Prologo
Ceylon 1913
La donna si portò una sottile busta bianca alle labbra. Indugiò ancora per un istante, soffermandosi ad ascoltare le dolci e disperate note di un lontano flauto singalese. Rifletté sulla propria decisione, rigirandosela nella mente come un sassolino nel palmo della mano, poi sigillò la busta e l’appoggiò a un vaso di rose rosse appassite.
L’antica ottomana si trovava in fondo al letto a baldacchino. Fatto di legno scuro, ai lati era ricoperto di raso moiré, con un coperchio di pelle imbottito. Sollevò il coperchio, tirò fuori l’abito da sposa color avorio e lo accomodò sullo schienale di una sedia, arricciando il naso all’odore nauseabondo delle palline di naftalina.
Scelse una rosa, ne staccò il bocciolo e lanciò uno sguardo al bambino, felice che dormisse ancora. Al tavolo da toletta prese un fiore e se lo avvicinò ai capelli biondi; sottili fili di seta, diceva sempre lui. Scosse la testa e abbandonò il fiore. Non quel giorno.
Sul letto i vestitini del bambino erano già sistemati in pile irregolari. Con la punta delle dita sfiorò il coprifasce fresco di bucato, ricordando che aveva trascorso ore a tesserlo, finché non le bruciavano gli occhi. Accanto agli abitini c’erano dei fogli bianchi di carta velina. Senza indugiare oltre piegò la piccola giacchina blu, la sistemò tra due fogli di carta e la posò sul fondo dell’ottomana zincata.
Ogni capo fu piegato, sistemato tra la carta e poi aggiunto agli altri strati di cappelli di lana, scarpine, camiciole e tutine. Blu. Bianco. Blu. Bianco. In cima c’erano i fazzoletti di mussola e gli asciugamani, piegati in due. Quando ebbe finito esaminò il lavoro di quella mattina. Nonostante ciò che significava, guardandolo non impallidì.
Le ciglia tremanti del bambino le rivelarono che si sarebbe svegliato di lì a poco. Doveva sbrigarsi. Il vestito che aveva scelto per sé era di seta orientale, di un vivido verde mare, con l’orlo che le arrivava all’incirca alle caviglie e con una fascia a vita alta. Dei vestiti arrivati da Parigi quello era il suo preferito. L’aveva indossato la sera della festa, la sera in cui era sicura che il bambino fosse stato concepito. Si fermò di nuovo. Forse indossarlo sarebbe stato interpretato come un risentito tentativo di provocazione? Non poteva esserne sicura. Adorava quel colore. Era ciò che diceva a se stessa. Si trattava solo del colore.
Il bambino piagnucolò e cominciò ad agitarsi. Lanciò uno sguardo all’orologio, prese il bambino dal lettino, e sedendosi sulla poltrona a dondolo accanto alla finestra sentì una leggera brezza sfiorarle il collo. Fuori il sole era alto nel cielo e il caldo stava aumentando, da qualche parte nella casa un cane abbaiò e dalle cucine arrivava l’inebriante profumo di cibo.
Aprì la camicia da notte, che rivelò un seno bianco come il marmo. Il bambino ci si strofinò il naso e poi si attaccò. Ciucciava con forza, al punto che i capezzoli le si erano infiammati e, per sopportare il dolore, fu costretta a mordersi il labbro. Per distrarsi si guardò attorno. In ogni angolo della stanza i ricordi si erano attaccati agli oggetti: il poggiapiedi intarsiato arrivato dal Nord; il paralume da comodino che aveva cucito lei stessa; lo scendiletto proveniente dall’Indocina.
Non appena accarezzò la guancia del bambino, lui smise di mangiare, alzò la mano libera, e in un bellissimo e struggente momento, le sue dita delicate le sfiorarono il volto. Sarebbe stato il momento giusto per piangere.
Dopo avergli fatto fare il ruttino, lo posò sul letto avvolto in un morbido scialle fatto all’uncinetto, e una volta vestito lo cullò con un braccio dando un’ultima occhiata in giro. Con la mano libera chiuse il coperchio dell’ottomana, gettò la rosa abbandonata in un cestino dei rifiuti laccato, e poi sfiorò con il palmo i fiori rimasti nel vaso, staccando i petali rovinati. Fluttuarono oltrepassando la busta bianca per cadere come gocce di sangue sul pavimento di mogano tirato a cera.
Aprì la portafinestra e diede uno sguardo al giardino, poi per tre volte inalò il profumo del gelsomino. La brezza era cessata; il flauto taceva. Si sarebbe aspettata di provare paura, invece si sentiva pervasa da un’accogliente sensazione di sollievo. Era tutto lì, e bastava. Poi, decisa, iniziò a camminare, un inevitabile passo dopo l’altro, e mentre si lasciava la casa alle spalle immaginò la tonalità più chiara del lilla: il colore della tranquillità.