Capitolo 22
Lungo la strada del ritorno, Gwen non riuscì a smettere di pensare a Fran. Le mancava il suo spirito indomito e il modo in cui i suoi capelli castani scintillavano quando li scuoteva. Aveva nostalgia dei suoi ridenti occhi azzurri e avrebbe dato qualsiasi cosa per poter colmare l’abisso che si era aperto tra loro a Londra. A Gwen pareva di aver smarrito qualcosa di inestimabile. Per lei Fran era la sorella che non aveva mai avuto, o forse qualcosa di più. In fin dei conti, erano inseparabili sin dall’infanzia, ed erano sempre state migliori amiche finché Mr Ravasinghe non era comparso nelle loro vite.
Voleva togliersi dalla testa quell’uomo, perciò, visto che la pioggia li aveva risparmiati per la maggior parte del viaggio, tentò di intavolare una conversazione con Nick McGregor. Tuttavia le vibrazioni rumorose del motore, specie sulle strade rese accidentate dal maltempo, non le facilitarono il compito.
«Mi dispiace se talvolta non siamo stati sulla stessa lunghezza d’onda», disse approfittando di un momento di relativa quiete.
«Già», rispose lui, cambiando immediatamente argomento. «Ma guarda in che stato sono queste strade! Sono migliorate rispetto a qualche anno fa, ma insomma. Il monsone le riduce sempre in uno stato pietoso».
«E come va con i lavoratori quando fa così brutto tempo?»
«Le cose non sono sempre facili, lo ammetto. I bambini si ammalano».
Gwen si accigliò. «Pensavo che fornissimo assistenza medica».
«Solo il minimo indispensabile, Mrs Hooper. In realtà mettiamo a loro disposizione solo un farmacista».
«Non si occupa il dottor Partridge di loro?».
McGregor rise. «Non dei tàmil. A loro provvede un tipo singalese, uno di Colombo. Ma ai tàmil non piace».
«E perché no?»
«Perché è singalese, Mrs Hooper».
Gwen sbuffò di irritazione. «Allora assumiamo un dottore tàmil, qualcuno che possa capirli meglio».
«Oh, ma il dottore parla perfettamente il tàmil».
«Non mi riferivo alla lingua. Intendevo dire qualcuno che comprenda meglio la loro cultura», disse Gwen lanciando un’occhiataccia a McGregor.
«Temo che non ci siano dottori tàmil disponibili. Lei è incredibile. La prossima cosa che proporrà sarà di pagare loro la malattia».
«Sarebbe un’idea così brutta? Il benessere di quella gente è importante».
«Lei non capisce come funziona la mente di questi indigeni, cara signora. Se concede loro ciò che vogliono cominceranno a inventarsi malattie immaginarie e mentire su qualsiasi cosa. E a quel punto a noi non rimarrebbe più nessuno che lavori il tè».
Gwen fece un bel respiro profondo e dovette accettare il fatto che qualsiasi cosa avesse da dire, non sarebbe stata rilevante. Nick McGregor era assolutamente convinto di avere ragione.
«Tra l’altro, con tutti i tagli che mi toccherà fare, non ci saranno soldi a sufficienza per spese extra. Mia cara signora, lasci che dei lavoratori mi occupi io».
Gwen espirò lentamente. «Di che tagli parla, Mr McGregor?»
«Dovrò ridurre il numero dei braccianti. Dovremo mandarne a casa circa duecento. Alcuni se ne sono già andati».
Lei scosse la testa. «Non mi ero resa conto che la situazione fosse così grave. E cosa faranno?»
«Torneranno in India immagino».
«Ma alcuni di loro sono nati qui. L’India non è casa loro».
Lui le lanciò un’occhiata e i loro sguardi si incrociarono per un breve istante. «Questo non è un mio problema, Mrs Hooper».
Gwen ripensò alla mendicante con il coltello per tagliare i cespugli e provò un senso di vergogna. Forse era una di quelle lavoratrici che aveva appena perso il lavoro. «Mi piacerebbe imparare la loro lingua».
McGregor inclinò la testa di lato.
Rimasero in silenzio, mentre percorrevano un lungo tratto di strada tortuoso e pieno di salite. Gwen osservava la fitta nebbia fuori dal finestrino, pensando a Laurence.
Fu McGregor a parlare per primo.
«Immagino che le mancherà suo marito», disse.
Lei annuì e sentì una certa tensione attorno agli occhi. «Sì è così. E lei? Non ha famiglia?»
«Mi rimane solo mia madre».
«E dove abita?»
«A Edimburgo».
«In tutto il tempo che ho trascorso qui non ricordo che lei sia mai andato a trovarla».
Lanciò un’occhiata a McGregor, che scrollò le spalle. «Non siamo molto uniti. La mia vera famiglia è stato l’esercito, finché non sono stato ferito al ginocchio».
«È così che ha conosciuto Laurence?»
«Sì. È stato lui a darmi un lavoro quaggiù e poi, quando è partito per la guerra, mi ha affidato le redini dell’azienda. Mi dispiace se a volte risulto un po’ brusco, ma conosco ogni angolo della piantagione. L’ho amministrata per quattro anni e a volte mi riesce difficili e ascoltare le opinioni altrui in proposito».
«E non si è mai sposato?»
«Se non le dispiace, Mrs Hooper, preferirei non parlare della questione. Non tutti siamo così fortunati da trovare il compagno della nostra vita».
Il resto del viaggio trascorse con incredibile lentezza e solo al calare della sera i due compagni di viaggio arrivarono finalmente a casa. Gwen fu sorpresa nel vedere la macchina di Verity ancora parcheggiata fuori. Non appena fu dentro casa, udì delle voci provenire dal salotto e spalancò la porta.
Spew se ne stava tranquillo nella sua cesta, accanto a Mr Ravasinghe, che sedeva sul divano con aria rilassata, fumando un sigaro. A Gwen venne un colpo quando se lo ritrovò in salotto e, improvvisamente disorientata, sentì la mascella irrigidirsi e il cuore cominciare a batterle all’impazzata.
«Mr Ravasinghe», riuscì a dire. «Non mi aspettavo di trovarla qui».
Lui si alzò in piedi e fece un piccolo inchino. «Abbiamo portato fuori il cane. Credo che adesso puzzi un po’».
Gwen era talmente scossa che non riusciva a credere che non si notasse. Quando parlò, tuttavia, le riuscì di mantenere la voce ferma. «Di solito rimane nella stanza del guardaroba finché non si è asciugato».
«Oh, colpa mia», disse Verity con un sorriso. «Scusa».
Gwen si voltò verso sua cognata. «Pensavo che fossi già partita per Nuwara Eliya, Verity».
«Nuwara Eliya? E perché mai?»
«Per cominciare il tuo nuovo lavoro».
Verity agitò una mano con fare noncurante. «Oh, quello! Non se ne è fatto più nulla».
Già irritata dall’aver scorto Christina a Colombo, e terrorizzata alla vista di Savi Ravasinghe, Gwen trattenne il fiato. Si era sforzata di riprendersi dalla sua malattia, di assicurarsi che la vita alla piantagione tornasse alla normalità, che i pasti fossero serviti in orario, che le stanze fossero pulite come conveniva e che i conti quadrassero, e tuttavia Verity riusciva ancora a farla imbestialire.
«Va bene se Savi resta qui stanotte?», disse lei con un ampio sorriso. «Sono sicura che dirai di sì. In effetti, ho già ordinato a uno dei domestici di preparare il letto nella stanza accanto alla mia. Sarebbe molto imbarazzante se ora dicessi di no».
Momentaneamente sconfitta, Gwen non sorrise. Doveva scegliere accuratamente le sue battaglie. Giunse le mani dietro la schiena e si conficcò le unghie nel palmo. Poi, mantenendo un atteggiamento composto, rispose: «Ma certo. Mr Ravasinghe deve senz’altro fermarsi a dormire. Ora, se volete scusarmi, ho avuto una giornata lunga e stancante. Hugh è a letto?»
«Sì. Ho dato la serata libera a Naveena e l’ho messo io a dormire. Lui e Wilf hanno cantato insieme La pecora nel bosco». Verity lanciò un’occhiata al polso di Gwen. «Santo cielo, ma quello non è il braccialetto con i ciondoli che tua cugina aveva perso? Quello per cui aveva alzato un gran polverone?»
«Sono sorpresa che tu lo riconosca. Non li trovi tutti uguali questi braccialetti?»
«Ho notato il ciondolo con il tempio, ecco tutto. Quindi è sempre stato qui?».
Gwen scosse la testa in segno di diniego e notò che Verity aveva esitato un momento di troppo prima di risponderle alla sua domanda.
«Da dove spunta allora?»
«Da un negozio di Colombo».
«Se vuoi il mio parere, dovresti cominciare a tenere d’occhio Naveena».
Gwen serrò la mascella e uscì dalla stanza, imponendosi di non replicare. Che coraggio aveva quella ragazza, pensò, mentre percorreva il corridoio. “Naveena, certo! Potrai anche ingannare tuo fratello, Verity, ma non mi stupirei se venisse fuori che sei stata tu a prendere il braccialetto”.
Il mattino successivo la giornata si preannunciò fin da subito molto calda, l’aria solitamente fresca del mattino si fece immediatamente pesante. Rivedere Savi Ravasinghe aveva lasciato l’amaro in bocca a Gwen e riportato in superficie brutti ricordi. Il cuore che le batteva all’impazzata le aveva consentito a malapena di dormire, ma era intenzionata a non rivederlo ancora prima che partisse, perciò fece in modo di tenersi occupata.
Nonostante la stanchezza che provava, decise di andare a supervisionare la produzione di formaggio prima che facesse troppo caldo. Il garzone che l’aveva sostituita durante la sua malattia aveva fatto un buon lavoro, ma era ora di riprendere in mano le redini della sua piccola attività. Le mancava la sensazione di orgoglio che le dava produrre qualcosa di un po’ più complicato di un semplice cuscino ricamato.
Mentre chiudeva la porta laterale e dava un’occhiata al cortile, notò con soddisfazione che i bulbi che aveva piantato erano in fiore. Era sorprendente quanto crescessero bene lì alcune varietà di fiori inglesi. Rose, garofani, persino i piselli odorosi.
Hugh era uscito insieme a lei e spingeva un carrellino.
«Vieni, Hugh», disse Gwen, sentendosi ancora sulle spine, ma facendo del suo meglio per dissimularlo. «Non vuoi vedere la mamma che fa il formaggio?»
«Noo, voglio giocare qui con Wilf».
«Molto bene tesoro. Ma ricordati di non nasconderti tra gli alberi».
«Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì».
Gwen rise. «Va bene. Mi pare che tu abbia capito. Se decidi di rientrare in casa, vieni prima a dirlo alla mamma».
Aprì la porta del piccolo laboratorio e la lasciò socchiusa, in modo da poter sentire Hugh canticchiare allegro tra sé. Gwen si guardò intorno. La produzione del formaggio aveva su di lei uno straordinario effetto rassicurante, pertanto sorrise, felice di sentirsi di nuovo nel suo territorio. Era tutto in ordine. La lastra di marmo su cui mescolava il latte era pulita alla perfezione, ma nell’aria era rimasto un tenue odore acido, e qualcuno aveva lasciato aperta la finestra. “Che strano”, pensò, “non la lasciamo mai aperta”.
La richiuse per evitare che gli insetti entrassero e contaminassero il latte. Poi diede un’altra passata alle superfici per assicurarsi che fossero perfettamente pulite. Si avvicinò al bidone del latte e, spostandolo di lato, notò che perdeva sul retro. Pulì per terra e inclinò il contenitore per versare un po’ di latte nella grande padella che usavano per riscaldarlo. Poi uscì per chiedere a un garzone delle cucine di aiutarla a trasportarlo, ma una volta fuori, realizzò che il cortile era assolutamente silenzioso. Troppo silenzioso.
«Hugh, dove sei?», chiamò.
Non ci fu alcuna risposta.
Disse al garzone ciò di cui aveva bisogno e andò a controllare tra gli alberi.
«Hugh, sei lì?».
Nessuna risposta.
Fece per rientrare in casa, ma si fermò sulla soglia. Se fosse tornato dentro, Hugh l’avrebbe informata e comunque lei avrebbe dovuto sentire il rumore della porta. Attraversò il giardino e giunta sul limitare del boschetto udì dei cani abbaiare sul sentiero che si apriva di fronte a lei. Hugh doveva essersi inoltrato tra gli alberi per seguirli.
Gwen fece qualche passo in quel corridoio alberato e, un istante dopo, perse l’equilibrio quando Hugh andò a sbattere contro di lei.
«C’è una bambina, mamma. Una bambina grande».
Gwen si sedette per terra e si accigliò quando Spew e Ginger le saltarono in grembo e cominciarono a leccarle la faccia. Li scacciò e si asciugò il viso con una manica.
«Intendi una persona reale Hugh?»
«Sì. Non riesce ad alzarsi, mamma. Spew l’ha sentita e io e Ginger ce lo siamo seguito».
«Si dice “l’abbiamo seguito”, tesoro», disse Gwen alzandosi e spazzolandosi i vestiti. «Guarda che disastro».
«Mamma, dai, vieni!».
«Immagino che sia meglio che tu mi faccia vedere questa ragazza, sempre che esista».
Hugh le afferrò una mano e prese a tirare.
Mentre proseguivano, il bimbo individuò una brocca di terracotta abbandonata in mezzo al sentiero. Si chinò a raccoglierla.
«No, lasciala lì», intimò Gwen.
Lui fece una smorfia, ma ubbidì.
«È molto lontana?», chiese Gwen arruffando i capelli di suo figlio.
«No, è qui vicino».
Gwen sospirò pensando al suo formaggio mentre continuavano a camminare. Sarebbe stata solo una perdita di tempo e con ogni probabilità non avrebbero trovato nulla. Poi invece, poco più avanti, vide uno dei braccianti chino su un’altra figura seduta a terra.
«Lui non c’era prima», la informò Hugh. «Lei era tutta sola».
«Credo sia meglio tornare indietro», disse Gwen. «Adesso c’è qualcuno che le sta dando una mano».
«Mamma!», esclamò Hugh con il faccino contrito. «Io voglio restare».
«No. Adesso vieni», replicò lei tirandogli la mano.
Richiamò Spew, ma quando si voltò per andarsene un grido acuto la fermò. Entrambi si voltarono a guardare cosa stesse succedendo.
«Mamma, devi aiutarla», le disse Hugh con uno sguardo ostinato che le ricordò quello di Laurence.
Mentre guardava l’uomo e la bambina si rese conto che la piccola non riusciva a stare in piedi. Ogni volta che l’uomo tentava di tirarla su scoppiava a piangere.
«E va bene. Andiamo a vedere che succede».
Hugh batté le mani. «Brava, mamma! Brava!».
Gwen sorrise. Suo figlio le si era rivolto nello stesso modo in cui lei gli diceva che era stato un bravo bambino.
Hugh corse avanti e si fermò a pochi passi di distanza dall’uomo, sempre chino sulla ragazzina.
«Che strane le sue gambe», disse Hugh con gli occhi spalancati.
L’uomo alzò lo sguardo e Gwen fu sorpresa nel riconoscere in lui il tàmil che aveva aiutato quando era arrivata da poco alla piantagione, quello che si era fatto male al piede. A giudicare dal suo sguardo angosciato, era chiaro che anche lui l’aveva riconosciuta. L’ultima volta che si erano visti lui era finito nei guai, perciò Gwen metteva in conto che avrebbe anche potuto rifiutare il suo aiuto. Si accovacciò e guardò la bambina, che alzò la testa e le restituì lo sguardo, con gli occhi grandi e scuri colmi di lacrime. Gwen sentì il cuore battere all’impazzata e il respiro farsi affannoso. La ragazzina le ricordava Liyoni e d’istinto le tese una mano, colta da un’ondata di intensa nostalgia, mentre il sangue le andava alla testa.
Fece del suo meglio per scacciare il ricordo di sua figlia e riuscì a riprendere a respirare normalmente. Quella bambina era più grande di Liyoni, doveva avere circa otto anni, e in ogni caso era di etnia tàmil e non singalese, per cui aveva anche la pelle più scura. Il suo piede era piegato con una strana angolazione, la caviglia era gonfia e i vestiti bagnati. All’inizio Gwen pensò che se la fosse fatta addosso, poi dall’odore capì che quello che aveva sui vestiti era latte.
«Va’ a prendere la brocca che hai visto, Hugh. Quella rotta che era per terra sul sentiero».
Quando il bambino tornò portando con sé i due pezzi della brocca, la ragazzina si ritrasse un po’ e disse qualcosa in tàmil.
«Dice che le dispiace, mamma».
«Riesci a capirla?»
«Sì, mamma, ascolto sempre i ragazzi che lavorano in casa nostra, tutti i giorni».
Gwen ne fu sorpresa. Lei aveva una conoscenza limitata della lingua tàmil e non aveva idea che Hugh lo capisse, sebbene sapesse che sapeva parlare singalese.
«Chiedile perché le dispiace».
Hugh disse qualcosa e la bambina gli rispose. Poi scoppiò in lacrime.
«Non vuole dircelo».
«Sei sicuro?».
Il bambino annuì con aria seria.
«Ha detto qualcos’altro?».
Hugh scosse la testa.
«Be’, adesso non ci pensare. Corri in cucina e di’ che la mamma ha bisogno di due dei garzoni. Hai capito?»
«Sì, mamma».
«Accompagnali subito qui. Di’ loro che è un’emergenza».
«Che cos’è un’emergenza?»
«È questa, tesoro. Adesso sbrigati».
L’uomo stava tentando di nuovo di sollevare la ragazzina, ma quando lei lanciò un altro grido di dolore, Gwen scosse la testa e lui parve rinunciare. Si voltò a guardare verso la zona dove abitavano i lavoratori e agitò le braccia, impaziente di andarsene. Ma Gwen non poteva permettere che portasse via la bambina in quelle condizioni.
Pochi minuti dopo Hugh ritornò con i garzoni. I due scambiarono qualche parola in tàmil con l’uomo, che gli rispose nella stessa lingua.
«Che stanno dicendo?»
«Parlano troppo veloce, mamma».
Quando Gwen fece segno loro di sollevare la bambina, i due eseguirono: uno la afferrò per le braccia, l’altro per le gambe. La bimba cominciò a piangere, mentre loro cominciavano a incamminarsi verso gli alloggi dei braccianti.
Gwen ordinò loro di fermarsi e indicò la casa.
I garzoni si scambiarono un’occhiata perplessa.
«In casa, subito», ripeté lei in quello che sperava fosse un passabile tàmil. Hugh ripeté le sue parole, gonfiando il petto nel tentativo di fare l’uomo di casa.
Gwen fece strada fino al guardaroba, sgombrò il piano del tavolo e fece segno di poggiare là sopra la bambina. L’uomo li aveva seguiti e adesso se ne stava lì in piedi, visibilmente a disagio.
Gwen prese una sedia. «Hugh, di’ a quest’uomo di sedersi. Adesso telefono al dottore».
Il maggiordomo, attirato da tutto quel chiasso, comparve sulla soglia insieme a un domestico, e indietreggiò subito alla vista del padre e della figlia tàmil.
«Non dovrebbero essere qui, signora. Giù alla piantagione c’è un farmacista. Dovrebbe chiamare in fabbrica».
«Sto chiamando il dottore», dichiarò lei marciando nell’ingresso e oltrepassando il maggiordomo che sembrava totalmente sbalordito.
Per fortuna John Partridge si trovava nel suo ambulatorio vicino Hatton e non ci mise molto ad arrivare. Gwen aprì la porta d’ingresso e lui entrò ansimando e sbuffando, avvolto nell’odore del tabacco da pipa. «Sono venuto il prima possibile, hai detto che c’è una bambina ferita».
«Sì, è nella stanza del guardaroba».
«Sul serio?»
«Non volevo muoverla più del necessario. Credo che abbia una caviglia rotta».
Quando il dottore entrò nella stanza, lei lo sentì trattenere il respiro.
«Non mi hai detto che era una bambina tàmil».
«Cambia qualcosa?».
Lui scrollò le spalle. «Forse non per me e per te, ma…».
«Hanno detto che c’è un farmacista che si occupa delle emergenze, ma pensavo fosse il caso di farla visitare da un medico qualificato».
Gwen strinse la mano della bimba mentre il dottore la visitava.
«Avevi ragione», disse infine Partridge raddrizzando la schiena. «Se la si lascia guarire senza sistemarla, la bimba rimarrà storpia per sempre».
Sollevata, Gwen espirò lentamente. Per quanto continuasse a negarlo a sé stessa, desiderava moltissimo avere con sé Liyoni, anche se non credeva che fosse quella l’unica ragione per cui voleva prendersi cura della bambina.
«Avete del gesso liquido in casa?».
Gwen annuì e diede ordine a uno dei garzoni di andarlo a prendere. «Laurence e Hugh lo usano per farci dei modellini».
Il dottore terminò di visitare la bambina e le strinse la mano, parlandole nella sua lingua.
«Non sapevo che parlassi così bene il tàmil».
«Prima di arrivare qui ho lavorato in India e ho imparato qualche parola».
«Mi vergogno un po’ della mia ignoranza del tàmil. I domestici mi parlano sempre in inglese e non ho molte occasioni per esercitarmi. Potresti spiegare a suo padre cosa farai? Immagino che sia suo padre».
Il dottore disse qualche parola e l’uomo annuì. Poi si rivolse di nuovo a Gwen.
«Sì è suo padre e vorrebbe riportarla a casa. Quest’uomo è un semplice giardiniere, e ha paura che finirà nei guai per aver portato la bambina qui. E ha ragione. A McGregor non piacerà affatto questa storia».
«Al diavolo McGregor. È solo una ragazzina. Guardala. Di’ a suo padre che devi sistemarle la caviglia».
«Va bene. A dirla tutta, dovrebbe evitare di muoversi almeno per un giorno, più o meno».
«In questo caso insisto che rimanga qui finché non sarà in grado di muoversi. Farò portare una brandina in modo che anche suo padre possa rimanere».
«Gwen, forse è meglio che lui ritorni al lavoro. Non vuole assentarsi senza avvisare. Rischierebbe una riduzione del salario, o peggio il licenziamento».
Lei si fermò a riflettere per un attimo.
«McGregor ha detto che in molti avrebbero perso il lavoro».
«Appunto. Allora siamo d’accordo? Gli dico che può andare».
Lei annuì e il dottore spiegò la situazione al padre della ragazzina, che annuì e strinse la mano della figlia. Ma quando il padre si voltò per andarsene, il visetto della figlia si fece triste. Hugh le porse il suo orsacchiotto.
John Partrige lanciò un’occhiata a Gwen e arrossì leggermente. «Temo di non essere ancora riuscito a capire cosa sia successo con quella tua prescrizione. Mi dispiace. Non mi era mai capitato di fare un errore del genere».
«Ormai non importa più».
Lui scosse la testa. «Mi sono preoccupato. Prescrivo quelle dosi solo ai malati terminali».
«Be’, alla fine non è successo nulla e come puoi vedere io sto benissimo. Ti lascio al tuo lavoro, John. Vieni, Hugh».
«Voglio guardare».
«No. Vieni con me».
Più tardi il momento di calma prima del pranzo che tanto piaceva a Gwen fu disturbato dal rumore dei passi di Verity e Savi Ravasinghe che rientravano da una passeggiata intorno al lago. Gwen si alzò e osservò il proprio riflesso nel vetro della finestra. Alle sue spalle intravide l’ombra di una bambina.
«Liyoni», sussurrò, con la voce ridotta a un sussurro. Si voltò di scatto. Non c’era nulla. Era stato solo uno scherzo della luce.
Aveva sperato ardentemente che quei due se ne fossero andati, e quando vide lui entrare nella stanza trattenne il respiro.
«Ho sentito che ci siamo persi un piccolo dramma questa mattina», disse Verity accomodandosi sul divano. «Siediti, Savi, la gente che se ne sta su due piedi mi rende nervosa».
«Veramente dovrei proprio andare», disse lui rigirandosi il cappello tra le mani.
Verity fece una smorfia. «Be’, non puoi andartene se non ti accompagno io con la macchina».
Gwen cercò di mantenere sotto controllo l’angoscia e si preparò a intavolare una conversazione di circostanza che le avrebbe permesso di sopravvivere a quell’incontro. «Sono sicura che Mr Ravasinghe non vede l’ora di tornare al suo lavoro. A che ritratto sta lavorando al momento?»
«A dir la verità ultimamente sono stato in Inghilterra. Avevo un lavoro da fare lì».
«Oh, spero che fosse qualcosa di importante. Ha per caso incontrato mia cugina?».
Lui sorrise e inclinò il capo. «Sì, ci siamo visti».
Gwen tentò di osservarlo con occhio imparziale e pensò a quanto doveva risultare attraente per le donne single, con il suo bell’aspetto, i suoi modi affascinanti e naturalmente il suo talento. Erano tutte qualità che alle donne piaceva trovare in un uomo, insieme alla capacità di farle ridere. Ammirò la sua pelle scura con sfumature color zafferano, ma così facendo riportò a galla tutto l’orrore di ciò che era accaduto. All’orrore seguì un impeto di rabbia così forte che Gwen si sentì quasi aggredita. Serrò i pugni e si voltò, con la sensazione di avere un laccio che le comprimeva il petto.
«In realtà è andato lì proprio per dipingere tua cugina», disse Verity sorridendo. «Non è stato meraviglioso da parte sua? Mi sorprende che lei non te l’abbia detto».
Gwen deglutì. Fran non l’aveva informata di nulla.
«Hai sentito, Gwen?».
Lei si voltò a guardare l’ospite. «È fantastico, Mr Ravasinghe. Non vedo l’ora di ammirare il suo dipinto la prossima volta che tornerò in Inghilterra. Sono sempre così occupata che a volte mi è difficile mantenere i contatti».
«Per occupata intendi salvare bambine tàmil?». Verity aveva parlato con un’espressione innocente dipinta in faccia, ma aveva inarcato le sopracciglia in direzione di Savi, come a voler instaurare una comunicazione esclusiva da cui Gwen doveva rimanere esclusa.
A quel punto, qualcosa in lei scattò a tal punto che iniziò a tremare.
«Non mi riferivo a questo nello specifico. Intendevo dire che è impegnativo essere la moglie di Laurence, badare a Hugh e gestire la casa, specialmente adesso che dobbiamo tenere d’occhio le spese. I conti, Verity. Lo sai, no? E ci sono un sacco di soldi che mancano. In realtà mi stavo chiedendo se potessi aiutarmi ad andare a fondo a questa faccenda».
Sua cognata ebbe almeno la decenza di arrossire prima di distogliere lo sguardo.
«Mr Ravasinghe, Verity l’accompagnerà subito alla stazione».
«C’è solo un problema», disse lui alzandosi in piedi. «A quest’ora non ci sono treni».
«In questo caso potrà accompagnarla a Nuwara Eliya».
«Gwen, insomma…».
«E tanto per essere chiari, intendo subito».
Voltò le spalle a entrambi e tornò alla finestra, muovendosi con una rigidità tale da avere la sensazione di potersi spezzare in due da un momento all’altro. Vide un airone volare basso appena sopra il leggero banco di nebbia che copriva il lago e ascoltò il rumore dei due che si alzavano e uscivano. Quando udì lo scricchiolio delle ruote dell’auto chiuse gli occhi e respirò profondamente, provando una sensazione di calore e sollievo che allentò la tensione nei suoi muscoli. Si sentì come se la sua vita stesse prendendo un corso inaspettato, e lei non aveva proprio idea del posto che vi avrebbe occupato quando fosse tornata la calma, sempre che avesse avuto ancora un posto. La sua unica certezza era che, in assenza di Laurence, il campo di battaglia era ben definito e lo scontro poteva avere inizio.