Capitolo 31

Gwen scostò la tenda di pesante broccato. Dalla finestra del loro appartamento al Savoy-Plaza Hotel, quella prima mattina nella grande città, fu sorpresa di riuscire a vedere gli alberi e la sponda rocciosa di un lago che scintillava sotto il sole di settembre. Non sapeva bene cosa si fosse aspettata di trovare, di certo non quella splendida mattina di sole né un parco così grande nel bel mezzo di New York.

Si voltò a guardare la stanza. Doveva ancora abituarsi a quelle superfici lucenti nere, argentate o screziate di verde, ma decise che le piacevano quelle forme geometriche e gli angoli pronunciati. C’era anche un dipinto che occupava tutta una parete. Non era sicura di come si dovessero interpretare quelle pennellate nere sullo sfondo color crema che apparentemente non rappresentavano nulla di particolare, ma quel quadro la fece pensare a Savi Ravasinghe. Christina aveva proposto di visitare la sua ultima mostra in una galleria d’arte al Greenwich Village, ma Gwen certo non moriva dalla voglia di andarci. Si trattava di una serie di dipinti che ritraevano i nativi di Ceylon al lavoro, invece dei soliti ritratti di bellissime donne ricche. Il quadro che Christina aveva scelto come immagine della Hooper era uno di quelli, ma Gwen decise lo stesso di non andare, adducendo come scusa un mal di testa.

Libera dal perenne nodo allo stomaco a cui si era abituata quando era a casa, adesso non poteva evitare di sentire un brivido di eccitazione. Alla radio stava passando la canzone Keep Young and Beautiful e a lei parve più che appropriata. New York era proprio quel genere di posto. Laurence era già uscito per incontrare Christina, e Gwen pensò a cosa fare nel frattempo. Per distrarsi dal pensiero di suo marito che trascorreva del tempo da solo con Christina prese una copia patinata di «Vogue» e scorse le immagini di nuovi abiti alla moda. Poi prese la borsa, si infilò una giacca e uscì. Laurence aveva promesso di tornare per mezzogiorno, quindi aveva ancora più di due ore.

Una volta in strada alzò lo sguardo per osservare il loro hotel. Christina gli aveva prenotato una camera al Savoy-Plaza, un hotel ben più vivace dell’altra struttura della stessa catena sulla Fifth Avenue. Lì si poteva ascoltare musica al bar fino a mezzanotte, anche se il giorno prima, quando erano arrivati, erano stati troppo stanchi per farlo. Gwen era un po’ intimidita da quel posto: la serie di finestre ad arco al pianterreno, il tetto in stile Tudor con due comignoli e l’aspetto virile dell’edificio facevano molta più impressione delle architetture di Ceylon, che a confronto sembravano graziose ed eleganti.

La strada era rumorosa. Le auto suonavano il clacson passando accanto agli autobus a due piani e a veicoli più nuovi e più piccoli, a un piano solo. Gwen notò un cartello che assomigliava a un gigantesco leccalecca, lungo quello che Christina chiamava “il marciapiede”. Avvicinandosi realizzò che si trattava di una fermata dell’autobus. Si unì alla schiera di uomini che indossavano cappelli di feltro e tentò di passeggiare con la loro stessa nonchalance, mentre rifletteva su cosa fare. Decise che il taxi fosse la scelta migliore. Chissà dove l’avrebbero portata gli autobus. Ma prima che avesse il tempo di fermarne uno, notò un piccolo bus con il tettuccio color crema e la scritta tour di manhattan sulla fiancata. Senza esitare si mise in coda per acquistare un biglietto.

Dal suo posto accanto al finestrino ascoltò la conversazione di una coppia seduta di fronte a lei mentre osservava le strade scorrerle davanti. L’uomo si stava lamentando di un avvocato che era stato accusato di fare incetta d’oro. Il valore complessivo ammontava a duecentomila dollari, stava dicendo. Da non credere. Sua moglie, se davvero lo era, ma Gwen ne era certa, borbottava: «Ma certo caro» ogni volta che il racconto lo richiedeva, ma era evidente che non lo stesse ascoltando, incantata come lei dal panorama che scorreva dal finestrino.

L’argomento tuttavia riportò la mente di Gwen al motivo per cui lei e Laurence erano a New York. Per quanto le sarebbe piaciuto che le cose fossero diverse, non erano lì in vacanza. Quel giorno lui avrebbe incontrato Christina alla banca, e l’indomani sarebbero andati tutti insieme all’agenzia pubblicitaria e infine da un avvocato. Quella sera, per festeggiare, era stata promessa loro una serata di divertimento non stop. Persino l’idea toglieva il fiato a Gwen. Laurence voleva andare a sentire jazz, lei invece avrebbe preferito uno spettacolo. Avevano visto diversi cartelloni che pubblicizzavano 42nd Street allo Strand Theatre. Sarebbe stato fantastico.

Ma non era quella la loro unica divergenza di opinioni. Laurence e Christina avevano discusso spesso su quale agenzia pubblicitaria fosse la migliore per loro, al punto da sembrare una vecchia coppia sposata. Alla fine avevano ristretto la scelta tra la James Walter Thompson Agency o la Masefield, Moore & Clements su Madison Avenue. La prima a quanto pareva aveva inventato la pubblicità itinerante con l’uomo-sandwich per un suo cliente, cosa che aveva impressionato molto Christina, ma si diceva che l’altra stesse per lanciare la prima pubblicità radiofonica, e questo sarebbe stato ancora meglio. Abituata ai ritmi lenti della piantagione di Ceylon, Gwen non sapeva come porsi rispetto a tutto ciò.

Allo stesso tempo era meravigliata dalla successione di strade e di alti edifici, al punto che, immersa nei suoi pensieri, rimase sorpresa quando il tour finì di colpo e si ritrovò da qualche parte vicino al parco. Quando scese dal bus e tornò sul marciapiede, vide Laurence che guidava Christina verso l’ingresso dell’hotel, tenendola per un gomito. Non riusciva a pensare a una donna che avesse meno bisogno di essere guidata da qualcuno.

«Laurence!», gridò, decisa a non mostrarsi ferita e ingoiando la sua irritazione. Il chiasso della strada coprì la sua voce e lui non si voltò.

Gwen li raggiunse pochi istanti dopo.

«Com’è andata?», chiese, con il fiato un po’ corto.

Laurence sorrise e le baciò una guancia. «Abbiamo quasi finito il piano».

«E domani alle dieci abbiamo appuntamento in agenzia», aggiunse Christina, prendendo sottobraccio entrambi, come se niente fosse. «Forse dovremmo pranzare adesso. Io e Gwen abbiamo in programma un bel po’ di shopping questo pomeriggio, Laurence. Compreso un nuovo completo per te».

Più tardi Gwen fece ritorno dal giro di shopping da Saks e alla House of Hawes. La luce del giorno cominciava a svanire, sostituita dall’illuminazione elettrica, che disegnava tanti piccoli rettangoli luminosi sulle pareti degli edifici. Nel salottino della loro suite trovò Laurence che fumava la pipa e si rilassava su una delle due grandi poltrone di cuoio. Il facchino portò dentro i pacchi di Gwen e li lasciò appena oltre la soglia. Lei gli diede una mancia e si accomodò sull’altra poltrona, di fronte a quella di Laurence.

Era stata la sessione di shopping più stancante che avesse mai fatto, ma ne era uscita con tre splendidi abiti nuovi che l’avevano riportata al passo con la moda. A dir la verità, si era divertita molto. Aveva scelto un vestito da sera beige chiaro, con una sfumatura viola sul collo e le maniche a farfalla, uno splendido due pezzi color verde pastello e un tailleur. Christina aveva insistito perché completasse il tutto con dei guanti e un cappello a falde larghe, che valorizzava il suo viso più della cloche che portava di solito. Gwen fu felice di aver portato la sua stola di volpe, con cui avrebbe dato un tocco di classe a quel look prêt-à-porter.

«Laurence, hai notato che tra i facchini e gli ascensoristi non c’è neanche un bianco?». Si massaggiò le caviglie ed esitò per un istante. «Alcuni di loro sono davvero scuri, altri invece più color caffelatte».

«Be’ sì, l’ho notato anche io», disse lui da dietro le pagine del giornale. «Immagino che alcuni discendano da qualche proprietario di schiavi».

«Era una cosa molto comune?»

Lui annuì e continuò a leggere.

«Stai leggendo dell’avvocato accusato di accaparrarsi oro?»

«Sì. E c’è anche un interessante articolo su quell’Hitler, in Germania. Lì hanno l’inflazione alle stelle. Lui potrebbe essere in grado di risolvere la situazione».

«Credi? Ho sentito dire che accusa i banchieri ebrei».

«Forse hai ragione. Dove l’hai sentito?»

«Oh, ascolto di tutto quando sono in giro».

Per un po’ calò il silenzio. Laurence continuò a leggere e Gwen si prese un momento.

«Faccio portare del tè?», chiese poi.

Laurence non rispose e lei lo ordinò comunque, dopodiché si ingegnò per trovare il modo di approcciare l’argomento che la preoccupava.

«Laurence, stavo pensando una cosa».

«Oh, cara», disse lui sorridendole e ripiegando il giornale.

«Io diventerò il direttore della compagnia, anche se solo nominalmente, giusto? Per questo hai bisogno che firmi io i documenti».

Lui annuì.

«Ovviamente firmerò tutto quello che mi dirai».

«Non l’ho mai messo in dubbio».

«E darò pieno sostegno al progetto, ma a una condizione».

Laurence inarcò le sopracciglia, ma non disse una parola e la lasciò proseguire. «Se dovessimo fare un sacco di soldi…».

«Non “se”. Quando!».

«Questo è quello che dice Christina, sì».

«Be’, credo che abbia ragione».

«Be’, se dovessimo farcela, vorrei avere modo di migliorare le condizioni dei nostri braccianti. Per esempio mi piacerebbe che i bambini avessero libero accesso alle cure mediche».

«Tutto qui?».

Gwen trattenne il respiro. «No. Vorrei anche migliorare i loro alloggi».

«Molto bene», disse lui. «Accetto. Anche se spero di aver già migliorato qualcosa io rispetto ai tempi di mio padre. È terribile anche solo pensarci adesso, ma sai che una volta, quando si andava a caccia di coccodrilli, era molto comune usare bambini nativi come esche?».

Gwen si portò una mano alla bocca.

«Il cacciatore concordava il prezzo per il bambino e poi lo legava a un albero per attirare il coccodrillo fuori dall’acqua».

«Non ci credo».

«Temo che sia tutto vero. Il coccodrillo scattava verso il piccolo e il cacciatore nascosto nei cespugli gli sparava. Poi slegava il bambino e tutti se ne tornavano a casa felici».

«E se avesse mancato il colpo?»

«Immagino che il coccodrillo ci avrebbe guadagnato un bel pranzetto. Assurdo, non trovi?».

Gwen abbassò gli occhi, scuotendo la testa incredula. Laurence sospirò e raccolse il giornale, ma aspettò prima di riaprirlo.

Gwen prese un profondo e lungo respiro. «È solo che penso che una scuola senza assistenza medica e senza alloggi decenti sia un po’ inutile. Dobbiamo migliorare tutte e tre le cose se vogliamo fare la differenza. Immagina come dev’essere vivere con così poco».

Laurence rifletté un momento. «Mio padre pensava che fossero fortunati ad avere un lavoro e qualcuno che si curava di loro».

«Perché era quello che voleva credere».

«Perché non me ne hai parlato prima?»

«Ci stavo pensando. Voglio fare qualcosa per la nostra gente, tutto qui».

Gwen rimase in silenzio mentre lui riapriva il giornale. Poi lo riabbassò di colpo.

«In linea di principio sono d’accordo», disse. «Ma serviranno un sacco di soldi, perciò potremo farlo solo se i nostri profitti lo permetteranno. Adesso, cara, mi lasci leggere il giornale?»

«È quello sui cui apparirà la nostra pubblicità?»

«Lo scopriremo domani».

«È davvero eccitante, non credi?», disse lei appoggiandosi allo schienale della poltrona.

Poi prese una rivista e la sfogliò, finché non adocchiò un particolare articolo e infilò il periodico sotto il braccio. C’era qualcosa che voleva leggere da sola.

«Vado in bagno», annunciò.

Una volta lì prese a respirare lentamente mentre leggeva. Poi aprì l’armadietto, tirò fuori le forbicine e ritagliò con cura l’articolo.

Il giorno successivo, alla Masefield, Moore & Clements, Laurence, Christina e Gwen furono introdotti in una sala riunioni con una fila di finestre che si affacciavano su una strada affollata.

William Moore era il direttore creativo. Annuì e sorrise a tutti loro, mentre illustrava alcuni schizzi appesi a due grossi cavalletti. Mentre si presentavano, Gwen osservò le modifiche che erano state apportate al disegno originale di Savi Ravasinghe. Si sforzò di non rivelare il suo disagio quando il suo nome fu menzionato, ma non reagire di fronte ai suoi lavori fu più difficile. Il disegno era già molto grazioso, ma adesso, con qualche leggera modifica e i colori più accentuati, l’immagine della donna con il sari rosso sullo sfondo verde e luminoso dei cespugli di tè sprizzava vitalità.

«Di sicuro si noterà», disse Mr Moore con un ampio sorriso che metteva in mostra i suoi denti bianchi e splendenti.

«È bellissimo», disse Gwen.

«Dobbiamo ringraziare Christina per aver avuto l’idea. Comunque l’artista ha visto le immagini e anche lui è soddisfatto».

«Quindi è questo l’aspetto che avrà la confezione di tè. E la pubblicità?», chiese Laurence, prendendo posto al tavolo ovale.

Tutti si accomodarono e Moore porse loro un documento dattiloscritto, mentre una ragazza serviva caffè e bagel.

«È una lista delle riviste e dei giornali a cui puntiamo. E delle stazioni radio. Siamo pronti per uscire intorno a capodanno».

Laurence annuì. «Fa la sua figura».

Moore si alzò e sfogliò le pagine appese al cavalletto, rivelando gli schizzi per i cartelloni e una versione ingrandita di una pubblicità per i periodici. Continuava ad avere un sorriso stampato in faccia.

«L’idea è quella di usare l’immagine come guida. Vogliamo che si imprima nell’immaginario collettivo americano e il colore è decisamente il modo migliore per promuovere il tè Hooper. Il colore del sari della donna e quello dei cespugli di tè, anche se devo dire che il disegno funziona anche in tonalità seppia».

«E la data precisa del lancio pubblicitario?», chiese Christina accendendo una sigaretta.

«All’inizio dell’anno nuovo. Sto aspettando di avere dettagli più precisi. Vogliamo enfatizzare soprattutto la provenienza del tè».

«Come, scusi?».

L’uomo si voltò verso Gwen. «È importante far capire da dove arriva. In questo caso si tratta di puro tè di Ceylon, dal sapore ricco e deciso».

Mentre bevevano caffè, con una certa ironia che Gwen non mancò di notare, Moore fece vedere loro altre pubblicità già piazzate su cartelloni e riviste. Mentre osservava le immagini, sentì Laurence e Christina parlare. Lei gli stava riferendo dei nuovi investitori che era riuscita a convincere. Gwen scrutò il suo viso perfettamente truccato, le unghie coperte di smalto e l’acconciatura elegante. Vestiva di nero, come sempre, ma aveva una sciarpa rossa di seta intorno al collo e le scarpe abbinate. In un certo modo Gwen l’ammirava. Christina conosceva tutte le famiglie più influenti e non aveva paura di servirsi di quelle relazioni.

Durante una pausa nella conversazione, l’interfono squillò.

«Scusatemi un momento», disse Moore lasciando la stanza.

«Che ne pensi, Gwen?», disse Christina. «Eccitante, non trovi?».

Gwen sorrise. «A dir la verità, sono davvero impressionata».

«E questo è solo l’inizio. Aspetta, diventeremo il primo sponsor commerciale di una trasmissione radiofonica».

«È già in programma?»

«No, ma lo sarà presto».

Moore tornò nella stanza accompagnato da un uomo più giovane, dallo sguardo penetrante. Aveva i capelli pieni di gel e un completo immacolato, ma continuava a tirarsi la cravatta e a strusciare i piedi. Moore prese un bel respiro e per una volta non sorrise. Fu un momento imbarazzante e Laurence si alzò in piedi, sentendo che qualcosa era cambiato e che c’era bisogno di un suo intervento. Mentre l’atmosfera si trasformava da un’eccitazione piena di aspettative in una pausa di silenzio, Gwen e Christina si scambiarono un’occhiata.

«Temo che ci sia un piccolo intoppo». Moore alzò una mano mentre tutti temporeggiavano. «Ma niente di serio e spero che potremo risolverlo tranquillamente».

Gwen guardò Laurence. Aveva sollevato il mento.

«Come ho detto, spero che potremo comunque andare avanti».

La tensione crebbe e Gwen, notando l’irritazione di Laurence, non fu sorpresa di sentirlo parlare in tono piuttosto brusco

«Potremo? Cosa intende? Ci dica qual è il problema».

Moore li guardò uno per uno e il suo volto fu attraversato da una serie di espressioni diverse, che si susseguirono come se lui non riuscisse a decidersi su cosa dire. «Be’, il punto è che abbiamo avuto alcune informazioni da un nostro contatto in un’altra agenzia. Sfortunatamente un altro marchio ha comprato tutti gli spazi che avevamo in mente per la vostra campagna».

«Che genere di marchio?», chiese Christina.

L’uomo abbassò lo sguardo, poi fece schioccare le nocche e rispose. «Un marchio di tè… mi dispiace, credo proprio che si tratti di tè».

Gwen, che aveva trattenuto il respiro, ignara di cosa aspettarsi, buttò fuori l’aria, facendo sussultare le spalle. Aveva sempre saputo che era tutto troppo bello per essere vero.

«C’è ancora spazio sul mercato per il tè Hooper. Dico sul serio. Dopotutto ci sono un sacco di piccole compagnie che vendono tè. Ma questo vuol dire che dovremo aspettare per lanciare la campagna».

«E lasciare agli altri il vantaggio?», chiese Laurence strofinandosi il mento.

Moore non sorrise, si limitò a deglutire, un po’ imbarazzato.

«Se vogliamo rivaleggiare con Lipton, il punto è arrivare per primi», disse Christina. «L’avevo già chiarito nel nostro primo incontro».

«Capisco», disse Moore tentando di sorridere. «Sfortunatamente non possiamo sempre sapere cosa faranno le altre agenzie. Facciamo del nostro meglio».

«Sarà meglio per voi che non sia stato qualcuno del vostro staff a riferire dei nostri piani alla concorrenza», disse Christina a denti stretti.

Gwen si alzò in piedi. «In ogni caso non importa. Chiunque sia stato a parlare, non possiamo permetterci di arrivare secondi».

Christina tentò di interromperla.

Gwen alzò una mano per frenarla. «Fammi finire. Non saremo secondi a nessuno. Dobbiamo arrivare primi. Se potete fare in modo che la nostra pubblicità esca a dicembre, prima di capodanno, il nostro accordo resta in piedi. Altrimenti non se ne fa nulla».

Laurence le sorrise e Christina la fissò a bocca aperta.

Durante quella breve pausa, Moore li scrutò in faccia.

«Allora?», disse Gwen tentando di ignorare le farfalle che sentiva agitarsi nello stomaco.

«Mi dia fino a stasera. Dove vi trovo?».

Quella sera l’umore di tutti fu meno incline ai festeggiamenti di quanto avessero previsto. Christina aveva rimandato l’incontro con l’avvocato, che non ne era stato troppo felice. Tutti i contratti erano stati preparati con estrema urgenza e adesso giacevano sulla sua scrivania, in attesa di essere firmati. Lei era riuscita a minimizzare i motivi del ritardo, l’ultima cosa che volevano adesso era spaventare gli investitori. Ma sapevano tutti che se Moore non fosse riuscito a trovare una soluzione e il lancio della campagna fosse avvenuto in ritardo, avrebbero perso un importante vantaggio sulla concorrenza.

Gwen indossava il suo nuovo abito da sera e aveva un’aria tranquilla mentre Christina li conduceva allo Stork Club, sulla East 51st Street. Più tardi avrebbe suonato Cab Calloway, e da neoappassionato di jazz Laurence si faceva strada raggiante tra la folla. Mentre raggiungevano il loro tavolo, Christina fece un cenno a una donna che indossava un abito a fiori di satin.

«Chi è quella?», chiese Gwen quando l’ebbero superata.

«Oh, solo una dei Vanderbilt. Qui sono tutti soldi e glamour, tesoro».

Durante una pausa, Christina, con indosso un abito nero di satin e con i capelli biondi scintillanti, si accostò a uno dei tre musicisti seduti a un tavolo in fondo alla sala e lo baciò sulla guancia, lasciandogli un segno con il rossetto.

«Datevi da fare ragazzi», disse. «Quelli sono dei miei amici che arrivano nientemeno che da Ceylon».

Un cameriere portò loro un vassoio con diversi bicchieri di birra.

«È roba leggera, meno del 3,2 per cento di alcol», disse Christina facendo un cenno al barista. «C’è modo di ravvivarlo un po’?».

Gwen ascoltò Christina parlare con i suoi amici e quando la birra ritornò, discretamente rinforzata con un po’ di vodka, il primo sorso quasi gli andò di traverso.

«Il proibizionismo finirà presto», sussurrò Christina. «Questa birra disgustosa è solo una necessità temporanea».

Gwen bevve un altro sorso, le farfalle nel suo stomaco non si erano acquietate. Christina al contrario riusciva ad apparire spensierata e vivace qualsiasi cosa stesse accadendo nella sua vita. Gwen si rese conto di non conoscerla affatto. Lì, a New York, sembrava ancora più americana di quanto non fosse stata a Ceylon. All’inizio Gwen era stata intimidita e poi ingelosita dal modo in cui lei tentava di accattivarsi Laurence, poi, quando le azioni che suo marito aveva comprato erano diventate carta straccia, si era arrabbiata. Adesso la sua rabbia era leggermente diminuita e con sua grande sorpresa Gwen dovette ammettere di ammirare il carattere e la determinazione di Christina. Tornare da loro e proporre quella nuova idea doveva averle richiesto molto coraggio, considerando tutto quello che era andato male in precedenza.

La band si alzò e Christina ritornò a sedersi accanto a Gwen.

«Sono felice che abbiamo seppellito l’ascia di guerra», le disse stringendole una mano.

«L’ascia di guerra?»

«Avanti, avrai sicuramente saputo che ero gelosissima di te quando Laurence è tornato dall’Inghilterra e ha annunciato che ti aveva sposata».

«Eri gelosa di me?»

«E chi non lo sarebbe stato? Sei bellissima, Gwen, e in quel modo naturale che gli uomini adorano».

Gwen scosse la testa.

«Ovviamente speravo che Laurence fosse felice con te come madre dei suoi figli e con me come amante».

«Davvero l’hai pensato?». Gwen si sentì mozzare il fiato. «Ti ha dato lui questa impressione?».

Christina rise. «Per niente, e di certo non si può dire che io non ci abbia provato».

«Lui ha mai… Insomma, avete mai…».

«Dopo che ti ha sposata?».

Gwen annuì.

«No. Anche se una volta ci siamo andati vicini. A quel primo ballo a Nuwara Eliya».

Gwen si morse il labbro e si conficcò le unghie nel palmo della mano. Doveva assolutamente evitare di piangere.

Christina le prese una mano. «Cara, non così vicini. Solo un bacio».

«E adesso?»

«È finita da parecchio. Te lo prometto. Non hai mai avuto nulla di cui preoccuparti, anche se devo ammettere che io ho tentato a lungo di convincermi del contrario».

«Perché?»

«Tanto per divertirmi, credo. E poi non sono brava a perdere. Ma ti prego di credermi quando dico che tengo a entrambi».

Gwen scosse la testa.

«Davvero, è così. In ogni caso adesso ho una specie di storia con quel delizioso bassista». Indicò con un cenno del capo l’uomo che aveva baciato sulla guancia.

Gwen rise e Christina si unì alla sua risata. Vergognandosi per aver dubitato di Laurence, e felice di sapere che lui non era neanche mai stato tentato, Gwen sentì il cuore riempirsi di amore.

Quando i musicisti si alzarono e raccolsero i loro strumenti per riprendere a suonare, il bassista si avvicinò a Christina. Lei sorrise e lui si chinò a baciarla sulle labbra. Poi, mentre i componenti della band scherzavano tra loro, Gwen scorse Mr Moore venire verso di loro. Era troppo lontano perché riuscisse a capire se stava sorridendo. Anche Christina aveva notato il suo arrivo e le tese la mano. Gwen la prese e fu sorpresa nel percepire la forza con la quale Christina si aggrappava a lei. Era evidente che teneva a quella faccenda tanto quanto loro. Mantennero entrambe gli occhi fissi su Moore, che avanzava chinandosi e aprendosi la strada tra i gruppetti di bevitori e di ballerini.

Quella notte fecero l’amore con grande intensità e quasi sempre in silenzio. Dopo, lui la guardò negli occhi con tale ammirazione che lei si chiese come avesse fatto a pensare anche solo per un istante che desiderasse ancora Christina. Tentò di mettere insieme tutti i pegni del suo amore che lui le aveva regalato nel corso degli anni: il ciondolo di giada del suo compleanno, lo splendido dipinto su seta arrivato dall’India, tutte le piccole ma premurose gentilezze. Realizzò di non riuscire neanche a contarle tutte. Grata per ogni singolo momento passato insieme, lo baciò ripetutamente.

«E questo cos’era?»

«Sono una donna molto fortunata, tutto qui».

«La fortuna è tutta mia».

Mentre si lavava il viso nel bagno, poco dopo, Gwen si sorprese nel constatare quanto le mancasse Liyoni.

Sentì il telefono squillare in camera. La porta del bagno era solo accostata, perciò udì Laurence rispondere.

«Sai come la penso», stava dicendo a bassa voce, voltando le spalle al bagno. «Perché è così importante parlarne ora? Pensavo che avessimo già chiarito».

Seguì una pausa di silenzio in cui l’altra persona parlò e Gwen rimase in attesa con il cuore in gola. Poi fu di nuovo il turno di Laurence.

«Tesoro, sai che ti voglio bene. Ti prego, non piangere. Mi importa, davvero. Ma non può accadere. È finita. Ti ho già spiegato che è così che deve essere».

Un altro momento di silenzio.

«Va bene, vedrò cosa posso fare. Certo che ti voglio bene. Ma devi smetterla».

Gwen strinse le braccia intorno alla vita.

«Sì, il prima possibile. Lo prometto».

Gwen si sentì piegare in due. Era stata una sciocca a credere alle parole di Christina.