6.
C’era una sola tavolata di avventori, tutti povera gente del quartiere, e tutti uomini piuttosto anziani, dei quali un gruppetto di quattro giocava alle carte, e gli altri, più numerosi, seduti all’intorno accanto ai primi, o un poco più indietro, assistevano al gioco senza parteciparvi. Davide era nel numero di costoro, per quanto non mostrasse alcun interesse alla partita. Il suo posto, invero, fino a un momento prima, era stato a un tavolinetto là prossimo, dove lui sedeva a bere da solo, e sul quale rimanevano tuttora, lasciate da lui, un paio di foiette, una vuota, e l’altra a metà. Lui stesso, d’un tratto, aveva girato la sua sedia, prendendo posto alla tavola vicina, senza che nessuno ce lo invitasse. Qua aveva fatto venire ancora un doppiolitro, che offriva agli altri, mescendone ogni tanto nel proprio bicchiere. Non appariva, tuttavia, ubriaco, ma fanaticamente espansivo. Alla vista di Useppe e di Bella, una luminosità subitanea, dolce e fanciullesca, gli accarezzò la faccia per un momento:
«Useppe!» esclamò nel tono di chi incontra un amico. E Useppe, insieme a Bella, gli fu vicino in un balzo. «Méttiti qui», lo invitò Davide, accostando a sé una sedia libera. Però non appena Useppe, raggiante di contentezza, ci si fu seduto, non si occupò più di lui. Dopo quei suo fugace movimento di benvenuto, la sua faccia riprese la stessa espressione tesa e bruciante di poco prima.
Di Useppe e di Bella, invero, non s’occupava nessuno là intorno. Ma così soddisfatti erano i due della loro presente situazione, da non chiedere niente di più. Anzi, per non compromettere la loro fortuna, evitavano qualsiasi minima azione disturbatrice. Bella s’era allungata sul pavimento, fra la sedia di Useppe e quella di Davide; e (non fosse stato un irresistibile, piccolo sventolio della coda) s’obbligava a una immobilità perfetta, da sembrare il monumento d’un cane. Ogni tanto, rivolgeva in su un’occhiatina futile e beata, per dire: «Beh, che ve ne pare? Eccoci tutti e tre qua». E Useppe, dalla sedia su cui stava accomodato, guardava zitto all’intorno, con gli occhi grandi e fiduciosi, badando per fino a non dondolare le sue gambette penzolanti. La vicinanza di Davide, pure incutendogli rispetto, lo liberava da ogni disagio. E inoltre, fra i presenti (in aggiunta a un paio d’altri personaggi del quartiere già da lui conosciuti di vista) aveva scorto sùbito una sua vecchia conoscenza: Clemente, il fratello di Consolata.
Gli fece un timido cenno d’intesa, ma quello non lo riconobbe. Non giocava, e stava seduto fra i giocatori, quasi dietro alle loro spalle, sul lato opposto a quello di Davide. Rimpicciolito dalla magrezza estrema, di un pallore verdastro, con gli occhi infossati e torbidi da morto, se ne stava tutto raggricciato dentro un soprabituccio autunnale, nonostante la stagione calda, e anche in testa era coperto da una scopoletta. Sulla mano mutilata, al posto del guanto di maglia nera di Filomena, attualmente ne portava un altro, assai consunto, di pelle tinta marrone-rossiccio. Però veniva sempre inteso col suo nomignolo di Manonera. La sua condizione era d’invalido e disoccupato senza rimedio; e la sua dipendenza definitiva dalla sorella lo aveva ridotto a odiarla, e a farsene odiare. Specie i giorni festivi, che lei non si assentava per il suo lavoro, quest’odio lo cacciava di casa fino dalla mattina; e trascorreva le intere sue domeniche seduto in questo luogo. Di tanto in tanto, lo si vedeva allungare il braccio a prendere il proprio bicchiere di vino, sempre rimasto intatto; ma dopo averci guardato dentro con uno sguardo fisso e nauseato, quasi ci scorgesse dei vermi, senza berne nulla lo riponeva sulla tavola.
Sebbene sedesse fra gli altri, restava confinato in un suo cupo torpore, quasi senza più reazione agli stimoli esterni. Non s’interessava né delle carte, né delle notizie trasmesse dalla radio. Porgeva orecchio tuttavia, seppure in un modo obliquo e saltuario, ai discorsi di Davide; e solo allora i suoi tratti deperiti avevano una certa vibrazione, che esprimeva animosità, rancore, e quasi disprezzo.
Lui solo, a quella tavolata, apparteneva a una generazione ancora giovane (per quanto all’aspetto non avesse più nessuna età). Era difatti maggiore a Davide di poco più che dieci anni. Gli altri (tutti, all’apparenza, più in là o poco al di sotto dei sessant’anni) trattavano Davide con distacco e pazienza, come un ragazzetto strano, mostrandogli sopportazione anche se la sua invadenza, era chiaro, infastidiva la loro partita tranquilla. Non pochi, fra i presenti nel locale, avevano l’aria di conoscerlo già, almeno di vista; ma non c’era più alcuno che lo salutasse da eroe, come la volta che s’era presentato a casa Marrocco. Piuttosto, a motivo della sua classe sociale differente, sembravano considerarlo disceso da una sorta di nobiltà decaduta, se non addirittura da un pianeta oscuro.
La partita si giocava a coppie. Il giocatore più vicino a Davide era un vecchio sui settant’anni, però di figura atletica e pieno di salute. Una canottiera bigia lasciava in mostra le sue braccia muscolose e abbronzate e la carne, più bianca, delle ascelle. Aveva una grande capigliatura brizzolata, e sulla canottiera, da una catenina argentata, gli pendeva una medagliuccia battesimale.
Il suo socio nella partita, seduto sul lato opposto della tavola, era un uomo calvo, dalla faccia schiacciata, in divisa di fattorino. E dei due della seconda coppia, uno, evidentemente di fuori Roma (come si capiva dalla parlata diversa), era un tipo burinesco, atticciato e assai rosso in faccia, forse un sensale di campagna; e l’altro era un tale che Useppe già conosceva di vista, poiché andava in giro per il quartiere vendendo, da una cassettina a tracolla, il castagnaccio, i mostaccioli e le noci americane (aveva anzi deposto là sul davanzale di una finestrella la cassettina con le sue mercanzie, verso la quale Bella ogni tanto allungava occhiate nostalgiche). Costui aveva un viso tondo coperto di rughe, il naso e gli orecchi assai piccoli, e i compagni di gioco lo pungevano, perché tardo.
Vicino al grande vecchio dalla medagliuccia, ma un po’ dietro a lui, come spettatore, sedeva un ometto sui sessant’anni, d’aspetto sofferente. con un collo sottile e tendinoso che gli usciva da una giacchetta domenicale rimediata, di estrema povertà. I suoi occhi malaticci, dall’iride azzurrina, erano tutti venati di sangue, ma il loro sguardo era rassegnato, semplice, e seguiva con piacere vivace le sorti del gioco. Questa, della domenica pomeriggio, era, difatti, l’unica occasione mondana in tutta la sua settimana solitaria di pensionato che si arrangiava, tuttora, con altri piccoli mestieri. Ogni tanto, l’ometto plaudiva, quasi gongolante, alle mosse del giocatore con la medagliuccia.
Degli altri, che assistevano al gioco, alcuni ne seguivano la vicenda con interesse, altri invece sembravano semplicemente riposare sonnecchiando, quasi continuassero la loro siesta festiva qui all’osteria. C’era qualcuno che, di tanto in tanto, s’alzava per raccogliere notizie dalla radio, e poi tornava a riportarle agli amici. Oppure taluno di passaggio si tratteneva un poco a osservare, o altri si ritiravano lasciando la sedia ai nuovi venuti… Ma in mezzo a questo discreto andirivieni, Davide non si muoveva mai dal suo posto, tenuto là da una pesantezza delle gambe, che contrastava con la sua smania interna.
Quasi che lui pure celebrasse le domeniche, oggi s’era lavato e sbarbato alla perfezione. I capelli, che per incuria gli crescevano in disordine, se li era però ravviati, lisciandoli con l’acqua, e separandoli con la riga da una parte. E così, nell’insolito aspetto decente e nello sguardo pensieroso e (a momenti) quasi rapito, più che mai somigliava a quello studentino imberbe della vecchia fototessera, nonostante le guance scarnite e il pallore. S’era messo un paio di pantaloni non proprio stirati, ma abbastanza nuovi, e una maglietta bianca, fresca e pulita, con le maniche corte. Lì per lì Useppe, che il più del tempo volgeva gli occhi a lui, gli notò una piccola piaga gonfia e suppurata sul braccio nudo, nell’incavo del gomito; e impietosito avrebbe voluto domandargliene la causa, ma non osava interromperlo, nel discorrere incalzante che lui faceva.
Perché, o di che cosa, parlasse tanto, Davide non lo sapeva nemmeno lui. Difatti, quelli che metteva avanti non erano degli argomenti, ma piuttosto dei pretesti, tali da coinvolgere gli altri, ma se stesso in primo luogo, in un qualche problema generale - o forse personale? A simili domande non c’è risposta, poiché lui stesso, nella sua loquacità inconsueta e morbosa, aveva l’aria di andar cercando - prima ancora che una soluzione - proprio il problema! E se tento di ricapitolare i suoi discorsi di quel pomeriggio all’osteria, io me li rivedo nell’immagine di tanti cavalli che si rincorrono intorno a una pista circolare, ripassando sempre sugli stessi punti. Presentemente, si udiva la sua voce (dal timbro caratteristico di basso giovanile) ribattere su una questione che i circostanti non si decidevano a raccogliere, per quanto lui si intestasse a reiterarla: accusava, cioè, tutti quanti - non solo gli astanti, ma tutti i viventi in generale - di reticenza volontaria a proposito dell’ultima guerra e dei suoi milioni di morti. Come si trattasse di un affare liquidato, nessuno più voleva parlarne: questo era il chiodo sul quale lui ribatteva. E seguitava a ripetere, in toni di protesta accanita, ma insieme di richiamo quasi patetico:
«Nisùn… nisùn…» Fino a che il vecchio dalla medagliuccia gli disse di rimando, pur senza molta convinzione, e badando a non distrarsi dalle carte:
«E pàrlane tu, allora. Noi te stamo a sentì…» Poi, buttando deciso una carta sulla tavola, esclamò: «Carico!» mentre Clemente, ridacchiando, a sua volta sogguardava Davide, con l’aria di confermargli: «Già. Che aspetti a farcela sapere, la tua filosofia?»
Il locale, piuttosto ampio, aveva due entrate. Nell’angolo presso la seconda entrata, di là dalla ghiacciaia, e dal banco, e dalla tavolata dei giocatori, una piccola folla si accalcava in piedi intorno alla radio accesa, a raccogliere i risultati delle partite di calcio. A differenza degli avventori seduti, questi altri, in maggioranza, erano giovani; e non bevevano, né occupavano nessuna tavola, trattenendosi qui di passaggio, solo per il notiziario. Altri si avvicendavano a loro dalla strada; e attraverso quell’ingresso, fra chi ne entrava, e chi ne usciva, c’era un continuo movimento e un vocio di discussioni sportive, al quale anche l’oste, dal suo banco, si univa volentieri. Di qua, frattanto, altri clienti anziani avevano disposto una seconda tavolata, con le loro carte. E da una parte all’altra si udiva esclamare: «Liscio!» «Spara!» e simili frasi usuali del gioco, che s’incrociavano con le altre voci e coi rumori della strada, in una confusione assurda e rintronante. Ma Davide non si sentiva disturbato dai rumori: anzi, un silenzio improvviso lo avrebbe forse gettato nel pànico. Godeva una chiarezza di coscienza così acuta, da sentirsene eccitato, come da uno stimolo fisico situato dentro il suo cervello, eppure gli pareva di andare a tentoni, uguale a un pischello smarrito che non osa chiedere aiuto ai passanti. Però su tutto, in lui, prevaleva una sorta di entusiasmo: tale che via via tutti i suoni di fuori gli si coinvolgevano nel suo proprio clamore e fervore interno, quasi un’unica avventura estrema!
Si trovava - facile capirlo - in una delle sue giornate di gala; però oggi, diversamente dal solito, questa sua gala domenicale gli aveva reso intollerabile la solitudine nel suo terraneo, spingendolo fuori, per le strade, con la foga, un poco apprensiva, di un debutto. Aveva voglia di incontrarsi coi passi degli altri, con le voci degli altri; i suoi polmoni volevano respirare l’aria degli altri.
E non si faceva guidare da una scelta, solo dal caso. Però, trovandosi a passare di qua, s’era infilato in questo locale, da lui già frequentato saltuariamente, e che gli prometteva, in certo modo, un’aria di famiglia.
Non aveva voglia di vino; ché anzi l’alcool, chimicamente, non combinava troppo bene con certi suoi stati di gala. Se si era indotto a bere un poco, lo aveva fatto solo per darsi un contegno, ossia per giustificare, così, la sua presenza di cliente, e non di intruso. Ora, col vino, gli si era attaccata la medesima irrequietudine di quando, entrati in una balera, si ha smania di ballare; senonché il ballo non si accordava con la greve stanchezza delle gambe, che pure gli era sopravvenuta nel tempo stesso. E questa poi non era una balera… Era un posto… qualsiasi… del mondo… Appunto! Appunto! Un qualsiasi posto del mondo!
Non sapeva nemmeno lui che cosa lo avesse spinto, d’un tratto, a voltare la propria sedia verso la tavola vicina (l’unica occupata, ancora a quel momento, nell’osteria) mettendo in tale iniziativa normale e semplice uno slancio così eccessivo da somigliare a un’aggressione. Forse, dovunque si fosse trovato e con chiunque (in un tribunale, o in un ospizio, o magari alla corte d’Inghilterra) il suo moto sarebbe stato identico. Aveva ubbidito a una di quelle volontà incongrue per cui d’un tratto uno, mentre va in giro per una piazza, si spoglia nudo.
Senz’altro gli era parso, nel voltare in qua la sedia, di prendere chi sa quale risoluzione importante, pure se imprevedibile a lui stesso, e molto confusa. E solo al momento di aprir bocca, si rese conto che la sua vera voglia, oggi, era di parlare. Lui stesso - così gli parve - era un nodo terribile, e tutti quanti gli altri si ingarbugliavano e inciampavano in questo nodo. Solo dialogando con gli altri, il nodo forse poteva sciogliersi. Era una battaglia, da affrontarsi oggi, senza ritardo; e allora, dopo la vittoria, lui si sarebbe riposato. Se poi dovesse tenere un colloquio, o una conferenza piuttosto, non gli importava di saperlo prima. Di una sola cosa era certo: che si trattava di comunicazioni urgenti!
Troppi sarebbero gli argomenti, invero: tanti, che lui se ne sentiva frastornato. E sebbene del tutto in sé, riconosceva pure che la sua mente non era accesa dalla salute, ma da una sorta di febbre lucida, che lui voleva sforzarsi di frenare, per quanto, in certo modo, intendesse approfittarne.
Parlare, sì; ma incominciando da dove? da quando? Era partito con le sue frasi sulla guerra, come se questo punto fosse una stella polare, o una cometa errante, che doveva indicargli la direzione; ma intanto (anche dopo l’invito del vecchio dalla medagliuccia) non faceva che blaterare le sue proteste oziose, con una pretesa bullesca che gli provocava dei sogghigni da parte di Manonera.
«La guerra è finita», intervenne, sbirciandolo per un istante, il giocatore dall’aspetto di sensale, «si deve pensare alla pace, adesso…» Poi sùbito trascurando l’argomento puntò gli occhi verso il proprio compare di partita, il tardo ambulante di mercanzia varia, e lo esortò:
«Forza co’ le denara!»
«Ah già, la guerra è finita!» ripeté Davide, in tono polemico, «è tempo di pace, già…» E così detto rise sguaiatamente. Questa risata ebbe un certo effetto di sorpresa su Bella, che alzò entrambi gli orecchi; ma intanto Davide, cedendo - a suo proprio dispetto - a un impeto di malumore, si agitava sulla sedia con aria torva: «Di queste paci», inveì verso il sensale, il quale invero non si curava più di lui, «se ne sono fatte centomila! E se ne faranno altre centomila, e la guerra non è mai finita! Usare la parola PACE per certi intrallazzi, è… è pornografia! È sputare sui morti! Ma già, i morti, se ne fa un conto approssimativo, e poi vanno in archivio: pratiche estinte! Per le ricorrenze, dei signori in tight portano una corona al milite ignoto…»
«Chi è morto giace e chi è vivo si dà pace», proverbiò il piccolo pensionato, ammiccando coi suoi occhietti sanguinolenti, in un modo che non voleva essere ironico, ma anzi compiacente verso Davide. «Pratiche archiviate!» rinforzò Davide storcendosi, in rivolta. Ma qui lo rattenne il pensiero che se incominciava a questo modo, arrabbiandosi, avrebbe perso la strada fino dal principio. E in un grande sforzo della volontà, fece una specie di salto mentale, che lo portò a uno stato di sdoppiamento ragionante. C’era un Davide Super-Io, che segnava la marcia, e un altro Davide che ubbidiva, anche se perplesso, al caso, sui mezzi e sugli scopi. Quel tale Davide Super-Io doveva poi riaffacciarglisi, nel séguito dei suoi discorsi odierni, sotto forme variabili: talora come una spada fiammeggiante, talora come una parodia…
Stavolta, nel dargli il via, prese una forma da Professore di Storia. E Davide si costrinse, coi sopraccigli riuniti, a raccogliere nella mente in proposito le proprie cognizioni precipue, fino a quelle primarie già indotte dai suoi studi ginnasiali: impegnandosi alla calma, alla chiarezza, e anzitutto a un ordine metodico, se voleva predisporre il campo in vista della battaglia prossima. Decise dunque di procedere attraverso tesi successive, stabilendo, in primo luogo, dei punti-base di certezza ovvia, anzi già risaputa, come nei teoremi. E, partito a tale còmpito con la stessa serietà di quando, scolaro, veniva chiamato alla cattedra, esordì, con una parlata così diligente e puntuale che pareva leggesse da un breviario:
1) La parola fascismo è di conio recente, ma corrisponde a un sistema sociale di decrepitudine preistorica, assolutamente rudimentale, e anzi meno evoluto di quello in uso fra gli antropoidi (come può confermare chiunque abbia nozioni di zoologia); - 2) simile sistema si fonda infatti sulla sopraffazione degli indifesi (popoli o classi o individui) da parte di chi tiene i mezzi per esercitare la violenza. - 3) In realtà, fino dalle origini primitive, universalmente, e lungo tutto il corso della Storia umana, non sussiste altro sistema fuori di questo. Recentemente, si è dato il nome di fascismo o nazismo a certe sue eruzioni estreme d’ignominia, demenza e imbecillità, proprie della degenerazione borghese: però il sistema in quanto tale è in atto sempre e dovunque (sotto aspetti e nomi diversi, e magari contrarii…) sèmpar e departùt dall’inissio della Storia umana…
In questa fase preparatoria della sua problematica impresa, Davide muoveva il capo, alternativamente, in qua e in là, come chiamasse a testimoni dei propri postulati tutti i presenti del luogo. E sebbene, in realtà, del suo discorso (tenuto, fra l’altro, con voce alquanto moderata) emergessero soltanto degli spezzoni, tosto risommersi nella confusione generale, tuttavia, con una specie di sorda fiducia, lui seguitò ancora, per un tratto abbastanza lungo, a parlare secondo l’ordine predisposto: «…che insomma tuta la Storia l’è una storia di fascismi più o meno larvati… nella Grecia di Pericle… e nella Roma dei Cesari e dei Papi… e nella steppa degli Unni… e nell’Impero Azteco… e nell’America dei pionieri… e nell’Italia del Risorgimento… e nella Russia degli Zar e dei Soviet… sèmpar e departùt i liberi e gli schiavi… i ricchi e i poveri… i compratori e i venduti… i superiori e gli inferiori… i capi e i gregari… Il sistema non cambia mai… se ciamàva religion, diritto divino, gloria, onore, spirito, avvenire… tuti pseudonimi… tute maschere… Però con l’epoca industriale, certe maschere non reggono… il sistema mostra i denti, e ce lo stampa ogni giorno, nella carne delle masse, il suo vero nome e titolo… e non per niente, nella sua lingua, l’umanità viene nominata MASSA, che vuol dir materia inerte… E così, ormai ci siamo… questa povera materia de servissio e de fatica, se rende una pasta de sterminio e disintegrassione… Campi di sterminio… il nuovo nome della terra l’hanno già trovato… Industria dello sterminio, questo è il vero nome odierno del sistema! E bisognerebbe mettercelo per insegna sui cancelli delle fabbriche… e sui portoni delle scuole, e delle chiese, e dei ministeri, e degli uffici, e sui grattacieli al neon… e sulle testate dei giornali… e sui frontispizi dei libri… anche dei testi COSIDDETTI rivoluzionari… Quieren carne de hombres!!»
Non sapeva più dove avesse letto quest’ultima frase; ma nel punto stesso che la citava, se ne rimproverò, come di uno sbaglio, per via che di certo, là intorno, nessuno conosceva lo spagnolo! Avrebbe potuto parlare, invero, anche in greco antico, o in sanscrito, dato che le sue frasi, là in giro, venivano ricevute al più come un fenomeno acustico. Di tale circostanza, attualmente, lui si rendeva consapevole solo in parte; ma già la calma voluta dal suo Super-Io gli s’era persa; e incominciò a muovere con impazienza i piedi e le mani, prorompendo in una risata scomposta: «C’è chi ha creduto», esclamò, alzando la voce di prepotenza, «che quest’ultima fosse una guerra… di rivoluzione mondiale!»
Il notiziario sportivo della radio si concludeva; alcuni degli ascoltatori si attardavano a discutere, mentre altri se ne andavano alla spicciolata. «E falla tu, la rivoluzione, se sei bravo!» intervenne un giovane scamiciato, che alle parole di Davide s’era appressato alla tavola. A costui Davide si rivoltò con una grinta rissosa: «Mì non son di quelli che ci hanno creduto!» gli spiegò animosamente, «mì a quelle rivolussioni non ci credo!… una rivolussione vera non c’è stata mai! mì non ho più speransa nella vera rivoluzione!…»
Ma il giovane scamiciato, con un’alzata di spalle, già ritornava verso il gruppo degli appassionati sportivi. «E quale sarebbe, questa rivoluzione buona?» s’informò dal suo banco l’oste, allungando a Davide un’occhiata pigra. Però senza aspettare la risposta, ripreso dalla discussione già iniziata con gli sportivi, rivoltandosi a costoro esclamò, con una certa foga:
«Secondo me, là il pasticcio l’aveva combinato l’arbitro».
L’apparecchio adesso trasmetteva musiche varie, e l’oste ne abbassò il volume per seguire meglio le argomentazioni sulle partite. Dai vari punteggi del giorno, i discorsi erano risaliti alle vittorie più recenti della Nazionale contro squadre estere. C’era chi esaltava sopra a tutti un campione, e chi un altro. Il giovanotto scamiciato di poco prima, vociando, sosteneva la supremazia di Mazzola. E a questo punto, irresistibilmente, l’ometto dagli occhi malati si levò dalla sedia per contestarlo: «Intanto la vittoria di Torino» gli strillò fiero della propria competenza, «è stata merito di Gabetto, altro che Mazzola! Due goal gli ha fatto, Gabetto! DUE!» ribadì, agitando trionfalmente due dita sotto il naso del giovanotto..
Siccome la radio andava trasmettendo una canzone nuova di successo (che non so ricordare) uno dei giovani, di propria iniziativa, rialzò più forte il volume dell’apparecchio; e per accompagnare il ritmo della canzone prese a fare certi studiati movimenti coi fianchi e coi piedi. Un altro, vantandosi più aggiornato nel ballo, s’interpose a insegnargli le figure giuste; e questo nuovo argomento distrasse dallo sport una parte del gruppetto circostante. Un animato, giovanile trapestio si aggiunse così alle musiche e alle voci diverse. Ma, al solito, la generale confusione non toccava Davide, o almeno lo sfiorava solo in superficie. Il centro delle sue energie si teneva fisso a quel presunto impegno che oggi, inopinatamente, con urgenza tragica, gli s’era imposto: e sotto un tale assillo imprecisato, tutto il resto, intorno a lui, si disperdeva in frantumi. Persuaso che la domanda dell’oste esigesse una risposta doverosa, can accigliata pazienza si riportò indietro alla propria lezione schematica di prima. E riconcentrandosi sul punto dove l’aveva interrotta, tornato a quel precedente suo tono di buona volontà, quasi catechistico, s’industriò a testificare: che quel famoso sistema istituito eterno universale della sopraffazione eccetera per definissione si tiene sempre incollato al patrimonio, di proprietà privata o statale che sia…
E per definizione è razzista… E per definizione deve produrse e consumarse e riprodurse attraverso le oppressioni e le aggressioni e le invasioni e le guerre varie… non può sortire da questo giro… E le sue pretese «rivoluzioni» si possono intendere solo nel senso astronomico della parola che significa: moto dei corpi intorno a un centro di gravità. Il quale centro di gravità, sempre lo stesso, qua è: il Potere. Sempre uno: il POTERE…
Ma a questo punto il parlatore dovette rendersi conto che le sue brave parole non venivano raccolte da nessuno se non per isbaglio, come fossero dei pezzi di carta straccia mulinanti al vento… E difatti per un istante ammutolì, con la faccia turbata e perplessa di un bambino al centro di un sogno vociferante… Ma sùbito si aggrottò, stringendo le mascelle; e all’improvviso, levandosi in piedi, gridò in aria di sfida:
«Io sono ebreo!»
Frastornati dalla sua uscita, i tavolanti d’intorno staccarono per poco gli occhi dalle carte, mentre Clemente lo sogguardava storcendo le labbra. «E che male c’è a essere ebrei?» disse con dolcezza l’ometto dagli occhi sanguinosi, che frattanto s’era riseduto al proprio posto. «Gli ebrei», dichiarò con gravità quasi ufficiale l’uomo in divisa di fattorino, «sono cristiani uguali agli altri. Gli ebrei sono cittadini italiani come gli altri».
«Non era questo, che volevo dire», protestò Davide arrossendo. Si sentiva, difatti, in colpa, quasi sotto l’accusa di aver messo avanti delle questioni sue proprie personali; però in fondo era contento, semplicemente, che almeno qualcuno gli avesse risposto. «Per chi mi avete preso?!» protestò ancora, con un certo impaccio, ricercando il filo che gli sfuggiva, «razze, classi, cittadinanze, sono balle: spettacoli d’illusionismo montati dal Potere. È il Potere che ha bisogno della Colonna Infame: quello è ebreo, è negro, è operaio, è schiavo… è diverso… quello è il Nemico! tuti trucchi, per coprire il vero nemico, che è lui, il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio… Si nasce ebrei per caso, e negri, e bianchi per caso…» (qua gli parve d’un tratto di ritrovare il filo) «ma non si nasce creature umane per caso!», annunciò, con un sorrisetto ispirato, quasi di gratitudine.
Quest’ultima frase, difatti, era l’esordio di una poesia, composta da lui stesso parecchi anni prima, sotto il titolo La coscienza totale, e che adesso gli veniva a proposito. Sconsigliandolo, però, il suo Super-Io, dal mettersi qua a declamare versi propri, gli parve meglio, per l’occasione, di voltare quei versi in prosa; ma gliene uscì lo stesso una voce cantata, enfatica e insieme timida, proprio da poeta che recitasse un suo poema:
«Dall’alga all’ameba, attraverso tutte le forme successive della vita, lungo le epoche incalcolabili il movimento multiplo e continuo della natura si è teso a questa manifestazione dell’unica volontà universale: la creatura umana! La creatura umana significa: la coscienza. Questa è la Genesi. La coscienza è il miracolo di Dio. È Dio! Quel giorno Dio dice: Ecco l’uomo! E poi dice: Io sono il figlio dell’uomo! E così infine riposa, e fa festa…
«Ma la coscienza, nella propria festa, è una, totale: non esistono individui separati, nella coscienza. E nessuna differenza esiste, nella realtà, fra l’una e l’altra creatura umana. Bianchi neri rossi o gialli, femmine o maschi, nascere creatura umana significa essere cresciuti al grado più alto dell’evoluzione terrestre! È questo il segno di Dio, l’unico stemma reale dell’uomo: tutti gli altri stemmi, onori e galloni sono dei brutti scherzi, un delirio de pestilensia: chiacchiere e patacche…»
«Ma tu, in Dio ci credi?» lo interruppe Clemente, con una mezza bocca storta, che denotava, già dentro l’interrogazione, un giudizio dispregiativo sull’interrogato. «Eh, beato chi ci crede!» sospirò, in proposito, l’ometto dagli occhi sanguinosi… «Che domanda è questa?! eppure, ritenevo di essermi spiegato», borbottò Davide, «…se CREDO IN DIO?… questa è una domanda sballata in se stessa, uno dei soliti trucchi di parole. Un trucco, come tanti altri».
«Ah. Un trucco».
«Un trucco un trucco. Roba da preti e da fascisti. Parlano di fede in Dio nella patria nella libertà nel popolo nella rivoluzione, e tutte queste loro fedi non sono altro che patacche, truccate per i loro comodi, come le medaglie e le monete. A ogni modo, io sono ATEO, se è questo che volevi sapere».
«Allora, ché sta a parlare tanto di Dio, se nemmanco ci crede!» sbottò per proprio conto il sensale, gonfiando un poco la gota con aria di fastidio. Frattanto, siccome il suo comparuccio di partita, l’ambulante, grattandosi un orecchio secondo il loro gergo, lo consultava a distanza su una mossa del gioco, lo autorizzò col termine: «Mena!», e l’ambulante prontissimo buttò sul tavolo la sua carta.
«Credere in Dio… E che Dio sarebbe un Dio che ci si può credere e non credere?! Anch’io, da ragazzino, la intendevo a questo modo, più o meno… Ma non è questo, Dio!… Aspettate! mi viene in mente una volta, poco tempo fa, che un amico mio mi domandò: ‘Tu credi che Dio esista?’ ‘Io credo’, gli risposi pensandoci, ‘che soltanto Dio esiste’. ‘E invece’, disse lui senza pensarci, ‘io credo che tutte le cose esistono, fuorché Dio!!’ ‘Allora’, abbiamo concluso, ‘è chiaro che non siamo d’accordo…’ E invece io dopo ho scoperto che io e lui dicevamo la stessa cosa…»
Simile spiegazione dovette suonare agli ascoltatori (seppure alcuno veramente era stato a sentirla) come un quiz indecifrabile. Forse, avranno presunto che si trattasse di una teologia ebraica… A ogni modo, il solo commento che ne seguì furono certi colpi di tosse di Manonera, pari a note di sarcasmo emesse, per lui, dai suoi polmoni malandati; oltre a un «Ahò, Davide!» discreto, ma abbastanza spavaldo, dalla parte di Useppe. Era già la terza o quarta volta, nel corso della riunione, invero, che Useppe si faceva presente con quella chiamata all’amico; ma era solo per vantarglisi: «noi pure ci stiamo, qua!» senza nessuna pretesa di risposta. E difatti, Davide, al solito, come già le altre volte, non dette cenno nemmeno di avere inteso.
Era ricascato a sedere, quasi senza accorgersene, e teneva dietro, ostinato, al corso dei propri argomenti, con l’espressione di chi, da sveglio, tentasse di ricostruire un’avventura sognata: «Difatti si dice: Dio è immortale, proprio perché l’esistenza è una, la stessa, in tutte le cose viventi. E il giorno che la coscienza lo sa, che cosa rimane, allora, alla morte? Nel tutti-uno la morte non è niente: forse che la luce soffre se tu, o io, chiudiamo le palpebre.?! Unità della coscienza: questa è la vittoria della rivoluzione sulla morte, la fine della Storia, e la nascita di Dio! Che Dio abbia creato l’uomo, è un’altra delle tante favole, perché invece, al contrario, è dall’uomo che Dio deve nascere. E ancora si aspetta la sua nascita; ma forse Dio non sarà mai nato. Non c’è più speransa nella vera rivoluzione…»
«Ma tu, saresti rivoluzionario?» parlò di nuovo Clemente, sempre con quella sua maniera subdola e di malavoglia, che deprezzava la risposta dell’altro già prima di averla udita: «Questa», disse Davide con un risolino amaro, «è un’altra domanda-trucco. Gente come Bonaparte, o Hitler, o Stalin, risponderebbero sì…
A ogni modo, io sono ANARCHICO se è questo che volete sapere!»
Adesso, parlava rissoso, ma non contro Manonera: piuttosto, contro un qualche interlocutore invisibile. A momenti, confondeva la voce rauca e agra di Manonera con quella del proprio Super-Io!
«E la sola rivoluzione autentica è l’ANARCHIA! A-NAR-CHIA, che significa: NESSUN potere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! e un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario; e, pure se nasce proletario, è un borghese! Già, un borghese, perché, oramai, Potere e Borghesia sono inseparabili! La simbiosi è stabilita! Dovunque si trovino i Poteri, là ci cresce la borghesia, come i parassiti nelle cloache…»
«Eh, quelli tengono i soldi», fece l’oste, in uno sbadiglio, stropicciandosi il pollice contro l’indice della mano destra. «Con la moneta», sopravvenne una voce spensierata, dalla parte dei radioascoltanti, «ci si compra pure la Madonna…»
«…e pure il Padreterno», ribadì una seconda voce, più sorniona, dalla stessa parte.
«La moneta…» rise Davide. E in una confusa intenzione di spettacolo, con l’aria di un terrorista che scaglia una bomba, si cavò di tasca i due bigliettucci di banca che ci teneva, buttandoli di lato con disprezzo. Però, malgrado il suo slancio, quei pezzetti di carta senza peso cascarono a un passo da lui, poco oltre la coda di Bella; e Useppe si fece bravamente a raccattarli, riconsegnandoli premuroso all’amico, non senza approfittare dell’occasione per dirgli: «Ahò, Davide!» Quindi tornò disciplinato sulla sua sedia ancora calda, accolto da Bella con uno scossone drammatico di benvenuto, nemmeno rincasasse da una grande spedizione.
Davide s’era lasciato restituire i propri averi docilmente, rificcandoli in tasca senza più farci caso: forse già dimentico del proprio gesto impulsivo, col quale, tuttavia, non s’era scaricato della sua invadenza: «La moneta», gridò, «è stata la prima buggeratura della Storia!» Ma intanto l’interlocutore dalla voce spensierata non lo stava più a sentire. Era un giovane vispo, dai denti luminosi, il quale, applicato alla radio con un orecchio, si riparava l’altro con la palma, per cogliere senza troppe interferenze le novità dei programmi musicali.
«Fu uno dei primi trucchi di quelli là!» incalzava, tuttavia, Davide, «e loro, con questo trucco della moneta, ci hanno comprato la nostra vita! Tutte le monete sono false! È forse commestibile, la moneta? Loro vendono a caro prezzo delle mistificazioni da immondezzaio. A venderlo a peso, un milione vale meno di un chilo di merda…»
«Eppure, a me un milioncino mi farebbe comodo», suonò qua, inattesa, in un sospiro, la voce del venditore ambulante. E nei suoi occhi, scialbi e piccoli come due centesimi, spaziò una grande visione di leggenda: forse uno stupendo supermercato, suo di proprietà, straripante a quintali di mostaccioli e noccioline… La sua visione gli fece scordare momentaneamente la partita in corso; e ne fu tosto redarguito dal suo compare, che lo apostrofò: «Svéia!» con una occhiata storta verso Davide.
Costui, per contro, all’intervento dell’ambulante, mutò di umore; e fece un sorriso pacificato, da ragazzino. Poi, con questo viso nuovo, rischiarato e promettente (quasi lo toccasse in fronte, d’un tratto, un araldo favoloso) annunciò:
«Nella Comune Anarchica, la moneta non esiste».
E qua, senz’altro, partì a descrivere la Comune Anarchica: dove la terra è di tutti, e tutti la lavorano assieme, spartendosene i prodotti alla pari secondo la legge di natura. Difatti il guadagno, la proprietà, le gerarchie, sono tutte depravazioni contro natura, che di là sono escluse. E il lavoro è una festa dell’amicizia come il riposo. E l’amore è un abbandono incolpevole, libero di ogni egoismo possessivo. I figli - tutti nati dall’amore - là sono figli di tutti. Non ci esistono le famiglie, che in realtà sono il primo nodo dell’imbroglio della società istituita, la quale è sempre un’associazione a delinquere… Là si ignora l’uso dei cognomi, ci si chiama per nome; e in quanto ai titoli e ai gradi, là ci farebbero un effetto tanto ridicolo quanto mettersi un naso finto o una coda di carta. Là i sentimenti sono spontanei, perché il movimento naturale reciproco è la simpatia. E i sensi, guariti del delirio de pestilensia del Potere, ritornano alla comunione con la natura, in una salute inebriante! Là il palato, la vista, l’udito, l’intelletto, sono tutti gradi verso la vera felicità unitaria…
Da come ne parlava lui, contento e persuaso, con un sorriso limpido nei suoi occhi di beduino, pareva che la Comune Anarchica fosse effettivamente una stazione reperibile sulle carte geografiche (latitudine tale, longitudine tale) e bastasse pigliare il treno per andarci. Questa ipotesi illusoria provocò soltanto qualche risolino (piuttosto di futilità che di scetticismo) nel gruppo dei vecchi inattivi seduti a fare da tappezzeria; mentre, di là dalla tavolata, la radio trasmetteva, sul finale d’una musica d’orchestrina, un fragore registrato di battimani che a Davide parve canzonatorio. Ma la peggiore canzonatura gli sopraggiunse, in realtà, dal suo proprio interno, per parte del solito Super-Io: «Qua mi pare che marciamo all’incontrario», gli insinuò costui, dandogli un pizzico nello stomaco, «ti lanci a profeta dell’Avvenire, e intanto è del trapassato remoto che fai vanto: cioè del giardino dell’Eden da dove eravamo emigrati, non te ne ricordi?, per crescere e moltiplicarci, verso la Città della Coscienza!» «Già», riparlò Davide, inghiottendo e ridendo, con disagio, «si racconta che l’uomo, nel principio, rinunciò all’innocenza dell’Eden per la coscienza. E questa scelta richiedeva la prova della Storia, ossia della lotta fra la Rivoluzione e il fantoccio del Potere… finché, da ultimo, il fantoccio ha vinto! respingendo l’uomo ancora più indietro degli animali inferiori!! È a questo, oramai, che si assiste! difatti tutte le altre specie viventi, almeno, non hanno regredito: sono rimaste dov’erano il primo giorno: nell’Eden, allo stato di natura! mentre l’umanità lei sola ha regredito! e si è retrocessa non solo dal suo grado storico di coscienza, ma anche dal grado della natura animale. Basta ricapitolare la biologia, e la Storia… Mai, prima, nessuna specie vivente aveva prodotto un mostro al di sotto della natura come quello partorito nell’epoca moderna dalla società umana…»
«…e qual è?» s’informò, tratto da curiosità spontanea, l’ometto dagli occhi sanguinosi.
Davide dovette sforzare le labbra e le mandibole per dare la sua risposta, tanto questa gli pareva ovvia: «È la borghesia!» pronunciò, con la svogliataggine di chi mastica un boccone trito. E l’ometto si ritrasse da ogni confutazione in proposito con un sorriso mite e spaesato, intinto di una certa delusione: di sicuro, s’aspettava una risposta più sensazionale.
A Davide pareva intanto, nella sua loquacità compulsiva, di correre una gincana gratuita, forzosa e ineluttabile attraverso ostacoli predisposti. La polemica contro il nemico di classe, difatti, era cresciuta con lui fino dalla sua prima pubertà («come il fiore della virilità e della ragione» aveva scritto lui stesso in una poesia), e adesso, provava un senso di malessere a dovere affrontare ancora quel vieto, squallido nemico! Ma pure, già solo a menzionarlo, gli montava dall’interno un fermento di sommossa; e il Super-Io gli ordinava di non retrocedere!
«Almeno, i Poteri preborghesi», attaccò, avventandosi, con una smorfia, «togati e imparruccati, in trono, sugli altari e a cavallo, per quanto impestati, forse mantenevano ancora una nostalgia postuma, disémo, della coscienza totale. E per riscattarsi (in parte almeno) della loro vergogna, lasciavano qualche opera vitale, da valercene (in parte almeno) per una restituzione, o una speransa de salute… Insomma, qualche traccia luminosa, prima di putrefarsi, la lasciavano… Ma il Potere borghese, sul suo passaggio, non lascia che una striscia bavosa repulsiva, un pus d’infezione. Dove attacca, riduce ogni sostanza vitale - anzi, perfino ogni sostanza inanimata - a necrosi e marciume, come fa la lebbra… e non se ne vergogna! Difatti la vergogna è ancora un segnale della coscienza - e i borghesi, la coscienza, che è l’onore dell’uomo, l’hanno amputata. Si credono degli esseri interi, mentre sono dei monconi. E la loro massima sventura è questa ignoranza ottusa, impenetrabile…»
Era salito a un tono di esibizione irosa, da Pubblico Ministero! né questa certo era la prima volta che lui sosteneva la parte dell’accusa in un simile giudizio anzi, le sue proposizioni odierne erano tutte echi e ritornelli di un inno da lui cantato e ricantato non si sa quante volte, o da sé solo, o coi suoi compagni di lotta, quando, occasionalmente, si sentiva in vena… Solo che la sua nota contestazione di classe oggi gli si raddoppiava di una passione viscerale e disordinata, che minacciava d’ingolfarlo, e poiché lui tentò di sfogarne l’eccesso con una delle sue solite risate selvagge, questa medesima risata parve ricascargli addosso come una scarica di pugni, rinvigorendo i suoi muscoli per la vendetta.
I termini della requisitoria che andava pronunciando non gli sembravano bastanti per inchiodare definitivamente l’imputato: abusati, risaputi… E frugava nella propria inventiva a cercarne dei nuovi, risolutivi per questo scontro estremo; quando la strana invadenza della sua passione lo oltrepassò; e non trovando altro di meglio, la lingua gli si scatenò in una serie di oscenità atroci (di quelle comunemente dette da caserma) piuttosto inconsuete nella sua parlata. Lui stesso, nel proferirle, ne provava stupore, insieme col piacere vorace di violentarsi. E aveva la sensazione stravagante di celebrare una sorta di messa nera.
«E vabbè, t’avemo capito!» sopravvenne la solita voce spensierata dalla parte dei radioascoltanti, «a te i borghesi te stanno sui coglioni». E Davide, in risposta, caricò di maggior enfasi la serie ininterrotta delle sue parolacce, le quali, peraltro, scoppiavano innocue come petardi fra il suo presente uditorio. Lo stesso Useppe, difatti, fino da piccolo, aveva frequentato dei veri maestri di tale gergo (e non certo ultime, fra costoro, le signore Marrocco). Ma a Davide sembrava, nel suo parossismo, d’essere il centro esatto di uno scandalo universale, né più né meno che se lo venissero lapidando. Barcollava sulle gambe, e dalla fronte gli colava un sudore febbroso. Allora strinse i pugni, rincorrendo il filo della propria arringa: «La natura è di tutti i viventi», si affannò di nuovo a spiegare, con la voce arrochita, «era nata libera, aperta, e LORO l’hanno compressa e anchilosata per farsela entrare nelle loro tasche. Hanno trasformato il lavoro degli altri in titoli di borsa, e i campi della terra in rendite, e tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare. I loro Stati sono delle banche di strozzinaggio, che investono il prezzo del lavoro e della coscienza altrui nei loro sporchi affari: fabbriche d’armi e di immondezza, intrallazzi rapine guerre omicide! Le loro fabbriche di beni sono dei lager maledetti di schiavi, a servizio dei loro profitti… Tutti i loro valori sono falsi, essi campano di surrogati… E gli Altri… Ma si può ancora credere In altri da contrapporre a LORO? Forse le LORO falsificazioni resteranno l’unico materiale della Storia futura. È qui forse il punto cruciale d’inversione senza rimedio, dove i calcolatori scientifici della Storia, anche i migliori, purtroppo, hanno sbagliato il conto (la prognosi infausta del Potere, si capisce, viene rimossa da chi, dentro il pugno chiuso della rivoluzione, nasconde la stessa piaga infetta del Potere, negandone la malignità)! Si diagnosticava il male borghese come sintomatico di una classe (e dunque, soppressa la classe, guarito il male)! mentre invece il male borghese è la degenerazione cruciale, eruttiva, dell’eterna piaga maligna che infetta la Storia… è un’epidemia de pestilensia… E la borghesia segue la tattica della terra bruciata. Prima di cedere il potere, avrà impestato tutta la terra, corrotto la coscienza totale fino al midollo. E così, per la felicità non c’è più speransa. Ogni rivoluzione è già persa!»
Fino dal primo inizio della sua invettiva, s’era rilevato in piedi (anzi, aveva respinto indietro la sedia con un calcio). E si ostinava, intrepido, nella sua posizione eretta, per quanto la plumbea stanchezza di questa giornata di gala, respinta dal suo cervello in ebollizione, sempre più gli si accumulasse nei muscoli, sfidandolo col suo peso. Inutilmente, poi, la sua voce rauca tentava di farsi posto nel baccano. E in più, ascoltando la propria voce, a ogni passo lui riconosceva nelle sue presunte comunicazioni urgenti, come in un radiodramma registrato, nient’altro che dei plagi di se stesso.
Anzi, erano varii sestessi: Davide Segre ginnasiale in calzoncini corti, e liceale in giacca sportiva e cravatta rossa, e disoccupato errante in maglione da ciclista, e apprendista operaio in tuta, e Vivaldi Carlo con la borsa a tracolla, e Piotr bandito in armi, barbuto (nell’inverno della macchia ’43-’44, s’era lasciato crescere un bel barbone nero)… I quali tutti porgevano al presente oratore i loro famosi prodotti ideali, accorrendo a lui da ogni parte, e scappando via nel tempo stesso, come fantasmi… Con l’aria di scatenare da qui, e da questo medesimo istante, l’ultima rivoluzione ancora possibile, Davide riprese a inveire, sforzando al massimo la sua voce sfiatata:
«Bisogna smascherare il nemico! svergognarlo! riconoscere le sue dannate patacche, e svalutarle, senza ritardo! Dipende dagli ALTRI, la salvezza! Il giorno che sulla piazza i falsi valori scadessero a merda, eh, mi spiego…» Nel locale frattanto era aumentato il baccano. Alla radio si produceva un’orchestrina assai popolare in quei tempi, e il gruppetto degli amatori, d’accordo, aveva regolato l’apparecchio a un volume altissimo. Si eseguiva una musichetta sincopata, di cui non rammento altro se non che i musicanti la accompagnavano, a intervalli, con parole di canto tartagliate sullo stesso ritmo (Guà-guà-guàrdami, bà-bà-bàciami, eccetera) raddoppiandone così l’effetto comico-brillante che eccitava i più giovani a un chiasso imitativo. D’un tratto Davide si adombrò, e desistendo dalla propria arringa ammutolito riaccostò dietro di sé la sedia. Ma prima di ributtarcisi sopra, in una risoluzione subitanea si sporse in avanti col busto verso la compagnia seduta intorno. E in tono di autoaccusa (però con una brutalità provocatoria che valeva quanto un gran pugno picchiato sulla tavola) esclamò:
«Io sono nato borghese!»
«E io», gli ribatté il vecchio dalla medagliuccia, senza guardarlo, però con una risata franca e benevola, «sono nato scaricatore ai Mercati Generali».
«Mica tutti i borghesi fanno schifo», osservò a sua volta, in tono conciliante e assai giudizioso, l’ometto dagli occhi malati, «ci stanno i borghesi cattivi, e i borghesi buoni, e i borghesi così così… Dipende». Frattanto, non perdeva d’occhio le carte, visibilmente ansioso di tener dietro alla giocata: «Dàje sopra!», soffiò premurosamente, da intenditore, al suo vicino (il vecchio dalla medagliuccia); mentre già costui, quasi contemporaneamente, aveva steso la sua grossa mano sopra le carte nel mezzo della tavola, annunciando, con una indifferenza vittoriosa:.
«Pijo».
L’ometto dagli occhi sanguinosi, tutto gongolante, si ristrinse nella sua giacchettina. Si verificava il conteggio dei punti, ma la vittoria del vecchio dalla medagliuccia e consocio era scontata. Il vincente adesso ricomponeva il mazzo per ricominciare i giri.
Ripiombato di peso sulla sua sedia, Davide accennava ora il sorriso incerto di chi vuol farsi perdonare. Nell’atto di quel suo «pugno picchiato sulla tavola» ogni ultima virulenza gli era caduta. Anzi, allo sguardo protervo di poco prima, succedeva, nei suoi occhi mutevoli, un altro suo sguardo speciale, del tutto opposto: da far pensare che dentro di lui convivessero insieme un lupo, un cerbiatto, e chi sa quali altre dissimili creature di deserto, di casa e di boscaglia. A momenti, aveva l’aria di un pischello contento di venir lasciato in compagnia dei grandi invece che mandato a letto come ai giorni feriali.
Si era piegato sulla tavola, oltremodo stanco nelle ossa, ma nondimeno sempre voglioso di discorrere, quasi che oggi, avendo rotto il lungo incantesimo del silenzio, dovesse approfittare dell’occasione, a ogni costo. Gli tornò una frase letta da bambino in una favola, a proposito di una principessa liberata da un principe: erano sette ore che essi conversavano, e non s’erano detti nemmeno la settima parte delle cose che avevano da dirsi.
Le partite a carte, a questo e nell’altro tavolo, continuavano coi loro giri. Volavano e rivolavano attraverso le tavolate le solite frasi del gioco: «dammi un carico» «io gli do tre punti» «liscio» «ammazza» «gioco denari» eccetera. L’oste da parte sua s’era incantato, e mezzo imbambolato, nell’ascolto del numeroso programma radio, che offriva adesso un’altra canzone di moda, non so più quale. E i pochi giovanotti rimasti canticchiavano quella medesima canzone, echeggiata da altre radio fuori, dalle finestre aperte al ponentino. Ma Davide sembrava grato perché, magari senza dargli troppo ascolto, tuttavia lo lasciavano parlare ancora. Girava intorno uno sguardo affettuoso, che domandava simpatia, e in cui trapelava dall’interno (il Super-Io gli s’era staccato dalle costole, rimpiattato chi sa dove) qualcosa di terribilmente vulnerabile, una sorta di latitanza rischiosa, nella sua caparbietà: «Io», rimasticò a voce bassa, «sono nato di famiglia borghese… Mio padre era ingegnere, lavorava per una società di costruzioni… alto stipendio… In tempi normali, oltre alla casa dove si abitava, noi si aveva, di proprietà di famiglia, una villa in campagna, col podere tenuto da un colono - un paio di appartamenti dati in affitto (che rendevano) - l’automobile, si capisce (una Lancia) - più in banca non so che azioni…» Terminato, con ciò, il proprio rendiconto finanziario, si arrestò, come dopo una fatica materiale. E poi, ripigliando, fece sapere che proprio là, in famiglia, lui fino da piccolo, aveva principiato a intendere i sintomi del male borghese: il quale sempre più lo rivoltava, al punto che talora, da ragazzo, allo spettacolo dei suoi parenti, lui veniva sorpreso da attacchi d’odio: «E non avevo torto!» precisò, riprendendo, nel passaggio di un attimo, la grinta del duro.
Quindi, ripiegato in avanti e con la voce ridotta a poco più che un mormorio, da sembrare una chiacchiera futile e spersa diretta al legno della tavola, si diede a varie sue riesumazioni di famiglia. Che suo padre, per esempio, aveva tutta una scala di maniere diverse, anzi addirittura di voci diverse, a seconda che parlasse coi padroni, o coi colleghi, o con gli operai… Che suo padre e sua madre, senza nessun sospetto di offendere, chiamavano inferiori i dipendenti; e anche la loro usuale cordialità verso costoro pareva sempre concessa come un’elargizione dall’alto… Le loro occasionali beneficenze o elemosine, in sostanza sempre insultanti, essi le chiamavano carità… E parlavano di doveri a proposito di ogni sorta di quisquilie mondane: quali restituire un pranzo, o una visita noiosa, o mettersi in tale occasione la tale giacca, o farsi vedere alla tale mostra, o cerimonia insulsa… I soggetti delle loro conversazioni e discussioni erano, più o meno, sempre i medesimi: pettegolezzi di città o di parentela, speranze di successi carrieristici dei figli, acquisti opportuni o indispensabili, spese, redditi, cali o rialzi… Però se al caso toccavano soggetti ELEVATI come la Nona di Beethoven, o Tristano e Isotta o la Cappella Sistina, assumevano una posa di sublimità speciale, quasi che pure simili ELEVAZIONI fossero privilegi di classe… L’automobile, i vestiti, i mobili di casa, essi non li guardavano per oggetti d’uso, ma per bandiere di un ordine sociale…
Uno dei suoi primi urti - o il primo, forse? - lui non ha mai potuto scordarlo… «Dovevo avere, dieci anni, undici… Mio padre mi accompagna con la macchina, probabilmente a scuola (è mattina presto), quando sulla strada è costretto a una frenata brusca. Un tale ci ha bloccato, non di prepotenza, anzi con l’aria di scusarsi. A quanto si è capito, si tratta di un operaio, licenziato, il giorno prima, da un cantiere, per diretto intervento - sembra - di mio padre. I motivi, non li ho mai saputi… È un uomo non ancora vecchio (sulla quarantina), ma con qualche filo grigio nei sopraccigli; di statura media, non grosso, ma forte, così che pare più alto… Ha una faccia larga, e i tratti solidi, però rimasti un po’ infantili come in certi tipi delle nostre parti… Porta una giacchetta d’incerato e un berrettino basco, con qualche macchia di calcina, si vede che è muratore. Dalla bocca a ogni parola gli escono i vapori del fiato (dunque il fatto dev’essere capitato di pieno inverno)… E stà lì che si sbraccia a voler dire le sue ragioni, cercando di sorridere, perfino, per ingraziarsi mio padre. Ma invece mio padre non lo lascia neanche parlare, urlandogli contro, gonfio di collera: «Come ti permetti! Non una parola! Fatti da parte! Via! via!» Sul momento, mi sembra di scorgere un sussulto sulla faccia di quell’uomo; mentre già, di dentro, tutto il sangue ha preso a martellarmi in un desiderio, anzi volontà sfrenata: che quell’uomo reagisca coi pugni, magari col coltello, contro mio padre! Ma invece colui si scansa verso l’orlo della strada, anzi addirittura porta la mano al baschetto per un saluto, mentre già mio padre, furente, a rischio d’investirlo, ha premuto l’acceleratore… «Dovrebbe nascondersi! Gentaglia! Teppa!» inveisce ancora mio padre; e io noto che, nella rabbia, la carne, fra il mento e il colletto, gli fa delle pieghe rossastre, volgari… In quel l’uomo, invece, rimasto sulla strada, non ho visto nessun segno di volgarità. Allora mi ha preso uno schifo, di trovarmi dentro alla Lancia con mio padre, peggio che se fossi sul carretto della gogna; e ho avuto la percezione che in realtà noi, e tutti i nostri pari borghesi, eravamo la teppa del mondo, e che quell’uomo rimasto sulla strada, e i suoi pari, erano l’aristocrazia. E chi, difatti, se non un essere nobile, di reale dignità, e immune d’ogni bassezza e frode, potrebbe trovarsi ancora, all’età di quell’uomo, a dover pregare umilmente un suo coetaneo per offrirgli la propria fatica in cambio di… Mi ricordo che sull’ultimo tratto della strada, bramavo d’essere già diventato un campione dei pesi massimi, per fare io le vendette di quel muratore divino contro mio padre… E per tutta la giornata non rivolsi la parola né a costui, né a mia madre, e né a mia sorella, tanto li odiavo… Di lì, mi pare, è cominciato… Non li vedevo più con gli stessi occhi: era come se li guardassi sempre con una lente… fissa… esatta…»
«E dove si trova, adesso, la tua famiglia?» s’interessò, a questo punto, l’ometto dagli occhi sanguinosi. Ma Davide non rispose alla sua domanda, né mostrò di reagire all’interruzione altro che con uno sguardo vacuo, tornando poi subito, e quasi di rincorsa, a sgranare il suo rosario d’imputazioni. Che non c’era niente, nell’esistenza della sua famiglia, niente che non fosse contraffatto e inquinato: né i loro gesti, né il loro vocabolario, né i loro pensieri. E tutte le loro scelte quotidiane, fino alle più spicciole, erano già prestabilite, in base a certi Credi filistei che essi onoravano come massime di un etica superiore: si invita il tale perché è un Conte; non si entra nel tale Caffè perché è di bassa categoria… Ma riguardo alle leggi reali dell’etica, la loro confusione era tale da far credere davvero che essi fossero gli zimbelli inconsapevoli di una burla. A giudizio di suo padre, un dipendente del cantiere, che si appropriasse di un rotolo di filo di rame, senz’altro era un ladro; ma se qualcuno a suo padre gli avesse detto, a lui, che le sue famose azioni erano rubate sulla paga dei lavoratori, lui questa l’avrebbe presa per un’assurdità.
Se un rapinatore armato fosse entrato con la forza in casa loro devastando e ammazzando, suo padre e sua madre lo avrebbero giudicato naturalmente un criminale infame, degno dell’ergastolo però quando i rapinatori fascisti agirono allo stesso modo contro il territorio etiopico, essi offrirono il proprio oro per favorirli. Un sistema, nel quale essi stessi dimoravano comodi, a loro non dava motivo di sospetto. Per ignavia rifuggivano dalla politica, e il governo li esonerava dall’occuparsene, e da ogni responsabilità. Erano dei ciechi, guidati da ciechi e alla guida di altri ciechi, e non se ne accorgevano… Si ritenevano dei giusti - in perfetta buona fede! - e nessuno li smentiva in questo loro abbaglio. Suo padre veniva stimato da tutti un galantuomo, sua madre una signora senza macchia, sua sorella una putèla bene allevata… Già, e difatti essa è stata allevata conforme al codice dei due veci (i genitori) e lo ricopia con tanta naturalezza che a volte lo si direbbe una scrittura congenita, trasmessa a lei, dai veci, nel gene ereditario… Si vedono riprodotti in lei - sia pure in embrione - gli stessi ordinamenti loro di giustizia! Le riesce naturale a esempio lasciarsi servire (e perfino allacciare le scarpe!), lei putèla, da una cameriera che sta in casa da mezzo secolo e per l’età potrebbe esserle bisnonna… E non le pare illogico di insistere coi due veci per farsi comprare una certa mantelluccia scozzese vista in vetrina (lei che già tiene dentro l’armadio un paio di cappotti nuovi) portando il motivo che lo scozzese è proprio la vera novità, e altre sue compagne ce l’hanno! Se al caso, poi, fra costoro, ce ne sono alcune, magari, sprovviste addirittura di un cappotto, e anche di scarpe da inverno, queste essa non le conta: come fossero di un altro pianeta…
«È una bella ragazza, tua sorella?» lo interpellò qua, direttamente, il vecchio dalla medagliuccia.
«…Sì…» rispose Davide, interdetto, dopo un istante, «è belina…» E, in questa risposta, attraverso la sua voce imbronciata emerse involontario un compiacimento fraterno in cui tutte le sue durezze precedenti si scioglievano; mentre un vapore colorato gli fluiva nelle iridi, per sùbito rifluirne indietro, senza rimedio. Si trovava sospeso, a un tratto, in uno stato di fanciullezza vaneggiante, che lo trastullava con la sua consolazione impossibile, come rincorresse una nube: «…però, è stupida…» aggiunse, col tono di certi fratelli quindicenni che, per pudore, fanno mostra di canzonare. E argomentò, buffo e malcontento: «Puoi sballarle qualsiasi frottola, che lei ci crede. Uno, di prima mattina, le grida: ‘che ti succede, o cielo?! stanotte, ti s’è allungato il naso di mezzo metro!!’, e lei, tutta impaurita si precipita allo specchio. A farla ridere, qualsiasi stupidaggine è buona: basta borbottarle in un orecchio, fingendo un gran segreto, una parola improvvisata lì a caso che non significa nulla, come perepè o bomborombò, che lei sbotta senz’altro in una risata fenomenale! …E così allo stesso modo, per un altro niente, è capace di mettersi a piangere. ‘Quando Davide era piccolo’, rammenta qualcuno in casa, ‘è passato di qua il Circo francese, e lui tutte le sere voleva tornarci, a tutte le repliche!’ ‘E io’, domanda lei sùbito, ‘io no?’ ‘Tu non c’eri’, le spiegano, ‘ancora non eri nata’. E lei scoppia in un pianto enorme, a simile notizia!… Crede che, a seminare una perlina, nasca una collana, o magari che il somaro sia stato partorito dal carretto; e se le amiche sue la contestano in queste sue opinioni, lei dice che sono ignoranti… Carezza le bambole come fossero gatti che fusano, e agghinda di fiocchi il cagnolino, convinta di fargli un piacere… Però, dei cani grossi ha paura… Si spaventa perfino del tuono…»
Tali notizie sulla innominata sorella vennero accolte dalla parte di Useppe, con una fila di risate, nelle quali si poteva avvertire, oltre allo spasso, un sapore di vanto. Difatti, fra le materie oggi trattate da Davide, a lui tutte, più o meno, astruse o inaccessibili, per lui era un titolo di soddisfazione personale d’incontrarne una che appartenesse, alfine, anche alla sua competenza.
Purtroppo, una sirena del fuoco, o di altro servizio di passaggio in quel momento nella via, coprì in parte all’orecchio teso del pischello le ultime battute del suo amico: «…quando ha ricevuto un regalo che le piace, la sera se lo porta a letto… se a scuola ha preso bei voti, dorme con la pagella vicino… all’ora di dormire, non vuole mai decidersi a spegnere la luce in camera sua… una rottura di scatole… col pretesto di dare la buona notte a questo e a quello… rompe…»
«E dove si trova, adesso, tua sorella?» tornò a interessarsi l’ometto dagli occhi sanguinosi.
Stavolta, Davide non lasciò la sua domanda senza risposta. Lì per lì, si ristrinse nel corpo, stralunato, come sotto un’ingiuria o un’intimidazione. Poi fece un sorriso miserabile e rispose bruscamente: «Si trova nel mucchio». L’ometto, non comprendendo, rimase inespressivo. «E pure mio padre e mia madre», ripigliò Davide, con uno strano accento neutro e meccanico, quasi recitasse una litania, «e… e gli altri. Tutti nel mucchio. Nel mucchio! Nel mucchio!» Di nuovo, dalle pupille dilatate gli si riaffacciava l’anima del cerbiatto; ma era stavolta una bestiola impaurita all’estremo, cacciata e bloccata da tutte le parti, in chi sa quale landa, che non sa dove correre e tenta di spiegarsi: qua dev’esserci uno sbaglio… tutto questo inseguire, queste canne puntate… sarà per qualche belva pericolosa che vanno cercando nei dintorni… però non sono io quella… io sono un altro animale… non carnivoro… D’un tratto, a questo tumulto visibile gli subentrò il vuoto, i suoi occhi si agghiacciarono. E volgendosi ai vicini, s’informò con una piccola risata fredda: «Non ne avete sentito parlare, voi, dello ZYKLON B?» [7].
Nessuno dei vicini aveva udito menzionare un tale oggetto; ma dedussero che dovesse trattarsi di qualcosa di grottesco, dal modo come lui se ne esilarava.
«Ahò, Vvàvide!» sì fece udire a questo punto la voce di Useppe. Ma stavolta essa aveva un suono spezzato, inservibile e distante, quasi l’agitarsi di una manina invisibile dietro una palizzata fitta. Del resto Davide meno che mai sembrava in vena di risponderle: forse anzi nemmeno la percepì.
La faccia gli si era murata dentro una fissità senza direzione, in una specie di estasi vuota e bianca simile a quella di un individuo indiziato e non confesso quando gli si presenta il macchinario delle sevizie. Pareva invecchiato da un momento all’altro; e anche il suo ardore sessuale sempre latente (da cui gli proveniva la grazia tragica di una stimmata che bruci di continuo) sembrava essersi prosciugato e appassito sotto il calco di vecchiaia che lo schiacciava:
«Questi ultimi anni», ragionò con voce opaca, ridacchiando, «sono stati la peggiore oscenità di tutta la Storia. La Storia, si capisce, è tutta un’oscenità fino dal principio, però anni osceni come questi non ce n’erano mai stati. Lo scandalo - così dice il proclama - è necessario, però infelice chi ne è la causa! Già difatti: è solo all’evidenza della colpa, che si accusa il colpevole…. E dunque il proclama significa: che di fronte a questa oscenità decisiva della Storia, ai testimoni si aprivano due scelte: o la malattia definitiva, ossia farsi complici definitivi dello scandalo, oppure la salute definitiva - perché proprio dallo spettacolo dell’estrema oscenità si poteva ancora imparare l’amore puro… E la scelta è stata: la complicità!»
Nel trarre questa conclusione, prese l’aria quasi trionfante di chi denuncia un misfatto appena scoperto, e irreparabile: «E allora», rincrudì, ridendo con dispregio, «come pretendi, tu, di dar fuoco al lazzaretto, quando tu, tu stesso sei portatore del contagio e ne spargi il puzzo d’intorno?!» Questo tu senza nome, che lui bollava d’infamia, non sembrava indirizzarsi a nessuno degli astanti, ma piuttosto a un qualche spione invisibile, acquattato alle sue spalle.
Per un effetto abbastanza frequente in certi stati di gala, attualmente, nella sua acustica interna, ogni sua parola all’emetterla gli dilatava la propria durata, così che, nell’ultimo tratto di due minuti, gli era parso di svolgere un lungo teorema, che lui riteneva abbagliante, in qualche modo. Inoltre, mentre la voce gli si faceva sempre più bassa (fino a ridursi, fra la cagnara, a un rumore indistinto) a lui sembrava invece adesso, bizzarramente, di parlare a voce altissima, così come la piccola folla dell’osteria gli faceva l’effetto di una moltitudine. Era una moltitudine, però, alquanto distratta (di ciò lui se ne rendeva conto) o addirittura straniata da lui: chi giocava alle carte, chi ascoltava le canzoni; e seppure qualche vecchio, dalle seconde file, a certe sue frasi tentennava il capo, lui sapeva vedere (con una curiosa lucidità) che quelli erano moti quasi meccanici, piuttosto di vacuo sbalordimento che di partecipazione. «Ma che diavolo andrò dicendo?» si domandò con bruschezza.
Sul più bello, dinanzi a questo suo insuccesso totale, venivano a turbarlo dei sospetti incresciosi sulla propria oratoria: e, peggiore di tutti, in proposito, gli tornò alla mente un’certo sogno da lui avuto in passato, precisamente al tempo che si chiamava Piotr e si era dato partigiano nei Castelli. Era stato nell’ultimo periodo, quando i viveri più scarseggiavano, una notte che lui faceva il suo turno di vedetta alla base, davanti alla casupola. Fra la stanchezza della veglia, e la debolezza per il vitto scarso, a una cert’ora di quella notte lo aveva preso una sonnolenza terribile. E lui, per vincerla, non faceva che camminare su e giù, evitando di fermarsi, o, tanto meno, di sedersi; ma pure, in un punto, gli era capitato invincibilmente di assopirsi addossato al muro, in piedi come i cavalli. Per quanto, certo di durata brevissima, la sua dormita era bastata a portargli un sogno. E questo era il sogno: lui si trova in una cella bianca, stretta appena a misura d’uomo, ma dal soffitto vertiginoso, così alto che si perde alla vista. E i suoi occhi si protendono verso l’alto, in attesa, poiché si sa di certo che fra poco, giù da quel soffitto invisibile, un Essere ultraterreno scenderà fino a lui per una Rivelazione. Si tratterà (questo è già previsto) di una sola e breve frase: la quale però conterrà in sé la somma delle verità universali, unica soluzione definitiva che libererà l’intelletto umano da ogni ricerca… L’attesa del sognatore non è lunga. L’Essere non tarda a scendere, fin quasi alla sua altezza. È una figura superumana, in tunica e barba bianca, dall’aspetto maestoso dei profeti di Gerusalemme o dei sapienti di Atene. Si arresta sospeso nell’aria di fronte al sognatore, e gli dice con voce tonante: Per una zuppa calda, è buono pure bollire i pezzi delle suole vecchie! Poi dilegua.
Ora il ricordo, appunto, di un tale sogno gli si accompagnò a un sospetto subitaneo: forse, io credo di tenere chi sa quali discorsi importanti, e invece, da quando ho aperto bocca, non faccio che sbraitare delle insulsaggini ridicole, senza logica né connessione… Questo non fu, tuttavia, per lui, che un obnubilamento passeggero, di là dal quale ritrovò, lucida, la propria fissazione odierna di dovere svolgere un certo gomitolo, come nelle leggende, per arrivare - invero non sapeva dove: forse a salvare qualcuno, o almeno qualcosa… Ma chi, salvare? i clienti dell’osteria? O quale cosa? un attestato? un anello? una lettera? O a meno che non si trattasse, invece, di… stroncare… di giustiziare… Non ne aveva idea. Sapeva solo che oggi era il giorno. Come dovesse attraversare il ponte, che poi verrebbe vietato al passaggio.
Si gettò, allora, alla ripresa con un nuovo respiro, dopo l’ultimo salto dell’ostacolo: «Volevo dire, insomma» proferì a voce ancora più alta di prima (almeno così a lui parve), «che solo un uomo puro può scacciare i mercanti e dirgli: la terra era il tempio della coscienza totale, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri!»
Aveva enunciato questa idea con ferma sicurezza, e addirittura compitando, quasi leggesse una scritta sulla parete. Ma un intervento ironico del Super-Io lo indusse a tradurla in termini più spicci, per garantirsene la chiarezza. «Già. È solo un buffone», precisò, smaniando, «chi dice a un altro: boia, quando poi lui pure, venuto il suo turno, è pronto a manovrare la stessa macchina… del linciaggio… Ecco. Questa è una definizione chiara!» La stanchezza dei suoi muscoli era tale, che gli si vedeva perfino nel moto fisico delle labbra.
Per quanto chiara, tuttavia, la sua definizione non trovò un’eco sensibile fra il suo pubblico. «Il fatto è», lui si rimproverò, fra se stesso, «che io sono un pessimo tribuno. Alla folla bisogna parlare di partiti… di bandiere… Io li annoio. Bisognerebbe aver l’arte di intrattenerli… di divertirli…» Qua gli balenò a proposito una trovata brillante, e ci si mise a ridere in anticipo, con una dolcezza inerme e fiduciosa: «Non mi ricordo in che libro», raccontò, «ho letto l’aneddoto di uno scrittore che visita un manicomio. Un malato gli si avvicina e gli sussurra, indicandogli un altro malato: Occorre guardarsi da quello, che è matto, si crede d’essere un bottone. Ma fidatevi di me, se lui davvero lo fosse, il primo a saperlo sarei io, che sono un’asola!!»
Anche questa gag di Davide fallì l’effetto sperato, tanto più che arrivò, io credo, assai confusa agli orecchi dell’uditorio. Il solo a riderne, di fatto, fu Useppe, il quale, del resto, là dentro, era l’unico attento ascoltatore di Davide, e non importa se dei suoi discorsi, invero, non capiva quasi niente, ché anzi proprio per questo essi gli suonavano più venerabili, come oracoli. Avvertiva tuttavia, fin da principio, nella condotta del suo amico, qualcosa d’inquietante peggio d’una tristezza o di una malattia, così che spesso era tentato di dirgli: «Annàmo via, Davide?» ma non osava. Era entrata, frattanto, nell’osteria, un’altra sua vecchia conoscenza, lo strillone di giornali amico dei Marrocco, che lui riconobbe sùbito, per quanto lo vedesse mutato. Ma sebbene in passato gli si mostrasse cordiale, colui rispose al suo saluto festoso con un gesto vago, e alquanto scostante. Qualche mese prima, lo aveva colpito una trombosi, che lo aveva tenuto a lungo all’ospedale, lasciandolo mezzo paralizzato. S’appoggiava a un bastone, tutto sbandato, con la faccia avvilita e gonfia in cui si leggeva una continua paura di morire. E non poteva più strillare i giornali né bere vino. Dall’ospedale, s’era trasferito in casa d’una nuora, un appartamento al primo piano, rumoroso e ristretto, sopraffollato di nipoti ragazzini. E presentemente vedeva tutti i ragazzini viventi come un disastro. È assai probabile, inoltre, che non abbia neppure riconosciuto quel pischelletto che gesticolava verso di lui dall’altro lato della tavola. E in quanto a Davide, non sembrava averlo più rivisto dopo il primo incontro a casa Marrocco. I due non si salutarono, a ogni modo, né mostrarono di conoscersi; né Davide avrebbe potuto, da parte sua, prestarsi a saluti o simili convenienze, ormai travolto dal suo flusso verbale come certi infermi dimenticati nelle corsie.
Ogni tanto, è vero, i suoi occhi giravano intorno per la tavolata, interroganti e sperduti, arrestandosi un poco ora su questo ora su quel viso, con l’aria di mendicare una risposta; ma il solo interlocutore (se tale poteva dirsi) che gli restasse tuttora disponibile, era Clemente Manonera. Costui da ultimo anzi non cessava di guardarlo, un poco di sbieco e con la sola parte inferiore dell’occhio, sempre in una medesima espressione astiosa, di tedio e di sarcasmo.
Sembrava avesse condannato, già in anticipo, come chiacchiere sballate e stantie, tutto quanto poteva esser detto da lui.
Al momento di raccontare la sua barzelletta, Davide aveva fatto un nuovo tentativo di mettersi in piedi, ma presto era ripiombato giù, rotto dalla spossatezza che quasi lo riduceva al deliquio, nel tempo stesso che lo eccitava a discorrere, come in certe insonnie morbose. La voce gli si faceva sempre più bassa e roca; mentre in lui ritornava, frequente ma discontinua, la sensazione di gridare, come a un comizio. Simili altezze esagerate e involontarie della sua voce attualmente lo imbarazzavano: anche perché il filo faticoso, che lui tentava di districare, nel metterlo allo scoperto adesso gli sanguinava fra le mani, come fosse un nervo nudo:
«Io», borbottò, sudando, «sono un assassino! In guerra c’è chi ammazza spensierato, come andare a caccia. Ma io, invece, ogni volta assassinavo! Un giorno, ho assassinato un tedesco: un individuo odioso, repulsivo! E mentre agonizzava, mi sono tolto il gusto di finirlo a calci, pestandogli la faccia a morte coi miei scarponi. Allora, preciso in quell’atto, m’ha invaso il pensiero: Eccomi diventato tale e quale a lui: un S.S. che massacra un altro S.S…. E intanto seguitavo a pestare…»
Dalla parte opposta della tavola, i polmoni di Manonera fecero udire le loro solite note cavernose, che Davide percepì come risate di scherno. E subito si sentì, là nel mezzo, mostrato a dito e oggetto d’indecenza schiacciante. Uguale a uno che stando al confessionale, d’un tratto si accorgesse di avere alzato la voce, tanto che i suoi propri segreti rimbombano su per le volte e attraverso le navate gremite di gente. Gli pareva difatti, per il suo solito fenomeno illusorio, di aver gridato le ultime frasi con voce di altezza eccessiva: «Tutti quanti», proruppe allora disperato, a sua propria difesa o riscatto, «ci portiamo dentro nascosto un S.S.! e un borghese! e un capitalista! e forse anche un monsignore! e… e… un Generalissimo addobbato di frange e patacche come Martedì grasso! Tutti quanti noi! borghesi e proletari e… anarchici e comunisti! Tutti quanti… Ecco perché la nostra lotta è sempre un’azione monca… un equivoco… un alibi… false rivoluzioni, per evadere dalla rivoluzione vera, e conservare il reazionario che sta dentro a noi! Non indurci in tentazione significa: aiutaci a eliminare il fascista che sta dentro a noi!»
Si teneva rivolto a Manonera, quasi aspettasse da costui l’indulgenza plenaria, o, almeno, un’assoluzione parziale. Ma Clemente Manonera se ne stava di nuovo ritirato a tossire dentro il proprio bavero, nel suo soprabituccio di miseria, con l’atteggiamento intenzionale di chi volta le spalle al discorso. Così, per lo meno, parve a Davide. Il quale tuttavia, figgendogli addosso lo sguardo, fu sicuro di leggergli dentro, come attraverso una radiografia, la seguente risposta sottaciuta: «Le tue massime morali, tiéntele per te. Se tu ti porti dentro un Generalissimo, sono affari tuoi. Chi se ne frega? Io, quanto a me, come si vede a occhio nudo, non mi porto dentro nient’altro che un semplice soldato di truppa dell’ex-ARMIR, in congedo assoluto, disoccupato, coi polmoni marci e minorato». Tanto bastò, per fare arrossire Davide, come un ragazzetto in punizione. Inopinatamente, a questo punto, il vecchio dalla medagliuccia a sua volta levò un occhio dalle carte verso di lui:
«In conclusione», gli domandò, «tu saresti cristiano?»
«…io?!… di che cristo parli? di quello di Galilea, crocifisso…»
«…morto e seppellito il terzo dì…» recitò il vecchio dalla medagliuccia, in tono di canzonatura bonaria. I vicini risero, anche loro bonariamente.
«Quello, non si discute, fu un vero cristo, se è proprio di quello là, che voi parlate», asserì Davide, tuttora confuso di rossore. Usava il voi per senso di rispetto, rivolgendosi al vecchio dalla medagliuccia. E intanto gli si faceva sotto col viso (poiché l’interlocutore teneva pur sempre d’occhio le sue carte) nella premura affannosa di un pischello che rivendica le proprie ragioni a un adulto: «Perché qua bisogna intendersi», incalzò, pieno d’ansia, «quello là non va confuso con lo spettro omonimo che la Storia mette sugli altari, e in cattedra e sul trono… e… e lo incolla sulle insegne pubblicitarie dei suoi soliti bordelli… e… e mattatoi… e banche di ladri… sempre per nasconderci sotto il suo solo, vero idolo: il fantoccio del Potere! Il Cristo non è uno spettro; è l’unica sostanza reale in movimento… E quel cristo là storicamente fu un vero Cristo: ossia un uomo (ANARCHICO!) che non ha mai rinnegato la coscienza totale a nessun patto! Si capisce dunque e non si discute: che lui, chi lo guardava, vedeva il cielo! e chi lo ascoltava, udiva Dio! DIO non è una parola! è LA parola!!» Nell’osteria arrivava altra gente. Era l’ora, verso il tramonto, che molti abitanti del quartiere, tornando dal cinema e da fuoriporta, passavano di qua un momento, prima di rientrare in casa, dove le mogli li precedevano, intanto, a preparare la cena. Ricordo con precisione particolare la canzone trasmessa nel frattempo dalla radio (era una, difatti, ch’io tenevo già nell’orecchio, forse perché uscita nell’immediato dopoguerra o, comunque, ancora in tempo per essere cantata da Ninnuzzu: era da lui, credo, che l’avevo imparata). Ne rammento ancora a memoria qualche strofa…
bugi vugi san ballar
da farti strabiliar
sette vischi qua venti scèrri là
e gli okkèi si sprecheran…
Si videro le mani e le ginocchia di Davide oscillare per un poco a un ritmo distratto, ozioso e insignificante, accompagnandosi al motivo della canzonetta. Però senza dubbio lui ne raccoglieva le note inconsapevolmente, soltanto attraverso un udito subliminale, teso com’era a procedere, col fiato faticoso, lungo la pista rotante della sua gincana: «Il termine cristo», fece sapere agli astanti, sforzando la voce, «non è un nome o cognome personale: è un titolo comune, per designare l’uomo che trasmette agli altri la parola di Dio, o della coscienza totale che significa proprio lo stesso. Quel Cristo là si nominava, secondo i documenti, Gesù di Nazaret, però altre volte, attraverso i tempi, il cristo si è presentato sotto diversi nomi, di maschio, o di femmina - lui non bada al genere - e di pelle chiara o scura lui si mette il primo colore che càpita - e in oriente e in occidente e in tutti i climi - e ha parlato in tutte le lingue di Babele - sempre tornando a ripetere la stessa parola! Difatti, solo da quella si riconosce il cristo: dalla parola! che è solo una sempre la stessa: quella là! E lui l’ha detta e ridetta e tornata a ridire, oralmente e per iscritto, e da sopra la montagna e da dentro le gattabuie e… e dai manicomii… e departùt… Il cristo non bada alla località, né all’ora storica, e né alle tecniche del massacro… Già. Siccome lo scandalo era necessario, lui si è fatto massacrare oscenamente, con tutti i mezzi disponibili quando si tratta di massacrare i cristi, non si risparmia sui mezzi… Ma l’offesa suprema, che gli hanno fatta, è stata la parodia del pianto! Generazioni di cristiani e di rivoluzionari - tutti quanti complici! - hanno seguitato a frignare sul suo corpo - e intanto, della sua parola, ne facevano merda!»
La noia cruciale di Davide, in questa fase tarda della sua gincana, era l’usura delle sue forze fisiche, tale che il fiato quasi gli veniva meno. Ma lui si tendeva tuttavia lungo il proprio giro, come se fra la sua pista faticosa, e le sue membra rotte e drogate - là buttate sulla sedia - non ci fosse più che un rapporto fantomatico: «E così, d’ora in poi», continuò, intoppandosi, e tossicchiando a ogni frase, e facendo smorfie «lui, se torna, non dirà più parole, perché tanto, quelle che aveva da dire, le ha gridate ai quattro venti. Quando è apparso in Giudea, il popolo non l’ha creduto il vero Dio parlante, perché si presentava come un poveraccio; non con l’uniforme dell’autorità. Però se torna, si presenterà ancora più miserabile, nella persona di un lebbroso, di una accattoncella deforme, di un sordomuto, di un bambino idiota. Si nasconde in una vecchia puttana: trovàtemi!, e tu, dopo esserti servito della vecchia puttana per una scopata, la lasci là, e uscito all’aria aperta, cerchi in cielo: ah, Cristo, sono duemila anni che aspettiamo il tuo ritorno! Io, risponde lui dalle sue tane, non sono MAI partito da voi. Siete voi che ogni giorno mi linciate, o peggio ancora, tirate via senza vedermi, come s’io fossi l’ombra di un cadavere putrefatto sotto terra. Io tutti i giorni vi passo vicino mille volte, mi moltiplico per tutti quanti siete, i miei segni riempiono ogni millimetro dell’universo, e voialtri non li riconoscete, pretendete di aspettare chi sa quali altri segni volgari… Si racconta che un cristo (non importa quale, era un cristo) una volta camminando per una via di campagna ebbe fame e andò per cogliere un frutto da un albero di fico. Ma siccome non era stagione, l’albero non aveva frutti: nient’altro che foglie incommestibili… E allora Cristo lo maledisse, dannandolo alla sterilità perpetua… Il senso è chiaro: per chi riconosce Cristo al suo passaggio, è sempre stagione. E chi non riconoscendolo gli nega la propria frutta col pretesto del tempo e della stagione, è maledetto. Non si discute. Non c’è pretesto, per rimandare, perché Cristo non deve scendere dalle stelle, o da un passato e futuro chi sa dove, ma sta qua, adesso, dentro a noi. Pure questa, non è una novità, è cosa risaputa, gridata ai quattro venti: che dentro a ciascuno di noi c’è un Cristo. E dunque, che ci vorrebbe, per la Rivoluzione totale? niente, un movimento elementare di due secondi, come ridere o stirarsi appena svegli! basterebbe riconoscere il Cristo in tutti quanti: io, te, gli altri… Già, si tratta di notizie così elementari, che fa perfino schifo doverle ripetere. Basterebbe… E allora il frutto della rivoluzione nascerebbe bello e spontaneo su tutti gli alberi, tutti ce lo scambiamo allegramente, non esiste più né fame, né ricchezza, né potere, né differenza… tutta la Storia passata si scopre per quello che era: un Granguignol grottesco, demenziale, un deposito d’immondezze dove per secoli ci siamo intignati a frugare con le unghie sporche… E si vedrebbe la mattezza di certe domande: sei rivoluzionario? credi in Dio? come chiedere a uno se è nato!! Sei rivoluzionario… credi in Dio? sei rivoluzionario… credi…»
In tono di filastrocca, ridacchiando, Davide seguitò a ripetere queste due domande più volte, fino a farne una sorta di scioglilingua senza senso. Ma oramai la sua parlata era finita necessariamente in un monologo, poiché la sua voce s’era ridotta così bassa che nemmeno i suoi prossimi vicini, anche a volerlo, potevano distinguere le sue parole. Aveva preso un’aria imbronciata, come se minacciasse o accusasse chi sa chi, e guardava dentro al proprio bicchiere, allo stesso modo di Clemente, senza berne più una goccia, come vinto dal disgusto: «Vi devo ancora», andava borbottando, «una rettifica, a proposito di quel tedesco, lassù a quell’incrocio, ai Castelli: io, che lo massacravo, sì ero diventato un S.S.. Ma lui, che crepava, non era più né un S.S. né un militare di nessuna arma! Faceva certi occhi: dove mi trovo? che mi fanno? perché?, chiari chiari e stupidi, come si aprissero appena nati, invece di morire. Io, un S.S.; ma lui era ritornato un bambino…»
«Diciamo: un marmocchio», si rifece qua vivo, a soffiargli nell’orecchio, come una piccola frustata beffarda, il Super-Io. Davide rise:
«Già! meglio: un marmocchio», corresse ubbidiente. E questo fu, a mia memoria, l’ultimo punto segnato, nella loro partita di doppio, dal Super-Io: il quale senz’altro, da quel medesimo istante, come uno svolazzo vittorioso si allontanò da lui verso una latitanza definitiva, lasciandolo alla sua disastrosa debolezza.
«Era un bambino!» gli gridò dietro Davide. Aveva in faccia, adesso, quell’espressione da ragazzetto capriccioso che gli veniva, a volte, quand’era proprio esausto. Ma si protendeva tuttavia, con ostinazione incredibile, nell’ultima rincorsa… anche se il suo palio gli si svelava ormai, senza rimedio, per quello che poteva essere: nient’altro, al massimo, che uno stendarduccio di carta, molto usato, e per di più, lacero… «Chi ammazza un altro, ammazza sempre un bambino!», insisté trafelato, torcendosi le mani: «E adesso», confidò, pieno di perplessità, al proprio bicchiere, «io me lo rivedo, quello, buttato là nel mucchio. Nel mucchio!», ripeté spaventato, «nello stesso mucchio coi veci, e la putèla… Insieme: né tedeschi né italiani, né pagani né ebrei, né borghesi né proletari: tutti uguali, tutti cristi nudi, senza né differenza… e né colpa, come quando si nasce… Io», proferì, con uno di quei respiri tirati e monchi propri dei ragazzetti nel mezzo di un capriccio, «non posso più dividere il mondo in bianchi e neri, fascisti e comunisti, ricchi e poveri, tedeschi e americani… Questa farsaccia porno… porno… lurida è da troppo che dura… basta!… io… ne sono… stufo…»
Nemmeno Clemente Manonera, ormai, si prendeva più la pena di badare a Davide
Segre, il quale infatti sembrava perso, a quest’ora, fatalmente, in un vaneggiamento d’ubriaco. Si dilungò ancora non so quanto nella sua parlantina ossessiva, con una voce impastata e balbettante, alludendo a oggetti e faccende varie, senza connessione fra loro. Diceva che prima di Galileo la gente credeva che il sole girasse; dopo si credeva che girasse la terra, e in seguito era venuto fuori che i moti sono relativi l’uno all’altro, per cui si può dire che terra e sole girano entrambi, o che stanno entrambi fermi, indifferentemente.
Poi ripeteva di essere lui l’albero maledetto, e che aveva insultato Cristo dopo averlo assassinato. E se la sua famiglia era morta, la colpa era sua, che non aveva conosciuto carità per loro, in fondo semplici fanciulli inesperti e illusi. E se la sua ragazza era finita in quel modo, la colpa era sua, che per correre dietro alle sue fantapolitiche aveva trascurato il suo solo amore. E se il suo più caro amico era morto, la colpa pure qua era sua, giacché il ragazzo difatti era un bambino in cerca di un padre - era un orfanello, senza saperlo - e senza saperlo gli chiedeva di fargli da padre. E se la vecchia puttana era morta, la colpa era sempre sua, perché essa era una bambina dal cuore puro, nata per l’amore puro… E la colpa di tutti i morti era sua… E in realtà il borghese era lui… e la puttana era lui… e la canaglia era lui… e l’origine di tutta l’oscenità era lui… Bisogna dire che Davide non era certo il solo, attualmente, nel locale dell’osteria, che parlasse a vanvera… A quest’ora, le bocce di vino vuote, sui tavolini, non si contavano più. Si era alla consumazione dell’intervallo festivo. E intorno si sentivano voci di vecchi baccaiare senza senso, vantare sconcezze, tossire e scatarrare. La radio aveva trasmesso nel frattempo non so quali messaggi papali dal Vaticano… adesso riprendeva, in sunto, il notiziario sportivo del pomeriggio. Di nuovo qualche giovanotto si attruppava intorno all’apparecchio, mentre l’oste, che ormai già sapeva i risultati sportivi del giorno, sbadigliava, oppure dava ordini alla moglie, presente adesso in giro a servire per i tavolini. Nel mezzo di tutto questo, Davide appariva un caso di sbronza normale; mentre, in realtà, lui si sentiva perfino troppo lucido. La sua lucidità gli batteva dentro il cervello come tante schegge scintillanti. D’un tratto disse sorridendo, con voce più sonora:
«Non so dove ho letto di uno che visitando un lager scorse qualcosa di vivo muoversi in una catasta di morti. E ne vide uscire una bambina: ‘Perché stai qua in mezzo ai morti?’ E lei gli ha risposto: ‘Coi vivi non posso starci più’».
«È un fatto vero di cronaca!» garantì in conclusione, con uno strano sussiego didattico, assai sforzato; e in così dire si abbatté con le braccia sulla tavola singhiozzando. Non si capiva, invero, se fossero singhiozzi, o risate. «Ce semo, va’, te sei preso una bella sbronza», gli disse il vecchio dalla medagliuccia, battendolo paternamente sulla spalla. Fu qui che Useppe, timido, spaventato, gli si fece vicino, e gli disse, tirandolo per la maglietta:
«Annàmo via, Vàvide… Viè, viè, annàmo via…»
Da un pezzo, e cioè dal momento che Davide si era riseduto, parlando sempre più smanioso e con voce più bassa, Useppe era scivolato giù dalla propria sedia, accucciandosi stretto accanto a Bella sul pavimento. Non osava interrompere il suo grande amico, temendo di farlo arrabbiare; ma gli cresceva la paura di non sapeva quale pericolo che si preparasse contro di lui. Perfino la parola DIO che tornava di continuo sulle sue labbra, andava diventando, per Useppe, un soggetto di paura: come se questo famoso Dio potesse farsi avanti all’improvviso, affrontando Davide corpo a corpo. Fra tutti, Useppe era il solo che non ritenesse Davide ubriaco: lo sospettava, invece, ammalato, forse per poco mangiare. E si domandava se, dopo, non potrebbe convincerlo a cenare tutti assieme a casa, a Via Bodoni… Frattanto, nel tentativo di respingere la paura, si distraeva con Bella. Senza chiasso, giocavano a zampe e mani, oppure lei gli faceva il solletico leccandogli le orecchie e la gola, fino a provocargli delle risatine, sùbito attutite per riguardo al luogo.
«…Viè! Viè!! Vàvide! Annàmo via!»
Useppe era pallido in faccia, e tremava, spaurito, ma aveva, pure, una buffa aria indomita, quasi intendesse, lui, proteggere Davide da una qualche numerosa aggressione. «Ha ragione il maschietto», disse ancora, esortando Davide, il vecchio dalla medagliuccia, «va’ a casa, che ti sentirai meglio». Davide si alzò: non piangeva e non rideva, aveva, invece, nei tratti, una fissità opaca e gli occhi vitrei. Non prese la via dell’uscita, ma si avviò, traballando, alla latrina. Useppe lo seguiva con gli occhi, timoroso di vederlo cadere; e non si accorse che frattanto, sulla porta, si era affacciata per un momento Annita Marrocco. Nemmeno lei non vide Useppe, nascosto, nella sua piccolezza, fra le stature degli adulti. Salutò appena da lontano la padrona col suo sorriso malinconico, la nera testolina piegata languidamente su una spalla come se i capelli le facessero peso; e visto il locale troppo affollato, si ritirò.
«Quella», commentò Clemente ridacchiando, «ancora aspetta il ritorno dello sposo dalla Russia…» E seguitò a ridacchiare, come avesse raccontato una storiella di spiriti, di quelle che poi la notte non fanno dormire gli ospiti del castello. Ma invero il solo a udirlo era stato l’ex strillone di giornali, il quale borbottò, in risposta, qualcosa d’incomprensibile.
Quando ritornò dalla latrina, Davide non pareva più lo stesso; o meglio, era passato a una nuova fase della sua esaltazione. Useppe fu il solo a notargli una macchiolina di sangue sulla maglietta; e suppose, nella sua ignoranza, semplicemente che quella piaga del braccio avesse ripreso a sanguinargli. Io, da parte mia, non so quale altro medicinale si fosse messo in corpo durante la sua breve assenza; so che da ultimo ricorreva non più soltanto a quelli già preferiti nei trascorsi mesi, ma tentava ogni sorta di sostanze, spesso di azione opposta, mescolando o alternando eccitanti e narcotici in una rincorsa senza fiato. Specie durante l’ultima settimana, questo era diventato, si può dire, il suo principale nutrimento: forse anche perché i primi caldi della stagione gli riagitavano nel sangue i suoi istinti nativi di vita e di salute, ossia quelle tali energie che in lui si convertivano tuttora, inesorabilmente, in forme dolorose. Niente ormai lo impauriva quanto il ritorno di certi suoi stati di assoluta presenza o di miseria totale, che gli si accompagnavano ora col sogno, ora con la veglia troppo lucida. E per non venirne sorpreso alla sprovvista, non trascurava di portarsi appresso, uscendo di casa, una qualche scorta dei suoi rimedii… Al tempo di allora, simili casi passavano inosservati, specie nei quartieri poveri.
Riattraversò il locale rumoreggiante camminando sbandato, ma ilare, come certi animali balzani sforzati con la frusta nei circhi. Il suo pallore innaturale lo tradiva. Ma peggio del pallore era la stranezza dei suoi occhi nei quali era riaffiorata improvvisamente quella specie di depravazione che già lo deturpava, dopo la cattura e la fuga dai Tedeschi, al suo arrivo a Pietralata; e che da tempo pareva scancellata da lui. Pure nel suo breve percorso dalla radio alla tavolata, trovò modo di esibirsi in un campionario d’avanspettacolo: sebbene, in questa sua libertà sorprendente, non lo lasciasse quella particolare goffaggine di ragazzo timido e forastico, che era attaccata inguaribilmente alla sua natura. Inoltre, chiunque poteva accorgersi che sotto all’eccitazione artificiosa il suo fisico era esausto da chi sa quali eccessi e dalla denutrizione. Però Useppe non era scontento di vedere l’amico risuscitato e gaio.
Cominciò, nello spazio intorno alla radio, a tentare una parodia di danza, per quanto l’apparecchio attualmente non trasmettesse programmi musicali, ma una conversazione assai seria, di sapore ufficioso o forse ecclesiastico. Poi sbottò a cantare l’inno anarchico:
Rivoluzione si farà
bandiera nera sventolerà…
interrompendolo con una pernacchia: un verso, questo, così innaturale sulle sue labbra, che il piccolo Useppe (il quale rideva, solo fra tutti, per simpatia puerile verso lo spettacolo dell’amico) ne provò un istinto di pena. Pervenuto alla tavola, si dette a battere sulle spalle i varii commensali, chiamandoli tutti compagno; al che l’uomo in divisa di commesso, che era anticomunista dichiarato, gli si risentì ruvidamente. I giocatori, ormai, smesse le carte, si preparavano a lasciare il locale; il vecchio dalla medagliuccia se n’era già andato via, e il venditore ambulante si rimetteva a tracolla la sua cassettina. Ma Davide s’era intestato di prepotenza a trattenerli; e con gesti da milionario acquistò tutte le merci dell’ambulante, lanciando a tutti ciambelle, mostaccioli e cartocci di noccioline, e insistentemente offrendo da bere a tutti. Lui stesso si empì il bicchiere, quindi presentandosi davanti a Clemente gli fece il saluto militare, con l’invito, fra altre bestemmie: «Brindiamo al dio porco», e bevve difatti, per suo conto, una sorsata, ma sùbito nauseato la risputò. Si spostava in giro con urtoni e passi storpiati, come un marinaio su una tolda in pieno rullio: divertendosi a propalare (seppure qualcuno stava a sentirlo) certi fatti suoi privati, ora a voce alta ora in confidenza, però sempre in tono da pettegolezzo dozzinale. Faceva sapere, a esempio, di essere un cliente assiduo dei bordelli (e difatti, in queste prime settimane di giugno piuttosto che tornare a battere lungo quei tristi ponti - ci era ricascato dentro un paio di volte: riportandone a casa un furore d’indecenza e di rimorso, giacché considerava i bordelli un’abiezione sociale, poco meno dei lager)… Oppure esumava sbeffeggiando la sua famosa esperienza volontaria di operaio, terminante alla fine di ogni giornata con attacchi di vomito… E insisteva a rivelare a tutti, come un segreto molto importante, che l’assassino principale era lui, lo sfruttatore era lui, il fascista era lui… Parlava di cadaveri e di concorsi di bellezza, di Norimberga e del Papa, e di Betty Grable e di Portella della Ginestra, e di guerra fredda e calda, e di banchetti e di bombe, eccetera; mescolando, nelle sue chiacchiere, allusioni tragiche e comiche e indecenti, ma sempre con delle risa sguaiate, come se tutto ciò che diceva fosse comico. E in questi suoi svariati numeri lo accompagnavano di quando in quando le risatine fresche e irrequiete di Useppe: il quale non capiva niente di quanto lui diceva; ma si sentiva incoraggiato alla baldoria dalle sue buffonate. Non parliamo poi di Bella, che finalmente si sfogava a zompare, dimenarsi e sventolare la coda, come di Carnevale. Al culmine della festa, Davide aveva intonato una canzonetta volgare del tempo di sua nonna:
Seneghin senegaia
mi s’è rotta la pataia…
invitando i presenti a una specie di coro. Ma i presenti, invero, non gli davano retta, divertendosi di lui e delle sue bravate poco e distrattamente, anzi mezzi stufi, come a un normale spettacolo di ubriachi. Il locale del resto si andava svuotando. Pure Clemente se n’era andato, solo solo, trascinando il suo corpo mutilato, che rabbrividiva al venticello tiepido nel suo cappotto fuori stagione. Davide uscì senza salutare nessuno. Useppe e Bella gli si affrettarono dietro.
* * *
Erano le giornate più lunghe dell’anno. Il sole ancora non tramontava, benché fosse già l’ora del Giornale Radio. Lungo la via, dalle finestre, arrivavano a spezzoni le ultime notizie:
…una circolare di polizia, a nome del ministro degli Interni, ordina a tutti i questori di vietare comizi e assembramenti nelle fabbriche…
…l’armata rossa avanza verso il Sin Kiang…
…il governo greco decide una vasta operazione di rastrellamento…
…in USA la Camera dei Rappresentanti…
…il ministro Pella annuncia che il Governo… i tributi straordinari… le imposte indirette…
«Facciamo una corsa a chi arriva prima a passare il ponte?» propose Davide, arrivati all’inizio di Ponte Sublicio.
La sfida fu accettata. Vinse Bella. Davide, per quanto sfiatato, con le sue gambe lunghe arrivò secondo; e Useppe, sebbene bravo a correre, per causa della sua piccolezza rimase indietro. Al traguardo, tuttavia, l’uno e l’altro furono ugualmente festeggiati da Bella. Useppe, inebriato del gioco, benché perdente arrivò ridendo come un matto; e Davide, nell’appoggiarsi ansimante contro il parapetto, anche lui rideva, in una spensieratezza totale. È un fatto che, dopo essersi slanciato per ischerzo attraverso il ponte, lui d’un tratto, senza volerlo, s’era impegnato sul serio alla corsa (specie in competizione con Bella) come un pischelletto che, a una gara, si dimentichi dei compiti di scuola e di ogni altra faccenda terrestre. E un soffio di quella ventata illogica gli dilatò ancora i polmoni per la durata, forse, di dieci secondi. A lungo seguitò a ridere, ma già una incredulità lacerante si mescolava, con certe scosse nervose, al suo riso smemorato.
«Giochiamo a morra cinese?» propose a Useppe.
«Tìììììì!»
Useppe, invero, non conosceva il gioco, e Davide s’indugiò a spiegarglielo. Però Useppe, all’atto pratico, non faceva che imbrogliarsi con le sue manucce allegre, confondendo la figura della carta con quella del sasso, o sporgendo tre diti invece di due per fare le forbici… Questa sua somaraggine lo faceva ridere a cascatella, mostrando i suoi 20 dentini simili a chicchi di riso… Anche Davide rideva, e il suo viso, nel guardare Useppe, si riapriva a quel sollievo luminoso e pieno d’amicizia con cui già prima aveva salutato il suo ingresso all’osteria. D’un tratto gli acchiappò una mano e rimirandola vi posò un bacetto, con la semplicità e il candore puerile di chi baciasse una immagine beata. E Useppe senz’altro lo baciò lui pure, ma il suo bacetto, a un movimento di Davide, capitò a costui sul naso. Il futile incidente bastò a scatenare l’ilarità di tutti, compresa Bella. Il primo a tornare serio fu Davide: «Tu» disse a Useppe con una serietà quasi amara, «sei così carino che il solo fatto che il solo fatto che esisti, in certi momenti mi rende felice. Tu mi faresti credere a… a tutto! a TUTTO! Sei troppo carino per questo mondo».
Però Useppe, da parte sua, piuttosto che apprezzare il complimento di Davide aveva notato il mutamento del suo umore, che da ridente, all’improvviso, era tornato scuro. «E mò, che gioco famo?» lo sollecitò.
«Adesso basta».
«No… Ancora!» protestò Useppe, in un tono fra supplice e brontolante. Davide intanto si staccava dal parapetto: «Qua», dichiarò, «ci separiamo. Io vado da una parte e voi dall’altra».
Useppe si dondolava: «Pecché», propose con audacia, «non vieni a cenare a casa nostra, assieme a noi? Mamma per cena ha fatto le polpette… e… e il vino pure ci sta!»
«No no, un’altra volta. Non ho fame stasera».
«E mò, dove vai? a dormire?»
«A dormire, sì». Davide s’avviò, col suo passo dinoccolato e ormai stracco.
Sugli occhi gli s’era stesa una opacità inespressiva.
«Noi t’accompagniamo fino all’uscio di casa tua», decise Useppe. La pastora, benché perplessa, non si oppose. E Davide, più che altro per un senso d’ignavia, li lasciò fare. Per i due vagabondi, invero, scoccava ormai l’orario di cena e anzi, fra di loro, dietro ai passi di Davide, si svolgeva attualmente una sorta di dibattito, che a lui pervenne soltanto in forma di uggiolio canino. Di fatto Bella, anche per un rispetto agli orari, insisteva ancora nell’invitarlo a cena; e, fra gli altri argomenti, voleva fargli sapere che a casa loro, in più del piatto di carne già promesso, del contorno eccetera c’era anche la zuppa. Essa si riferiva, di fatto, alla propria zuppa serale (composta di spaghetti avanzati, croste di formaggio, acqua, pomodori a pezzi e altri ingredienti). Ma alla fine Useppe, con segnali eloquenti anche se muti, la scoraggiò dall’insistere. Che specie di vantaggio poteva rappresentare, a un grande invitato come Davide, l’attrazione di una zuppa per cani?
Su Davide era piombata una tale spossatezza, che il suo alloggio, distante forse ancora un cinquecento metri, gli appariva una meta remota, e quasi sospirata.
Ma, insieme, lo mordeva dentro una specie di nostalgia: come a un ragazzino (lo stesso che già s’impegnava pocanzi nella gara sul ponte?) costretto a rincasare quando la giornata di luce, fuori, ancora non finiva. Ma chi lo costringeva a questo? a simili domande lui non trovava nessun’altra risposta che una negazione minacciosa, irrimediabile.
Anche dalla nota osteria di qua dalle baracche fuoriusciva, al solito, la voce della radio. Adesso trasmettevano dei nomi di città, e dei numeri: suppongo che fossero le estrazioni del lotto. Degli abitanti delle baracche, i più non erano ancora rincasati, c’era solo un gruppetto di donne con tre o quattro bambinelli piccoli; e da qualche punto accorsero a salutare Bella, appaiati, due cani. Uno, già incontrato in precedenza, era quello dall’aspetto di scimmietta, l’altro, uno nuovo, pareva un composto di animali diversi, risultante, nell’insieme, abbastanza simpatico. (Non senza sollievo di Useppe, il famoso Lupo, anche stavolta, era assente: certo andato a spasso col suo padrone). Bella restituì il saluto dei due, benché in fretta e furia, sviandosi là d’intorno nello studio degli odori serali; ma presto, con piglio sollecito, ritornò vicino a Useppe, col guinzaglio che le si strascinava appresso nella polvere.
L’irrequietudine interna di Davide, battendosi col suo corpo esaurito, lo teneva in quello stato snervante che sopravviene in certe intossicazioni o a volte nei digiuni: una specie di bassa terra di nessuno, fra le periferie della ragione e quelle del sogno, dove ci si arrabatta in un’angustia miserabile. In vista delle prime baracche, gli venne fatto di chiudere gli occhi, con la voglia di non vedere altro che nero; poi, riaprendoli, non riconosceva, lì per lì, il paesaggio usuale, e si domandava: «dove son capitato?» Lo assillavano certi motivi insulsi di canzonette, alternati a una poesia sentimentale scritta da lui stesso al tempo del ginnasio, la quale cominciava col verso: «T’ho amato, felicità!» E a questi assilli si frammischiavano titoli di film o altre frasi avventizie, attualmente vacue, per lui, come palloncini scoppiati: la linea Maginot, Gilda, al crollo dei prezzi, simun il vento dei deserti, squadrista antemarcia… Nell’ultimo tratto verso il terraneo, meccanicamente affrettò l’andatura, sebbene l’idea di rinchiudersi nella propria stanzuccia presentemente gli ripugnasse. Useppe, con gli occhi in su verso di lui, gli si affrettava dietro.
«Pecché vai così presto a dormire?»
«Perché sono malato», spiegò Davide ridendo. E affaticato, nell’atto di cercarsi in tasca la chiave, si sedette in terra, con la schiena contro l’uscio chiuso.
«Sei malato…» disse Useppe, pensieroso ma senza chiedergli nessuna spiegazione. Fu sul punto, piuttosto, di dirgli (quasi per vantarglisi collega) che lui pure era malato; ma se ne rattenne in tempo. Gli balenò, infatti, la paura che, pure Davide, se avesse saputo del suo brutto male, pure lui come l’altra gente l’avrebbe scansato, forse. Si decise, invece, a domandargli:
«Che hai fatto, al braccio?»
«Mi ci ha punto una zanzara».
Con difficoltà, Davide aveva ripescato la chiave nella tasca dei pantaloni; ma una estrema pesantezza dei muscoli lo teneva, tuttavia, là buttato in terra a indugiare davanti alla propria porta, come un mendicante. E senza ancora decidersi a levarsi in piedi, prese a picchiare col pugno contro l’uscio chiuso. Poi, fingendo un timbro di basso cavernoso, come se qualcuno parlasse dall’interno, fece: - Chi è? - per sùbito, riprendendo la sua voce normale, annunciarsi, in risposta: - Sono io! - Io, chi? - Davide Segre. E tu, chi sei?
Io!! Segre Davide! - E che ci fai, là dentro? - Dormo…
A questo nuovo gioco, Useppe rise, pure accompagnando con qualche palpitazione l’aprirsi dell’uscio. Nella deserta stanzuccia, anche i vetri della piccola finestra erano chiusi: così che vi stagnava un tanfo di sonno, come se davvero qualcuno vi giacesse addormentato da più ore. Per il resto, la sporcizia e il disordine vi apparivano ancora più tumultuosi dell’altra volta: come dopo un’invasione. Davide si buttò a sedere sul lettuccio disfatto: «Adesso», annunciò a Useppe, «è ora di darci la buona notte».
«Ancora è giorno…» osservò Useppe esitando sulla soglia della stanzuccia. Aveva raccolto da terra il guinzaglio di Bella, mentre costei s’era seduta fuori, presso l’uscio aperto, aspettando pazientemente. Solo, ogni tanto essa dava una piccola strappata al guinzaglio, per sollecitare: È tardi. Dobbiamo andarcene, e Useppe, scontento, in risposta tirava il guinzaglio dalla parte propria. Non poteva decidersi a lasciare Davide qua solo, malato e senza cena; però non sapeva che dirgli, e si dondolava.
Davide frattanto s’era disteso lungo sul letto, tutto vestito, e senza nemmeno togliersi le scarpe. Sentiva negli orecchi dei rombi e dei ronzii, che tuttavia non gli davano noia, anzi parevano cullarlo come un racconto favoloso. Ma tuttavia gli perdurava, dentro il cervello, un punto di veglia fissa, quasi agghiacciante, che gli faceva presagire una notte difficile. Da qualche tempo, infatti, nel suo corpo si svolgeva una chimica imprevedibile, per cui non sempre i farmaci agivano, con lui, secondo la loro propria natura; ma piuttosto a capriccio, in una sorta di scommessa coi suoi nervi: tanto che perfino i sonniferi, a volte, lo eccitavano peggio, invece di placarlo. E una simile ambigua scommessa lo impauriva stasera, come un arbitrio. Sul momento, aveva perfino dimenticato la presenza del bambino e del cane; ma un sentore di freschezza selvatica e carezzevole, quasi scherzante, da quel punto della stanzuccia gli ricordava che i due stavano ancora là.
«Che fate, qua? è tardi!» esclamò verso di loro, alzando un poco la testa, senza girare gli occhi. «Mò ce n’annàmo, mò», brontolò Useppe, «mica è notte, ancora».
«Nei paesi delle notti bianche», prese a dire Davide, con una voce musicale e disorientata, «in certe stagioni fa sempre giorno. E altrove fa sempre notte. A scelta. Troppe forme troppi colori. E tanti meridiani e paralleli! Su un parallelo ci sono case fatte di neve, e torri e palazzi di ghiaccio grandi grandi che camminano sulle correnti, e si sciolgono. Su un altro, cementi e vetri, marmi cattedrali moschee pagode… E quante foreste! Pluviali, nebulose, no, nebulari… e semisommerse, con le radici aeree… La geografia mi piaceva, a scuola, in vista di itinerari per il futuro. E adesso, che il futuro è venuto, ogni tanto mi dico: perché no? Ma poi, se immagino ME che ci vado camminando, qualsiasi strada o paese della terra mi pare un cesso, né meglio né peggio di questa camera. Nient’altro dovunque che una brutta stanza schifosa, dove è sempre giorno e sempre notte, non appena mi ci vedo passare io…»
Dalla parte di Useppe venne un mormorio indistinto. La sua risposta vera (se lui avesse saputo formularla) sarebbe stata che a lui capitava l’effetto opposto: cioè qualunque sito, fino all’infima stamberga, gli diventava una magnificenza, se ci si trovava Davide o insomma un amico suo. «Questa stanza, non è brutta…» borbottò, quasi offeso.
«Già, è incantata!» rise Davide, «in certi casi, ci hanno luogo delle visioni…
No, delle visioni proprio no! sarebbe troppo onore! solo delle trasformazioni, esagerazioni… Per esempio, tu», si torse un poco a guardare Useppe, «adesso ti vedo come in un telescopio: grande grande grande che non potrai più passare dalla porta. E adesso invece ti vedo che ti sei fatto piccolo piccolo piccolo, come in un cannocchiale rivoltato. E con tanti occhietti azzurri, che si affacciano da tutte le parti della stanza».
«E mò, come mi vedi?» domandò Useppe, facendosi avanti incerto.
Davide rise: «Piccolo ti vedo. Piccolo piccolo…»
A Useppe rivennero in mente i responsi dei dottori:
«Io», confessò, «crescio poco».
«Beh, adesso ci salutiamo. Buona notte», stabilì ridendo Davide. Però soggiunse:
«Vuoi che ti racconti una storia?»
Gli era tornato, lì per lì, un ricordo infantile di sua sorella, la quale spesso, come succede ai bambini, la sera non voleva decidersi a dormire. Di sotto la fessura dell’uscio, essa vedeva la luce ancora accesa nella contigua cameretta del fratello (il quale a letto leggeva fino a tardi) e allora girava pian piano la maniglia, e gli si presentava, in camicia da notte, sulla porta, chiedendogli di raccontarle una storia, o una favola, prima di prendere sonno. Si sapeva, difatti, in famiglia, che Davide era fantastico, anzi era quasi deciso a diventare, da grande, uno scrittore; e la sorella, ancora piccola che non sapeva leggere, s’approfittava delle sue fantasie. Normalmente, il fratello si arrabbiava di quelle intrusioni serali; ma alle insistenze della sorella, per levarsela di torno finiva a buttarle lì a caso un inizio qualsiasi, in via di canzonatura: «C’era una volta un cavolo…» «C’era una volta una pentola rotta…» «C’era una volta un tamburo…» però di qui immediatamente e irresistibilmente gli veniva da improvvisare il séguito. Così che in conclusione, quasi senza volerlo e per una specie di fatalità, finiva a contentare la sorella con una storia nata per caso, ma in sé completa, e che a lei bastava. Una sera a esempio, deciso al rifiuto, per liquidare la faccenda aveva gridato alla richiedente, in tono addirittura d’improperio: «C’era una volta una merda di gallina!!» Ma sùbito gli venne fatto di aggiungere che questa gallina faceva le uova d’oro. E ne seguì naturalmente che le sue uova erano infrangibili, essendo d’oro; finché un gallo pieno di valore con una beccata le spaccò. Ne uscirono allora dei pulcini d’oro, i quali si scoprirono per tanti principini travestiti, tutti figli del gallo e della gallina e proprietari della formula magica per distruggere il maleficio. Difatti la gallina e il gallo erano in realtà i sovrani dell’India, vittime di un incantesimo del loro nemico, il re di non so dove… Niente di eccezionale, come si vede, nelle storie del piccolo Davide; però, storie lo erano, con un principio, un intreccio e una fine, secondo la regola ordinaria.
Allo stesso modo, quella sera, nel promettere a Useppe una storia, Davide non aveva nella testa nessuna idea, soltanto una confusione vuota. Per cominciare, emise a caso le prime parole che gli vennero alle labbra: «C’era una volta un Esse Esse»… e da questo inizio, quasi automaticamente, gli scaturì una storiella. Non certo una grande creazione, neanche in questo caso; però senz’altro una storiella vera e propria, anzi una sorta di favoletta o di parabola, con una sua logica interna e un significato conclusivo.
«…C’era un Esse Esse che, per i suoi delitti orrendi, un giorno, sul far dell’alba, veniva portato al patibolo. Gli restavano ancora una cinquantina di passi fino al punto dell’esecuzione, che aveva luogo nello stesso cortile del carcere. E in questa traversata, l’occhio per caso gli si posò sul muro sbrecciato del cortile, dove era spuntato uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove càpita e si nutrono, sembrerebbe, d’aria e di calcinaccio. Era un fiorelluccio misero, composto di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline; ma, in quella prima luce nascente, l’Esse Esse ci vide, con suo stupore, tutta la bellezza e la felicità dell’universo. E pensò: Se potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l’intera mia vita nell’adorazione di quel fiorelluccio. Allora, come sdoppiandosi, sentì dentro di sé la sua propria voce, ma gioiosa, limpida eppure lontana, venuta da chi sa dove, che gli gridava: In verità ti dico: per questo ultimo pensiero che hai fatto sul punto della morte, tu sarai salvo dall’inferno! Tutto ciò, a raccontartelo, mi ha preso un certo intervallo di tempo; ma là, ebbe la durata di mezzo secondo. Fra l’Esse Esse che passava in mezzo alle guardie, e il fiore che s’affacciava al muro, c’era tuttora, più o meno, la stessa distanza iniziale: appena un passo. ‘No!’ gridò fra sé l’Esse Esse, voltandosi indietro con furia, ‘non ci ricasco, no, in certi trucchi!’ E siccome aveva le due mani impedite, stroncò quel fiorelin coi denti. Poi lo buttò in terra, lo pestò sotto i piedi. E ci sputò sopra. Ecco, il racconto è finito».
«Ma l’inferno, mica ci sta!» commentò, alla fine del racconto, risolutamente, Useppe. Mica ci sta, nel suo linguaggio misto di romano, vale non esiste. Davide mosse le pupille, quasi divertito, sulla sua minuscola persona, che emanava, in quel momento, un’aria buffa di spavalderia.
«Non esiste, l’inferno?» gli fece di rimando.
Useppe ribadì la propria opinione dichiarata, non a voce, stavolta, ma facendo no all’uso siciliano, cioè levando il mento in su e sporgendo i labbri in fuori: una mossa ereditata da suo fratello Ninnuzzu, il quale a sua volta l’aveva ereditata dal proprio padre, Alfio il messinese.
«E perché non esisterebbe?»
«Pecché…» fece Useppe senza sapere che cosa rispondere. Da parte di Bella gli venne un piccolo abbaio incoraggiante. E finalmente la sua risposta fu:
«Perché la gente vola via…»
Simile spiegazione, invero, gli venne alquanto dubitativa, e appena bisbigliata. Ma il perché, in compenso, stavolta gli riuscì benissimo: con una erre magistrale. «E pure li cavalli», si affrettò ad aggiungere, «se ne volano… e li cani… e le gatte… e le cicale… insomma, la gente!»
«Ma tu lo sai che vuol dire Esse Esse?»
Questo Useppe lo sapeva da un pezzo: almeno fin dall’epoca dei Mille. Anzi, nella sua pronta risposta, usò i termini già imparati forse da Carulina medesima, o forse da qualche altro membro di quella numerosa tribù:
«Puliziotto germanese!»
«Bravo!» gli disse, ridendo, Davide, «e adesso, buona notte. Va’, andate, io voglio dormire…» Difatti, gli occhi gli si chiudevano da soli, e la sua voce suonava già impastata, e bassa.
«Bona notte…» rispose Useppe, docilmente. Ma una esitazione, tuttavia, lo tratteneva:
«Quando ci vediamo?» proferì.
«Presto…»
«Ma quando?!»
«Presto, presto…»
«Domani?»
«Domani sì sì».
«Domani ci veniamo qui noi da te. come quell’altra volta? Dopopranzo, come quell’altra volta!»
«Sì…»
«Questo è appuntamento eh! Teniamo appuntamento!»
«…ssì..»
«Io ti porto il vino!» annunciò Useppe, voltandosi per partire. Ma a questo punto, lasciato per un attimo il guinzaglio di Bella, tornò indietro di corsa.
E, come per un rituale fraterno ormai permesso, anzi consacrato, lasciò a Davide un bacetto di saluto, che gli capitò, stavolta, vicino a un’orecchia. Nel suo dormiveglia incerto, Davide rimase col dubbio che quel bacetto non fosse reale, piuttosto il frammento di un sogno. E nemmeno avvertì il piccolo colpo dell’uscio, che si richiudeva, con molto riguardo, dietro ai due visitatori. Ormai, scendeva il crepuscolo, e la coppia ritardataria marciava in gran fretta verso casa, già tuttavia concertando, lungo la strada, un piano completo per la giornata di domani. L’appuntamento con Davide, infatti, non poteva tuttavia far dimenticare a Useppe l’altro amico suo: Scimò. Per cui venne stabilito, d’accordo fra lui e Bella, di recarsi sul fiume, a trovare Scimò, la mattina (alzandosi domani più presto del solito), e dedicare, invece, il dopopranzo a Davide. Nella testolina di Useppe, attualmente, si muoveva un’aria così festosa, da escludere ogni sospetto di disinganno; mentre che proprio in quello stesso minuto lui costeggiava con Bella la piazza di Porta Portese dominata, sul fondo, dall’edificio del Riformatorio. Nessuno dei due sapeva che Scimò si trovava adesso rinchiuso proprio là, dietro a quei muri; ma Bella, chi sa perché, in vista della piazza abbassò gli orecchi, e tirò via quasi di soppiatto verso il ponte.