccogliendo le sue cose per poi raggiungerle lì nella nursery, dove avrebbe dormito insieme alla bambina.
Gwen voleva far togliere a Liyoni i vestiti bagnati e glielo comunicò a gesti, ma la ragazzina scosse la testa e rimase a fissarla.
«Tu, Liyoni», disse Gwen indicando la bimba. «Io, Gwen. Sono la padrona».
Tentò di dire qualche parola in singalese, ma con scarsi risultati. Esitò. La bambina aveva un’aria dubbiosa e imbronciata. Gwen si sentiva confusa. Non sapeva nulla di Liyoni. Né del suo carattere, né di come fosse stata la sua vita fino a quel momento. Non sapeva cosa le piacesse e cosa no. Tese una mano a sua figlia, ma la piccola abbassò gli occhi sul pavimento e non reagì. Gwen sentì di nuovo un groppo alla gola. Ma qualsiasi cosa fosse accaduta, non doveva piangere.
Realizzò lo sforzo che la bambina avrebbe dovuto fare per accettare la sua nuova vita, e anche lo sforzo che avrebbe dovuto fare lei per assicurarsi che fosse trattata bene. Il senso di disagio aumentò quando udì la voce della cognata che la chiamava dal corridoio fuori dalla sua stanza. Gwen rabbrividì rendendosi conto del rischio che stava correndo.