Capitolo 12
Il dottore le aveva suggerito di fare attività fisica, così quando Gwen riemerse dalla sua stanza qualche giorno dopo, chiese a Naveena di prendersi cura di Hugh per il resto della giornata e di chiamarla soltanto per le poppate. Non sarebbe stato facile perché non passava minuto senza che il bambino piangesse, ma per il bene di tutti, doveva trovare un modo per affrontare la situazione. Sebbene volesse seppellirsi a letto e non alzarsi mai più, fece uno sforzo per dare una parvenza di normalità alla sua vita. Si sentì come se si fosse risvegliata da un lungo sonno, un’energia nervosa le fluì nel corpo e il bisogno di agire ebbe il sopravvento sul senso di colpa; si vestì, cercando di non pensare alle sue disgrazie.
Aveva individuato un deposito sul retro della casa: una stanza fresca al pianterreno, con mura spesse, in parte messa in ombra del giardino, dove, grazie alla vicinanza con la cucina, avrebbe avuto accesso all’acqua. Era un buon posto per produrre formaggio. A testa alta attraversò la casa e, passando per la porta di servizio, uscì in cortile. Una minuscola nettarinia violacea spiccò il volo proprio davanti a lei e un’altra la seguì; insieme si librarono in alto, verso il grande cielo blu. Era un bellissimo e soleggiato giorno di aprile, e quando alzò lo sguardo per osservare degli stormi in volo, sentì una finestra che si apriva. Verity si affacciò e la salutò.
«Ciao. Vedo che sei in piedi».
«Sì. Infatti». Guardò sua cognata con gli occhi socchiusi.
«Se vai a fare una passeggiata vengo con te. Ci metto un attimo».
«No, veramente sto andando a sistemare il deposito».
Verity scosse la testa. «Fallo fare a un garzone. Hai appena avuto un bambino».
«Perché mi trattate tutti quanti come se fossi malata?»
«In questo caso, ti darò una mano. Non ho niente da fare oggi».
Imperterrita, Gwen abbozzò un sorriso. «Davvero, non ce n’è bisogno».
«Insisto. Scendo subito. Sarà divertente. Dio solo sa cosa troveremo accatastato lì. Vorrei davvero aiutarti».
«Va bene allora».
Mentre Gwen attraversava il cortile diretta al deposito, il suo sguardo vagò verso gli alberi alti. Quel giorno sembravano luminosi, non quel tetro tunnel che una volta aveva attraversato di corsa piena di paura e, sentendo il calore del sole sulla pelle, si sentì colma di speranza. Aveva già chiesto la chiave del deposito a McGregor, e sebbene questi si fosse sorpreso che lei avesse veramente intenzione di portare avanti con il suo progetto di fare il formaggio, non aveva fatto obiezioni in merito. Le aveva perfino rivolto un sorriso quasi gentile e le aveva augurato buona fortuna.
«Eccomi qui», disse Verity spuntandole alle spalle.
Dopo che gli fu dato uno strattone deciso, il lucchetto del deposito scattò. Insieme, le due donne spinsero le porte e l’improvvisa corrente d’aria fece sollevare la polvere. La stanza odorava di vecchio e dimeticato.
«Prima dobbiamo portare tutto quanto fuori», disse Gwen, mentre i granelli di polvere piano piano si depositavano.
«Sono sempre dell’idea che ci servirebbero dei garzoni per sollevare le cose pesanti».
Gwen osservò con occhio critico la stanza. «Hai ragione. Ci sono dei mobili là dietro che non riusciremo mai a spostare».
Nel mentre, nemmeno a farlo apposta un paio di garzoni erano usciti a vedere cosa stesse succedendo. Verity si rivolse loro in tàmil e uno di loro andò a chiamare l’appu, che, quando le raggiunse, fece un cenno con il capo in direzione di Gwen, ma sorrise non appena vide Verity. Chiacchierarono mentre lui fumava una sigaretta appoggiato al muro.
«Sembrate andare d’accordo voi due», disse Gwen quando l’appu rientrò in casa. «Io lo trovo sempre un po’ brusco».
«Con me è gentile. Be’, è logico, sono io che gli ho trovato lavoro qui».
«Oh?»
«Comunque, dice che manda a chiamare un paio di garzoni. Anche se non saranno contenti di sporcare i loro bei vestiti bianchi. Oggi non è giornata di pulizie».
Gwen sorrise. «Lo so. Sono stata io a organizzare i loro compiti, ricordi?»
«Ma certo».
Gwen si infilò dietro una vecchia cassettiera che sembrava aver visto giorni migliori. «Questo mobile è stato mangiato dai tarli o qualche animale del genere».
«Potrebbe trattarsi di termiti. Dovrebbe finire nel falò. Oh, facciamone uno. Io adoro i falò».
«C’è il giardiniere in giro? Mi è un po’ sfuggito il controllo della situazione, con il fatto che ho avuto il bambino e tutto».
«Vado a vedere».
Mentre Verity era via, Gwen, spinta da un’energia nervosa, portò fuori le cose più piccole: sedie da cucina rotte, un paio di vasi sbeccati, un ombrello storto a cui mancavano un paio di raggi, qualche valigia impolverata, alcune scatole di metallo. “Questa roba avrebbe dovuto essere buttata anni fa”, pensò, mentre la impilava per bruciarla. Quando arrivarono i garzoni, indicò loro la cassettiera e i mobili sul fondo, e quelli cominciarono a portare tutto fuori, pezzo per pezzo, sollevando nuvoloni di polvere e sporcandosi gli abiti bianchi.
Avevano quasi finito e Verity ancora non era di ritorno. Rimaneva da sgomberare soltanto una grande cassapanca proprio in fondo alla stanza. Quando i ragazzi la sollevarono e depositarono all’esterno, Gwen vide che sui lati era ricoperta di tessuto, macchiato e strappato in alcuni punti; quando alzò il coperchio di pelle vide che era un contenitore in metallo rinforzato, di quelli che si usavano nelle case per riporre la biancheria. Ma quel baule non conteneva biancheria. A Gwen venne un colpo quando vide decine di minuscoli abitini per bambini, immacolati e piegati, ognuno avvolto separatamente con carta velina. Coprifasce, scarpine, cappellini di lana fatti a maglia, tutto cucito a mano e amorosamente ricamato. Proprio sul fondo notò un merletto ingiallito. Lo afferrò per sbatterlo. Era lungo, perfettamente conservato a parte il colore, e a Gwen vennero le lacrime agli occhi quando si rese conto che doveva essere il velo da sposa di Caroline. Si pulì le mani sulla gonna, poi si asciugò le lacrime, desiderando di non aver mai visto quegli oggetti, che rimandavano a un così triste passato. Chiese ai ragazzi di portare tutto dentro. Avrebbe chiesto a Laurence cosa farne.
Fu sollevata nel vedere Naveena venire verso di lei con Hugh in braccio, e sentendo la pienezza dei suoi seni e la travolgente sensazione del latte che cominciava a scendere, andò incontro all’ayah e prese il bambino.
Mentre rientrava, Gwen fece il punto della situazione. Per quasi tutta la mattinata era riuscita a non pensare alla bambina e, fatta eccezione per il momento in cui aveva visto il contenuto del baule, non si era sentita una disgraziata.
Sollevata e incoraggiata, capì che se fosse riuscita ad arginare il dolore mantenendosi impegnata, la sensazione di disperazione magari sarebbe svanita.
A pranzo Laurence era di umore gioviale. Gwen si stupì di essere stata capace di nascondere quel che provava al punto che lui non si era accorto di cosa lei stesse passando; anzi, scherzava con lei e Verity ed era felicissimo di sentire che Hugh aveva sorriso.
«Be’, forse non è stato un vero sorriso», disse Verity. «Ma è così carino e non ha nemmeno pianto così tanto oggi, vero, Gwen?»
«Forse il dottore aveva ragione nel stabilire degli orari per le poppate», disse Laurence.
Verity sorrise. «Non vedo l’ora che cresca un po’».
Laurence si voltò a guardare Gwen. «È bellissimo vederti stare meglio, Gwen. Non sai quanto ciò mi renda felice».
«Ho aiutato Gwen a pulire il vecchio deposito perché possa farci il formaggio», disse Verity.
«Davvero, Verity?»
«Sì».
«Be’, ne sono felice».
«Cosa intendi dire?».
Laurence sorrise. «Esattamente quello che ho detto».
«Ma l’hai detto come se sottintendessi qualcosa».
«Verity, non sottintendevo niente. Dai. Stiamo facendo un bel pranzetto. E ho anche buone notizie».
«Diccele», lo incalzò Gwen.
«Sapete che ho comprato delle azioni di una miniera di rame tramite la banca di Christina, o meglio, la banca di cui lei è la maggior azionista. Stanno andando piuttosto bene, e se le cose continueranno così, in un paio di anni spero di riuscire a comprare la piantagione qui accanto. La mia terza piantagione. Saremo i più grandi coltivatori di tè di Ceylon!».
Gwen si sforzò di sorridere. «Che meraviglia, Laurence. Ottimo».
«Devi ringraziare Christina. È lei che mi ha convinto a investire di più durante il ballo a Nuwara Eliya. L’America, è lì che si fanno i soldi oggigiorno, l’Inghilterra sta rimanendo indietro».
Gwen fece una smorfia.
Lui corrugò leggermente la fronte. «Vorrei che provassi a fartela piacere. Mi è stata molto vicina quando Caroline è morta».
«È stato allora che le hai regalato quella maschera del diavolo?»
«Non sapevo l’avessi vista».
«Sono andata a pranzo da lei il giorno in cui Mr Ravasinghe le mostrava il suo dipinto. Ho trovato quella maschera davvero orribile».
Si accigliò leggermente. «È difficile procurarsele. I nativi le usano, o le usavano, per le danze del diavolo. Alcuni lo fanno ancora, credo. Caroline ne ha vista una».
«Dove?»
«Non mi ricordo bene in che occasione. Indossavano le maschere, e uno strano abbigliamento, e poi si perdevano in questa danza selvaggia e primitiva».
«Sembra spaventoso», disse Verity.
«Credo che Caroline l’avesse trovato affascinante».
Quando finirono il pudding, Verity si alzò di punto in bianco, lamentando un mal di testa.
Laurence tese una mano a Gwen dopo che se ne fu andata la sorella. Lei gli sfiorò la fossetta sul mento, e si sforzò di celare la propria esitazione. Se voleva tenersi suo marito doveva sforzarsi di essere naturale.
«Mi sei mancata così tanto, Gwen», disse lui, chinando la testa per baciare la pelle delicata della sua nuca.
Gwen rabbrividì. Poi Laurence la abbracciò e Gwen cominciò a rilassarsi. Nonostante il dolore, dovette ammettere che mandando via la bambina era riuscita a salvare il suo matrimonio. Affondò il volto nel suo petto. Desiderò che lui tornasse a essere ciò che era stato e ciò che sarebbe stato sempre, se lei non avesse dovuto portare un peso sul cuore tale da non permetterle di esser mai più del tutto sincera. Si ritrasse e lo guardò negli occhi: erano talmente pieni di amore e desiderio da mozzare il respiro. Lui non aveva colpe e non avrebbe mai dovuto sapere quel che era accaduto.
«Dai», disse lei con un sorriso. «Cosa stai aspettando?».
Lui rise. «Soltanto te».
Nei giorni che seguirono Gwen si tenne impegnata passando in rassegna i vestitini che aveva trovato, separando quelli che erano rovinati da quelli che si erano conservati bene. Ma la nascita di Liyoni aveva aperto una ferita profonda dentro lei, e sentiva che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.
Trovando ancora difficile credere a quello che era successo, provò un certo distacco dalle faccende domestiche e si sentì intrappolata nella sua stessa confusione. Veramente Savi Ravasinghe si era comportato in modo così abominevole? Cercò di concentrarsi sull’amore di Laurence per lei, sul suo amore per Hugh, e sulla loro vita insieme, come una famiglia, ma ogni volta che pensava a Liyoni, le sembrava che una parte di lei fosse morta. Liyoni doveva essere stata concepita quella notte al Grand, e siccome lei e Laurence avevano fatto l’amore proprio il giorno dopo, pregò con tutto il cuore che Hugh fosse veramente figlio di Laurence. Non aveva modo di scoprire se fosse effettivamente possibile – non poteva certo chiederlo al dottore – e non le restava altro da fare se non convivere con quell’incertezza. Si disse che fintantoché Naveena non avesse parlato, nessuno mai avrebbe sospettato.
Alla fine Laurence sembrò rendersi conto che in realtà le cose non andavano poi così bene, e il pomeriggio del 14 aprile decise che una gita per assistere ai festeggiamenti per il nuovo anno sarebbe stata la cosa giusta per tirarla su di morale. Quando le propose l’uscita erano in piedi in riva al lago e guardavano gli uccelli che si immergevano, catturavano la loro preda, e poi si libravano in aria. Era un pomeriggio scintillante, con un limpido cielo blu, e un adorabile profumo di boccioli nell’aria. Gwen alzò lo sguardo mentre un’aquila attraversava il cielo e poi scompariva dietro gli alberi.
«Penso che ti farebbe bene», disse lui. «Non sembri molto felice».
Lei deglutì il nodo che aveva in gola. «Sono felicissima. Sono solo stanca».
«Il dottore ha suggerito di assumere una balia se la stanchezza non passa».
«No», sbottò lei, e poi si sentì mortificata per avergli risposto così bruscamente.
«Be’, festeggiamo questo momento di passaggio tra il vecchio e il nuovo, quando tutto rimane immobile, e la speranza cresce».
«Non lo so. Hugh è ancora così piccolo».
«Non è una festa religiosa. Si tratta di mangiare e indossare vestiti nuovi. Una festa per famiglie, in realtà».
Lei fece uno sforzo e sorrise. «Sembra bello. E poi?»
«Lanterne, e ballerini, se siamo fortunati».
«Dovremmo portarci Hugh e credo che anche Naveena dovrebbe venire».
«Assolutamente sì. Sentirai i tamburi d’ottone. Rabanas si chiamano. Fanno un fracasso terribile, ma è divertente. Che ne dici?».
Lei annuì. «Cosa devo mettermi?»
«Qualcosa di nuovo, ovviamente».
«In questo caso, sarà meglio che vada a vedere che cos’ho».
Si voltò per tornare a casa, ma lui le prese la mano e la trattenne. Lei si guardò i piedi, e poi di nuovo il lago, e lui si portò la sua mano alla bocca e le baciò il palmo.
«Cara», disse. «Ti prego, butta via i vestitini di Thomas. Non avrei mai dovuto conservarli. All’epoca non sapevo che farne».
«E il velo di Caroline?».
Qualcosa balenò nei suoi occhi. «C’era anche quello lì dentro?».
Lei annuì. «Naveena l’ha lavato e l’ha steso al sole. È ancora un po’ giallognolo».
«Era il velo di mia madre, prima che di Caroline».
«Allora è un cimelio di famiglia. Dovremmo tenerlo».
«No. C’è troppa tristezza legata a quell’oggetto. Sbarazzatene».
«Qual è stato il problema con Caroline, Laurence?».
Lui fece una pausa prima di parlare e poi inspirò profondamente. «Era mentalmente instabile».
Gwen si mise le mani sul collo e ci fu una pausa prima che desse voce ai propri pensieri.
«Laurence, e in che modo questo l’ha uccisa?»
«Scusami… non credo di riuscirne a parlare».
Il pensiero di Caroline e Thomas le fece sgorgare le lacrime. Piangeva così facilmente ormai. Qualsiasi cosa la faceva scattare, e lo sforzo di mantenere il segreto della nascita di Liyoni stava diventando sempre più insopportabile. Con Laurence vicino, non poteva evitare che la tristezza traboccasse, ma se si fosse concessa di piangere e lui la consolava, la verità sarebbe potuta venire a galla.
Le prese la mano e lei fu inorridita dal fatto che la sua bocca si fosse aperta di propria iniziativa. Lasciò andare la mano di lui, inventò una scusa qualsiasi, e una volta dentro casa corse verso la sua stanza, cercando soltanto di non crollare.
In bagno si sedette sul bordo della vasca. Il suo bagno era semplice e bellissimo. Mattonelle verdi alle pareti, blu sul pavimento, e uno specchio con una cornice d’argento. Un bel posto per piangere da sola. Si alzò e si guardò gli occhi gonfi. Si svestì lentamente e osservò lo strato di grasso in eccesso sul seno, la pancia e le cosce, e di nuovo non si sentì se stessa.
Era stata così felice quando aveva creduto che il suo destino fosse diventare la moglie di Laurence, e la madre dei suoi figli. Naveena aveva detto che quello era il destino della bambina; e quindi il suo destino era quello di partorire una bambina dopo una notte che ricordava a malapena? E più provava a dimenticare cosa aveva fatto, più gli occhi neri di Savi la perseguitavano. Serrò la mascella e chiuse la mano a pugno. Odiava Mr Ravasinghe, lo odiava con tutto il cuore, e odiava ciò che le aveva fatto. Sollevò il pugno e colpì forte lo specchio. Mentre il sangue le colava dalle ferite sul pugno, accanto alla decina di immagini frantumate di lei nuda, provò una stranissima sensazione di sollievo.
La festa era piuttosto tranquilla. Le fiaccole sulle case della gente emanavano fumo misto a incenso che mulinava nell’aria della sera, e Gwen riconobbe lo stesso tamburellare che aveva sentito la prima volta al suo arrivo a Colombo. Le persone gironzolavano in gruppetti di persone felici, vestite in modo sgargiante. Quando si imbatterono in un gruppo di danzatori in una piccola piazza, si fermarono a guardarli.
Gwen si appoggiò a Laurence con Hugh in braccio e tentò di rilassarsi. Naveena le aveva curato i tagli e si sentiva meglio. Era stata una buona idea quell’uscita. Verity sembrava felice e Naveena passò tutto il tempo a sorridere e ad annuire.
«Sono danzatori di Kandy», disse Laurence.
Lei guardò i danzatori maschi, con lunghe gonne bianche, campanellini ai polsi e cinture ingioiellate, seguiti da uomini con turbanti rossi e dorati e tamburi legati alla vita. Il ritmo era ipnotico.
Seguirono danzatrici che indossavano delicati abiti tradizionali, e battevano le mani mentre si muovevano. Poi arrivò una compagnia di bambine piccole. Gwen avvertì una vampata di calore mentre guardava i loro corpicini che si avvitavano e giravano. Osservò l’espressione di trance sui loro volti, il semplice ma dignitoso modo in cui si muovevano, i delicati guizzi dei loro polsi, e i loro bellissimi capelli ricci e neri, liberi di stare sciolti. Ognuna di loro aveva il volto di sua figlia, il corpo di sua figlia, o almeno il viso e il corpo che un giorno avrebbe avuto. Mentre la nostalgia per Liyoni la coglieva, le si chiuse la gola e poté soltanto respirare affannosamente. “Respira”, si disse. “Respira”. Fece un passo avanti, poi sentì cedere le ginocchia. Laurence la afferrò mentre cominciava a cadere. Naveena prese Hugh, Laurence, invece, li condusse attraverso la folla, e poi su una panchina ai margini della piazza del mercato.
«Metti la testa fra le ginocchia, Gwen».
Fece quanto le veniva detto, se non altro per nascondere il viso al suo esame. Sentì il suo palmo sulla schiena, che la accarezzava dolcemente, e le lacrime le solleticarono le palpebre.
Si sforzò di riprendere fiato, e quando ci riuscì e la testa smise di girarle, si raddrizzò, con un fremito interiore.
Laurence le sfiorò la fronte. «Sei caldissima, mia cara».
«Non so cosa sia successo. Ho sentito all’improvviso tanto caldo e poi mi è venuto un capogiro. Mi fa malissimo la testa».
Verity, che fino a quel momento non si era accorta che si fossero allontanati, arrivò correndo. «Vi siete persi il meglio in assoluto. C’era un mangiatore di fuoco. Uno di quei bambini, vi rendete conto?».
Gwen la guardò.
«Sei pallida. Cos’è successo? E Hugh?».
«Torniamo a casa», disse Laurence.
Verity fece una smorfia. «Dobbiamo proprio? Io mi sto divertendo tantissimo».
«È fuori discussione, temo. Gwen ha mal di testa».
«Oh, per l’amor del cielo, Laurence. Gwen e i suoi mal di testa. E io? Nessuno si preoccupa di quello che voglio io?».
Laurence prese Verity per un gomito e si allontanò con lei di qualche passo, ma Gwen udì comunque la voce arrabbiata della cognata.