Capitolo 15
Tre anni dopo
Gwen e Hugh sedevano al tavolo l’uno di fronte all’altro e attendevano l’arrivo degli altri. Hugh aveva un’aria angelica, con il suo completo alla marinara e i capelli chiari e scompigliati che per una volta apparivano invece pettinati e in ordine. Gwen indossava un abito che Fran le aveva regalato quando era andata a trovarla a Londra. Era di chiffon, di un azzurro tenue, e aveva una di quelle gonne lunghe all’ultima moda che la faceva sentire giovane e femminile.
Dopo aver vissuto per quasi quattro anni a Ceylon senza mai tornare a casa, quel viaggio in Inghilterra le era parso quasi dovuto. Aveva trascorso due settimane a Owl Tree con i suoi genitori, orgogliosissimi nel vedere il nipotino Hugh, al quale avevano promesso picnic e viaggi in treno a Cheddar Gorge. Non vedevano l’ora di averlo tutto per loro per un’intera settimana, perciò Gwen aveva preso il treno per Londra ed era andata a stare da Fran. Il suo appartamento era all’ultimo piano di un grande edificio progettato da un famoso architetto, con una splendida vista sul Tamigi, sebbene Gwen non avesse potuto fare a meno di paragonare quella distesa di acqua grigia al bellissimo lago di casa sua.
Le due donne si erano scritte diverse lettere, in cui avevano pianificato entusiasmanti uscite quotidiane, ma il pomeriggio in cui Gwen era finalmente arrivata, Fran non le era parsa molto in sé. Stava molto sulle sue, ed era un po’ pallida. Dopo una graditissima tazza del miglior tè di Ceylon, Fran le aveva chiesto se voleva che la domestica cominciasse a disfarle le valigie, e l’aveva presa sottobraccio.
«Faccio da sola, Fran, se non ti dispiace».
«Ma certo».
Giunte al piano di sopra, in una stanza ben arieggiata e arredata con gusto, Fran era andata subito alla finestra per chiudere all’esterno i rumori e la polvere delle strade londinesi. Poi era rimasta alla finestra a guardare fuori, dando le spalle a Gwen, che nel frattempo aveva aperto la valigia e stava cominciando a tirare fuori gli abiti.
«C’è qualcosa che non va, Fran?».
Fran aveva scosso la testa.
Gwen aveva tirato fuori un abito azzurro, perfetto per andare a fare qualche acquisto al negozio di Mr Selfridge più tardi, e lo aveva appeso nell’armadio di mogano. All’inizio era riuscita a vedere ben poco dell’interno buio dell’armadio, ma allungando il braccio per prendere una gruccia, aveva sfiorato qualcosa con il dorso della mano. Tastando con la punta delle dita aveva capito che si trattava di un indumento di seta preziosamente ricamata, e a giudicare dalla taglia non sembrava un capo da donna.
Aveva tirato giù l’indumento dalla gruccia e lo aveva esposto alla luce. Era un gilet rosso con ricami dorati, il più bello che Gwen avesse mai visto, e non c’era alcun dubbio: era il gilet che Savi Ravasinghe aveva indossato al ballo. In quel momento Fran si era voltata ed era rimasta a fissarlo.
«Oh», aveva detto. «Non mi ero accorta che lo avesse dimenticato».
«Mr Ravasinghe è stato qui?»
«È stato qui mentre eseguiva un lavoro su commissione. Un lavoro piuttosto importante. È molto richiesto».
«Non mi hai detto nulla».
Fran aveva scrollato le spalle. «Non sapevo di doverlo fare».
«Si tratta di una cosa seria?»
«Diciamo di sì, più o meno».
Gwen aveva tentato di incoraggiare Fran a raccontarle qualcos’altro, ma ogni volta che sollevava l’argomento, il volto di sua cugina si rabbuiava. Per la prima volta si era creata una frattura tra di loro e Gwen non sapeva cosa fare per aggiustare le cose.
Arrivata al penultimo giorno, la possibilità che Fran fosse davvero seria in merito a Ravasinghe lasciava a Gwen un certo amaro in bocca e le faceva annodare lo stomaco. Non aveva mai visto sua cugina struggersi per amore, e guardandola seduta sul letto con aria pensosa, avrebbe voluto dirle di Liyoni e metterla in guardia da Savi Ravasinghe. Ma poi non aveva osato farlo. Se ne avesse parlato, Fran si sarebbe sentita oltraggiata e avrebbe sicuramente affrontato Savi. E chi poteva sapere come sarebbe finita? Magari lui avrebbe insistito per conoscere la figlia, ed era assolutamente fuori discussione.
Perciò era rimasta in silenzio, in preda alla sensazione di aver tradito la sua amica. Le due donne avevano trascorso la loro ultima giornata insieme separate dal peso delle parole non dette, poi, dopo un’altra settimana agrodolce dai suoi genitori, Gwen era stata piuttosto felice di ripartire per tornare a Ceylon.
Gwen sorrise a suo figlio, seduto al capo opposto della tavola apparecchiata per il compleanno, e si sentì orgogliosa di lui. Sapeva che quel che provava era più dell’amore, qualcosa di ineffabile che penetrava nell’intimo del suo cuore. Hugh le restituì il sorriso, non riusciva a restare seduto composto, e Gwen tornò al presente.
I figli facevano quell’effetto. Per un attimo suscitavano un’esplosione di amore che toglieva il fiato e lasciava boccheggianti, mentre l’istante successivo si tornava a parlare di marmellata e biscotti, o dell’opportunità di un secondo figlio.
Gwen si era sorpresa della velocità con cui quei tre anni erano volati. Ancora non avrebbe saputo dire come si fosse così abituata a convivere con quello che le era successo, che a volte le sembrava quasi un sogno. Quasi, ma mai del tutto. Era una giornata splendida, il cielo era azzurro e senza nuvole. Guardò fuori dalla finestra, in direzione del lago e poi oltre, fino alle dolci colline ricoperte dalle coltivazioni di tè e punteggiate di alberi alti e allampanati. Nei quasi tre anni trascorsi dalla loro prima visita, lei e Laurence erano tornati spesso alla rimessa per le barche. La vita pareva aver assunto un ritmo regolare. Erano stati felici, le gioie avevano sopravanzato di gran lunga i momenti tristi, e alla fine qualcosa nell’animo di Gwen si era indurito e le aveva consentito di reprimere almeno in parte il rimpianto che provava nei confronti di Liyoni.
Laurence non capiva come mai non avesse concepito un altro bambino, nonostante tutto l’impegno che lui ci aveva messo, per dirla con le sue parole. Non sapeva che Gwen avesse preso in segreto ogni precauzione per evitarlo. Il ricordo di quanto le avesse spezzato il cuore abbandonare Liyoni la faceva sentire indegna di avere un altro bambino, perciò ogni volta si sottoponeva a una lavanda delle parti intime. Quando pensava che non fosse sufficiente, beveva gin in grandi quantità e si faceva un bagno caldo. Naveena comprendeva la sua riluttanza e le preparava delle misture di erbe amare che ogni mese le inducevano il ciclo.
Il rumore della porta che si apriva distolse Gwen da quei pensieri. Si voltò e vide entrare McGregor, Verity e Naveena.Verity batté le mani. «È tutto meraviglioso, non è vero, Hugh?».
Quel giorno Hugh compiva tre anni. Sulla tavola c’erano fiori freschi, piccole torri di sandwich, due budini rosa e gialli e uno spazio vuoto al centro per la torta. Quando Laurence arrivò con le braccia cariche di palloncini e regali, le piccole guance di Hugh diventarono tutte rosse per l’eccitazione.
«Li apro adesso, papà?».
Laurence posò i doni sul tavolo. «Certo. Vuoi cominciare da quello più grande?».
Hugh cominciò a saltellare e squittire.
«Be’, dovrai aspettare un minuto, è nell’ingresso». Laurence uscì di nuovo e rientrò poco dopo spingendo un triciclo che aveva un grosso fiocco giallo intorno al manubrio.
Hugh guardò sbalordito quel giocattolo magnifico, poi corse subito a sedervisi sopra, aiutato da Naveena. Il suo viso assunse un’espressione un po’ delusa quando realizzò di non arrivare bene ai pedali.
«Possiamo sistemare un po’ la sella, ma dovrai crescere ancora un pochino per usarlo come si deve».
«Abbiamo sbagliato misura?», chiese Gwen.
«Tra un paio di mesi sarà perfetto», rispose Laurence.
Hugh stava già strappando la carta degli altri regali: un puzzle gigantesco da parte di Verity, un camioncino dei pompieri da parte dei genitori di Gwen e una mazza e una palla da cricket da parte di McGregor.
Gwen si sedette un po’ in disparte a guardare la sua famiglia, sentendosi profondamente grata. Hugh era un tornado di energia, esuberante come lo si poteva essere solo a tre anni, e Laurence era raggiante e orgoglioso mentre osservava il figlio. Persino Verity sembrava felice, anche se il fatto che fosse ancora lì con loro era una spina nel fianco per Gwen.
Dopo aver spazzolato i sandwich e i budini, Hugh prese a gridare di gioia quando vide Laurence spegnere le luci e tirare le tende con aria solenne. Suo padre gonfiò le guance, tese le spalle e con il volto serissimo annunciò che il momento era arrivato.
Naveena portò la torta e la posò di fronte a Hugh.
L’espressione rapita del bimbo e l’innocenza dipinta sul suo visetto mentre guardava tutti quanti cantare “tanti auguri”, fece venire il magone a Gwen. Sarebbe stata capace di staccare la testa a un leopardo per proteggere il suo bambino. Tentò di dissimulare la violenza di quel sentimento armeggiando con la torta e avvicinandola al figlio. Era una grande torta quadrata, con il disegno di uno spaniel fatto con la glassa da Verity, che a quanto pareva aveva un certo talento per le decorazioni dei dolci.
«È Spew», esclamò Hugh. «C’è Spew sulla torta».
«Spegni le candeline, tesoro», disse Gwen. «Ed esprimi un desiderio».
Mentre il bambino gonfiava le guance e soffiava, Gwen pensò alla gemella di Hugh ed espresse a sua volta un desiderio.
«Che desiderio hai espresso?», chiese Laurence.
«Mamma ha detto che è un segreto. Non è vero, mamma?»
«Sì è così, tesoro».
Hugh tornò a rivolgersi a suo padre e per la centesima volta Gwen pensò a quanto assomigliasse a Laurence. Avevano lo stesso colore degli occhi, la stessa mascella pronunciata, la stessa forma del cranio, con un doppio strato di capelli sulla nuca che li rendeva così difficili da domare. Non c’era alcun dubbio su chi fosse il padre di Hugh.
«A volte ci sono dei segreti, papà».
Laurence ridacchiò. «Immagino che tu abbia ragione».
Hugh si dimenò sulla sedia, come al solito un vulcano inarrestabile di energia. «Io ho un segreto».
«Di che si tratta, tesoro?», chiese Gwen.
«Del mio amico Wilfred».
Laurence sorrise. «Ancora quella storia».
«Ma, tesoro», disse Gwen, «sappiamo già di Wilfred, non è affatto un segreto».
«Sì che lo è. Voi non potete vederlo».
«Vero», concordò Verity.
«Io ci riesco. Adesso vuole una fetta di torta».
«Naveena, per favore taglia una fetta di torta per Wilfred».
«Non una fetta finta, Neena». Hugh aveva preso a chiamare la domestica Neena quando aveva cominciato da poco a parlare, e poi il soprannome era rimasto.
«Non credo che dovremmo assecondarlo, Gwen», disse Laurence mettendole una mano intorno alla vita.
«È davvero così importante?».
Laurence sporse in fuori il mento. «Avere un amico invisibile non lo aiuterà quando comincerà ad andare a scuola».
Gwen rise. «Avanti, Laurence, ha solo tre anni. Non mi pare il caso di parlarne adesso. È il suo compleanno».
«E posso avere un’altra fetta anche io?», chiese Hugh con voce supplichevole.
«Due sono già abbastanza», rispose Gwen.
Hugh sporse il labbro inferiore in fuori. «Papà?».
«Oh, lasciategliela mangiare», disse Verity. «Tutti facciamo uno strappo alla regola per i compleanni».
«Basta torta, vecchio mio», disse Laurence. «Mamma ha sempre ragione».
«Sono felice che tu lo abbia finalmente capito».
Lui rise, prese in braccio Gwen e la fece roteare in aria.
Hugh ridacchiò nel vedere la madre che volteggiava come se pesasse quanto una piuma.
«Laurence Hooper, mettimi giù all’istante!».
«Come ho appena detto, mamma ha sempre ragione. È una cosa che sono stato costretto a imparare. Perciò è meglio che la metta giù».
«No, no, falla girare ancora», gridò Hugh.
«Laurence, se non mi metti giù mi farai venire la nausea».
Lui rise e la depose di nuovo sul pavimento. «Se mamma dice che due fette sono abbastanza, temo che sia proprio così. Ma senti un po’, perché io e te non usciamo a fare due tiri. Hai la nuova palla?».
Hugh sorrise e parve dimenticare all’istante la torta. «Sì, ce l’ho. È la mia palla».
Solo quando Laurence, Hugh e Verity furono usciti Gwen notò il piatto vuoto di Wilf. Quel piccolo mascalzone di Hugh era riuscito comunque a spazzolare la sua terza fetta di torta. Gwen scosse la testa, poi sorrise e andò in camera da letto.
Da una scatola chiusa a chiave in un cassetto della scrivania tirò fuori un disegno a carboncino fatto da un bambino. Era il più recente che aveva ricevuto, risaliva ad appena un mese prima. Ogni mese Gwen trascorreva giorni interi inquieta in attesa del prossimo disegno. Ci teneva così tanto perché erano la prova che sua figlia stava bene. I primi disegni erano opera della donna a cui la bambina era stata affidata, ma presto erano stati sostituiti da piccoli schizzi fatti da Liyoni. Gwen seguì con il dito le sottili linee tracciate a carboncino. Quello era un cane, o un pollo? Difficile a dirsi. Aveva sempre bruciato i disegni della donna, ma la nostalgia che non l’aveva mai abbandonata del tutto l’aveva spinta a conservare quelli di Liyoni.
Quella notte, quando Hugh si sentì male, Gwen pensò che fosse colpa delle tre fette di torta. Chiese a Naveena di portarle il bambino nel letto. Lui rigettò un altro paio di volte e poi si addormentò, e anche Gwen riuscì ad assopirsi di tanto in tanto.
La mattina dopo Hugh tremava e diceva di avere freddo. Quando Gwen gli posò una mano sulla nuca e sulla fronte, sentì che bruciava. Gli cambiò il pigiama, ma Hugh aveva senza dubbio la febbre, perciò chiamò Naveena e le chiese di preparare delle pezze fredde. In attesa del suo ritorno, Gwen aprì la finestra per cambiare aria e ascoltò l’abituale chiasso degli uccelli che spiccavano il volo dai loro nidi. Quella combinazione unica di gorgheggi armoniosi e versi selvaggi di solito le strappava sempre un sorriso, ma quel giorno le sembrava troppo rumorosa e inopportuna.
Quando Naveena tornò portando i pezzi di stoffa umida, Gwen li applicò sul collo e sulla fronte di Hugh. Poi, quando la temperatura del bambino parve essere un po’ scesa, le due donne lo esaminarono.
«Non è stata la torta. Ha smesso di vomitare, ma non sta bene».
Naveena arricciò il naso, ma non disse una parola mentre osservava braccia e gambe del bimbo. Gli sollevò la maglietta del pigiama e gli passò una mano sul torace, alla ricerca di eventuali vesciche. Non ne trovò, e scosse la testa.
«Va’ a dire a Laurence di chiamare il dottore», disse Gwen, quando la donna ebbe finito il suo esame. «Digli che Hugh suda tantissimo, ma dice di avere freddo».
«Sissignora». Naveena si voltò per andare.
«E digli anche che ha la pelle leggermente bluastra e che gli sta venendo la tosse».
Mentre Hugh si agitava nel sonno, Gwen chiuse le persiane e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. Arrivò Laurence e il suo sguardo preoccupato la esortò a mantenere la calma.
«Probabilmente è solo una di quelle malattie da bambini», gli disse. «Non preoccuparti. Il dottor Partridge sarà qui tra poco. Perché non vai in cucina e chiedi all’appu di preparare un po’ di chai?».
Lui annuì e uscì dalla stanza, per poi fare ritorno dieci minuti dopo portando un vassoio d’argento con sopra due bicchierini di vetro. Gwen gli sorrise. L’ultima cosa di cui Laurence aveva bisogno era notare quanto lei fosse angosciata. Gli prese il vassoio dalle mani.
Mentre aspettavano il dottore, Gwen cantò delle canzoncine e Laurence tentò di unirsi a lei, sbagliando di proposito le parole per provare a far ridere Hugh.
Quando il dottor Partridge arrivò, con la sua vecchia borsa marrone, Hugh era ancora sveglio, ma piuttosto intontito.
Il dottore si sedette sul letto.
«Diamoti un po’ un’occhiata, vecchio mio», disse spalancando la bocca e facendo cenno a Hugh di fare lo stesso. Ma la stanza era ancora immersa nell’oscurità ed era impossibile vedere alcunché. «Laurence, apri le persiane, ti dispiace?».
Quando furono aperte, il dottor Partridge sollevò Hugh e lo portò alla luce. Poi si sedette sulla poltrona di Gwen ed esaminò la bocca del bambino. Tastò il collo di Hugh, che pareva un po’ gonfio, e gli sentì il polso. Poi fece un profondo respiro e scosse la testa.
«Vediamo un po’ se riesci a bere qualcosa. Hai un bicchiere d’acqua a portata di mano, Gwen?».
Lei gli porse il suo. Il dottore fece sedere Hugh e glielo accostò alle labbra. Il bambino si portò una mano sul collo gonfio e prese un sorso, ma l’acqua gli andò di traverso e lui la sputò fuori, tossendo poi per diversi minuti.
Quando si calmò il dottore gli auscultò il petto e infine alzò lo sguardo su Gwen. «Rantola un po’. Ha tossito molto?»
«A intervalli».
«Bene. Fila subito sotto le coperte».
Gwen rimise Hugh nel suo letto e lo coprì.
«Ha bisogno di assoluto riposo. Anche se vi dovesse sembrare che è migliorato, non fatelo muovere. Ha il battito affannoso quanto il respiro. Mettetegli un paio di cuscini dietro la testa per aiutarlo a respirare e umidificate il più possibile l’ambiente. Poi bisognerà aspettare e vedere».
Gwen e Laurence si scambiarono uno sguardo preoccupato.
«Ma cos’ha?», chiese Gwen, tentando di mantenere un tono di voce calmo.
«Difterite».
Gwen si sentì mozzare il fiato e vide Laurence irrigidirsi.
«L’ho capito dal colore bluastro della pelle. Diversi bambini di un villaggio vicino si sono ammalati di recente».
«Ma l’avevamo vaccinato», ribatté Laurence, gonfiando le guance e voltandosi verso sua moglie. «Gwen?».
Lei socchiuse gli occhi e annuì.
Il dottore scrollò le spalle. «Evidentemente non ha funzionato».
«Che prognosi può darci?», chiese Gwen con voce tremante.
Il dottore inclinò leggermente il capo. «Difficile dirlo in questa fase. Mi dispiace, se compaiono delle piaghe sulla pelle fate in modo di tenerle pulite. E cercate di farlo bere, se ci riuscite. Quando siete con lui dovrete coprirvi bocca e naso con mascherine di cotone. Dovreste averne un paio in casa, ma ve ne farò avere immediatamente altre».
«E se…».
Nella stanza calò un terribile silenzio. Non appena aveva udito il tono di voce acuto di Gwen, Laurence le aveva preso la mano e l’aveva stretta, come per impedirle di pronunciare parole tremende che, una volta pronunciate, non potevano essere rimangiate.
«Non pensiamoci adesso», disse con voce roca.
Gwen sapeva bene che lui stava solo cercando di rimandare l’inevitabile e fu come se la testa le stesse per esplodere. «Adesso?»
«Aspettiamo e vediamo, non c’è altro che possiamo fare».
Lei avrebbe voluto dare libero sfogo alle sue paure, ma si sforzò invece di espirare lentamente e di restare calma.
Nei giorni seguenti Verity e Gwen asciugarono senza sosta le gocce di sudore che si formavano sulla fronte di Hugh e tentarono di abbassargli la temperatura in ogni modo. Naveena appese un asciugamano bagnato alla finestra per umidificare l’aria, insieme a un lenzuolo bagnato sulla porta. Poi mise in una scodella qualche pezzo di carbone e vi versò sopra dell’acqua calda.
«A che serve?»
«Bisogna tenere l’aria pulita, signora».
Nei due giorni successivi le condizioni di Hugh non cambiarono né in meglio né in peggio. Il terzo giorno la tosse si fece più intensa, il bambino cominciò ad avere più difficoltà a respirare e assunse un colorito grigiastro. Gwen guardava le mosche sbattere contro il vetro della finestra e cadere a terra, e si sentiva mancare il fiato. Si tolse la mascherina e ricacciando indietro la paura del contagio per amore di Hugh, si stese accanto a lui, accostò la guancia alla sua; poi lo strinse a sé. Laurence si era rinchiuso nel suo studio e ricompariva ogni tanto per dare il cambio a Gwen. Lei si stampava un sorriso in faccia per amor suo, ma a malapena lasciava la stanza.
Laurence le aveva vietato di mangiare lì quel poco che riusciva a mandar giù, dicendo che non doveva rischiare di ammalarsi anche lei e che aveva bisogno di tenersi in forze. Mentre Gwen tentava di mangiare qualcosa, Verity vegliava su Hugh e quando Gwen tornava si offriva sempre di restare rivolgendole uno sguardo angosciato.
Naveena versò alcune erbe dal profumo dolce in una scodella di terracotta che mise sopra a una candela.
«Questo lo aiuterà, signora».
Ma la fragranza non parve avere alcun effetto. Quando era da sola con Hugh, Gwen si sedeva accanto al letto, chiudeva gli occhi doloranti e torcendosi le mani supplicava Dio di far vivere il suo bambino.
«Farò tutto ciò che mi chiedi», disse. «Tutto. Sarò una moglie migliore, una madre migliore».
Quando Hugh dormiva si accostava alla finestra e restava a fissare i colori del giardino che mutavano nel corso della giornata, dal verde pallido delle foglie sotto il sole mattutino, al viola scuro e cupo della notte. Guardava il lago con le lacrime agli occhi, finché il confine tra l’acqua e la linea degli alberi non si faceva confuso. Quando le condizioni del figlio subivano un brusco peggioramento, Gwen tratteneva il respiro, si strofinava gli occhi stanchi e ascoltava i rumori dei domestici intenti ai loro soliti compiti. Ma nulla le pareva più reale. Né la vivacità mattutina, né la sonnolenza della sera. Chiese a Naveena di procurarle qualcosa da rammendare, preferibilmente vestiti di Hugh, ma qualsiasi cosa sarebbe andata bene, purché le tenesse le mani occupate.
Gwen si sentiva sollevata ogni volta che Hugh si addormentava e allora cominciava a rammendare, muovendo rapidamente l’ago avanti e indietro e tramutando il filo di seta in una fila di minuscoli punti. Verity e Laurence entravano e uscivano in punta di piedi, ma nessuno dei due parlava. Più Hugh dormiva, migliori erano le sue speranza di farcela.
Le notti erano diverse, solitarie, e immerse in un insopportabile silenzio. Quando Hugh faticava a respirare, sentire il suo corpicino lottare le spezzava il cuore. Ma almeno così sapeva che era ancora vivo. Quando invece il respiro si smorzava, il cuore di Gwen ricominciava a battere solo quando il rantolo affannoso riprendeva.
Durante la notte era sopraffatta dai ricordi di Hugh neonato. Quanto urlava! Si rifiutava di pensare che il peggio potesse davvero accadere, né si fermava a riflettere su come sarebbe stato vivere senza il suo caro bambino.
Lo ricordò a pochi mesi mentre tentava di fare i primi timidi passi, e poi più tardi, quando il suo scalpiccio la svegliava la mattina presto. Le tornò in mente il suo primo taglio di capelli e la scenata che aveva fatto alla sola vista delle forbici, al punto che Naveena era dovuta intervenire per tenerlo fermo. Pensò al suo odio per le uova strapazzate all’ora del tè, e a quanto invece amava le uova sode a colazione. E poi le sue prime parole: Neena, mamma, papà. Verity avrebbe voluto che dicesse anche il suo nome ed era rimasta seduta accanto a lui per ore, ripetendogli “Verity” in continuazione. Ma il massimo che era riuscita a tirare fuori a Hugh era stato un “Witty”.
Tutte le vecchie angosce sepolte di Gwen tornarono a farsi vive. Ricordò il ritratto che Savi Ravasinghe aveva fatto a Christina, e quello che lei aveva detto più di tre anni prima.
Alla fine tutti si innamoravano di lui. Non era così? Ripensò alla notte del ballo, quando Savi l’aveva accompagnata in camera. Ripensò a Fran insieme a un uomo del genere e stette male per sua cugina. E mentre guardava le palpebre di Hugh fremere nel sonno, la sua mente vagò fino al villaggio singalese dove viveva Liyoni. Se quella terribile malattia era riuscita a colpire Hugh, un bambino che viveva nel lusso e nelle comodità, quanto poteva essere a rischio la piccola?
Nei momenti di dormiveglia, immersa in un mondo oscuro e cupo, pregava anche per sua figlia oltre che per Hugh. I suoi pensieri turbinavano, divisi tra il villaggio e quella stanza. Pensò ai ragazzi che lavavano gli elefanti nel fiume, alla semplicità con cui si viveva laggiù, con le donne che cucinavano sul fuoco all’aria aperta e gli uomini che tessevano sui loro telai rudimentali. Più ci pensava più si rendeva conto di essere una privilegiata, alla quale adesso mancava del tutto la pace.
In fondo, era solo uno il pensiero che si era impossessato della sua mente.
Aveva già dovuto rinunciare a una figlia. Se la malattia di Hugh era la sua punizione per aver sacrificato la felicità della sua bambina per la propria, l’unico modo per salvare Hugh era fare la cosa giusta. La verità in cambio della sua vita. Uno baratto, un patto con Dio. Anche se voleva dire perdere tutto, doveva rivelare la verità su Liyoni, oppure guardare suo figlio morire.