8.

 

 

 

Il tempo era variabile; e vi furono anche parecchie mattinate di sole; ma Nino ancora non manteneva la promessa fatta a Useppe. È difficile dire se Useppe se ne ricordasse o no. È vero che spesso ancora si metteva sulla soglia a guardare verso la strada assolata, come se aspettasse; però forse nella sua mente, attraverso la distanza (erano passati circa quindici giorni) la promessa di Nino si andava confondendo con le mattine e col sole, in un miraggio impreciso. Frattanto, prima che il miraggio finalmente s’incarnasse, il destino incominciò, con un séguito precipitoso, a ridurre le presenze nello stanzone.

Circa al 25 ottobre, di pomeriggio presto, un frate bussò all’uscio. In quel momento, erano presenti solo Ulì, i ragazzini, la sora Mercedes e le nonne. I nonni erano andati a sedersi all’osteria, Ida stava dietro la sua tenda, e le cognate erano salite sulla piccola terrazza del fabbricato, per raccogliere in gran fretta certi panni che vi avevano steso. Difatti, incominciava a piovere.

Il frate s’era riparata la testa col cappuccio, e aveva quell’aria indaffarata e circospetta che distingue i religiosi. Salutò con la frase abituale Pace e bene e domandò di Vivaldi Carlo. Saputo che costui si trovava in giro, si sedette su una cassa per aspettarlo, nel cerchio dei ragazzini che lo osservavano imbambolati, come se assistessero a un film. Ma dopo qualche minuto di attesa si rialzò, dovendo scappare per altre sue faccende. E chiamata in disparte, con un cenno del mignolo, Carulina (che dovette sembrargli, fra i circostanti, la segretaria di maggior fiducia), le disse piano: di avvisare subito subito e in via riservata il signor Vivaldi Carlo che si recasse al più presto dove lui sapeva, per notizie urgenti. Poi ridisse Pace e bene e se ne andò.

Le cognate, sopravvenute a quel punto, fecero in tempo a scorgerlo mentre usciva; però Carulina, sostenendo valorosamente i loro interrogatorii, non volle riferire l’ambasciata. Questo silenzio le costò uno sforzo così grosso da farle gonfiare addirittura le vene del collo; ma una tale prova, per sua fortuna, non le fu imposta a lungo. A non più di un quarto d’ora dalla partenza del frate, Carlo Vivaldi, avvertito forse da un presagio, riapprodò fuori orario nello stanzone. Pronta Carulì gli si fece incontro strillando a gran voce: «È stato qua un cappuccino a chiedere di voi…» e lui visibilmente trasalì. Con la faccia e i capelli bagnati di pioggia, in quel punto somigliava a un passero sbattuto dal maltempo. Senza nessuna parola voltò le spalle, e a precipizio riprese la via di strada.

Seguirono, in sua assenza, varie congetture fra le nonne e le cognate di Carulina. In quell’epoca, ogni romanzo popolare diventava verisimile. Succedeva davvero, per esempio, che alti ufficiali o noti militanti politici si camuffassero in diversi modi per ingannare la caccia dei nemici occupanti. E le donne congetturarono, fra l’altro, che il frate fosse un finto frate, magari un anarchico travestito, o addirittura un qualche generalissimo delle alte sfere. Invece, si trattava in realtà proprio di un povero semplice frate, emissario di un convento romano dove un cugino minore di Carlo attualmente stava nascosto. A Carlo, per la sua orgogliosa idea, ripugnava di rifugiarsi dentro a un convento. Preferiva restare senza fissa dimora, e così la corrispondenza e le notizie dal Nord gli venivano recapitate attraverso il cuginetto. Ora, la notizia odierna che lo aspettava era delle più atroci. Ma la verità su di lui venne risaputa soltanto in séguito.

Frattanto, l’ora del coprifuoco passò, senza che lui si facesse rivedere. E gli abitanti dello stanzone arguirono che, dopo la visita del frate misterioso, si fosse eclissato per sempre. Ai loro occhi, Carlo Vivaldi rappresentava tuttora un personaggio ambiguo e strano di avventuriero: magari legato a qualche potenza estera? o al Vaticano? La madre di Currado e Impero mise avanti addirittura l’ipotesi che fosse un nobile in incognito, del seguito di Sua Maestà il Re Imperatore, e che a quest’ora eventualmente già fosse volato a Brindisi o a Bari, su un aereo speciale concesso dal Papa…

Invece, Carlo Vivaldi era lì a non molta distanza, forse nel quartiere stesso, o forse in qualche altro imprecisato quartiere della città, che girovagava solo per le vie piovigginose, immerse nel buio dell’oscuramento e infestate dalle pattuglie di guardia. Da quando, nel pomeriggio, il cuginetto gli aveva trasmesso la notizia urgente riservata, fino a notte alta, non fece altro che correre le strade senza scegliere la direzione, né sapere che ora fosse, né curarsi del coprifuoco. Non si sa come sia sfuggito ai pericoli di quella passeggiata inconcludente: difeso, forse, dallo sbarramento invalicabile di oltranza e di delirio che a volte circonda i disperati. Si può credere che più volte le pattuglie armate in perlustrazione l’abbiano incrociato, quella notte, però tutte svicolando e ricacciandosi in gola il chi va là, per paura di affrontare la sua ombra.

Lui stesso non avrebbe mai potuto dire dove lo portò quello smisurato cammino di chilometri e di tempo non contato (forse nove o dieci ore). È possibile che abbia percorso da un punto all’altro la città intera, o che abbia seguitato a girare in una superficie ristretta, sempre la medesima, avanti e indietro. A una cert’ora della notte tornò a rintanarsi nell’unico alloggio suo disponibile, a Pietralata dietro la tenda di stracci. Tutti dormivano, la sola a udirlo rientrare fu Ida, che in quelle notti, anche coi calmanti, stentava a prender sonno, e si riscuoteva al minimo fruscio. Prima essa udì il passo di lui nel viottolo; poi, il miagolio prolungato di Rossella che gli dava il benvenuto all’ingresso. E dopo, durante il resto della notte, le sembrò di udirlo tossire di continuo fra un ripetersi di colpi sordi, come battesse i pugni nel muro. Difatti, alla mattina, le giunture delle sue dita erano tutte scorticate e sanguinolente; ma nessuno, nello stanzone, fece in tempo a osservargliele. Accadde che verso le otto capitò, in una delle sue periodiche scappate, Giuseppe Secondo. Entrò col suo solito piglio ridarello, portando, anche oggi, ottime notizie: Assodicuori stava benissimo, e così Quattropunte, e così tutti i compagni della gloriosa banda… Per merito loro, qualche altro quintale di infame carnaccia tedesca era andata a concimare il terreno dei Castelli

Romani… Una settimana prima, da parte tedesca c’era stato un rastrellamento di partigiani, con perdite; ma loro, della Libera (soprannome della banda), erano troppo bravi, per farsi prendere da quei vigliacchi… E in quanto alle previsioni future, senza dubbio la conclusione della guerra era imminente. Non si poteva più contare, certo, sull’entrata degli Alleati a Roma il 28 ottobre…

«Certo, sarebbe stato un gesto spiritoso, così je l’avrebbero fatta a questi qua, la meio festa!…» Però, prima di Natale, era cosa sicura, concluse Giuseppe Secondo.

Dopo simili confidenze brillanti, il gaio ometto armeggiò ancora per un paio di minuti nel mucchio delle sue proprietà; e quindi, salutando largamente a destra e a sinistra, si avviò alla porta. In quel punto la tenda di stracci si smosse con irruenza; e Carlo, d’impeto, quasi dovesse sfondarla, se ne levò in una grande risata. «Vengo anch’io con te!… Con voi!» precisò pronto. Aveva già a tracolla la sua borsa, e cioè tutto il suo bagaglio. Alla luce che entrava di sbieco dalla porta semiaperta, i suoi sguardi, nelle occhiaie nere dell’insonnia, apparivano infossati, più cupi del solito. E a séguito della sua risata, che aveva lasciato nell’aria un’eco quasi sconcia, la oscura forma di corruzione, ritornante a intervalli sulla sua faccia, attualmente addirittura lo trasfigurava, come una maschera storta. Però, da tutto questo, nei muscoli del corpo gli si travasava una specie di allegria scatenata, sportiva. Giuseppe Secondo, rimasto interdetto per un istante, s’illuminò di un sorriso di giubilo, che gli fece le rughe per tutto il viso: «Ah! Era ora!» esclamò, e non aggiunse altro. Nell’uscire con lui, Carlo Vivaldi accennò con la mano un saluto mezzo ironico all’indietro, quasi a dire che pure quello stanzone, con tutti i suoi occupanti, ormai per lui si scioglieva nella schiuma del passato morto. Di Rossella, che lo seguiva coi suoi occhietti dal pagliericcio, non se ne ricordò nemmeno di salutarla.

Le nubi si erano stracciate; ma nel vento fresco che cominciava a levarsi, ancora si avevano brevi scrosci di passaggio, quasi primaverili. Giuseppe Secondo non teneva più il suo famoso cappello in testa, però si riparava con un ombrello; e di ciò i rimasti risero alle sue spalle (invero, un partigiano con l’ombrello era una cosa piuttosto anormale). E così, i due si allontanarono assieme di là dal prato fangoso: il vecchio che camminava svelto, sotto l’ombrello; e il giovane che lo precedeva con la sua andatura dinoccolata e un po’ slegata, simile a quella di certi ragazzi negri.

Alla loro partenza, Rossella era accorsa all’uscio. E adesso, ferma sulle sue quattro zampette presso lo scalino della soglia li guardava allontanarsi, col muso teso verso di loro in una espressione di sorpresa già allarmata, quasi presagisse che in quel momento scoccava un segnale del suo destino. Tuttavia, nelle ore seguenti non poté fare a meno di cercare Carlo; però, in qualche modo, doveva sapere fin da principio che non lo avrebbe mai più rivisto. E tentava di non farsi sorprendere in quella sua ricerca irrisoria, aggirandosi nei pressi della tenda con una camminata obliqua e sfuggente, e guizzando via minacciosa non appena qualcuno le passava vicino. Poi s’andò a riparare sotto la catasta dei banchi, e là rimase per il resto della giornata, appiattita fra due tavole, in un angolo dove nessuno poteva raggiungerla, puntando le sue pupille sospettose verso il movimento dello stanzone.

Sul far della sera, mentre nessuno si ricordava più di lei, d’un tratto levò uno strano inquieto miagolio, e sortì da sotto la catasta vagolando intorno, con quell’inaudito lamento che implorava: aiuto aiuto. Era assalita da uno stimolo di forza terribile, che non aveva mai provato ancora. E allora s’andò a mettere nel suo buco di paglia dietro la tenda, dove, di lì a poco, partorì un gattino. Nessuno se l’aspettava, giacché non s’erano accorti che fosse incinta. E si trattava, infatti, d’un figliolino unico e stento, così minuscolo da parere d’una razza di topi, più che di gatti. Sebbene nuova, e ancora piccola d’età, essa s’indaffarò subito a strappargli d’intorno la membrana con dei morsi impazienti e quasi rabbiosi, come tutte le madri gatte già esperte. E poi si dette a leccarlo in fretta in fretta, come tutte le madri gatte, finché il gattino fece udire il suo primo miagolio, talmente fino che parve una zanzara. Essa allora s’accucciò sopra di lui, forse nella fiducia di allattarlo. Ma probabilmente, a motivo dei suoi troppi digiuni, oltre che dell’età immatura, aveva le mammelle secche. D’un colpo, improvvisamente si staccò da lui, riguardandolo soprapensiero con curiosità. E andò a riaccucciarsi per suo conto a una certa distanza, dove rimase ancora un poco in ozio con gli occhi consapevoli pieni di malinconia senza più rispondere a quel piccolo miagolio solitario. Poi d’improvviso tese gli orecchi, avendo colto le note voci dei fratelli di Carulì che rincasavano; e come udì aprirsi l’uscio d’ingresso, gettato un ultimo sguardo indifferente verso il gattino, fu pronta a saltar fuori dalla tenda nella strada.

Né quella sera, né il giorno dopo, non si fece più rivedere, mentre il gattino agonizzava in mezzo alla paglia, dalla quale si distingueva a malapena per il colore rossiccio del suo pelo, ereditato dalla madre. Ogni volta che, per un breve intervallo, si abbassava il fracasso nello stanzone, si riudiva il suo fioco miagolio, che continuava quasi ininterrotto. Pareva strano che quel filo di voce (unico segno di presenza - si può dire - dato da lui nel mondo) mantenesse una resistenza simile: come se dentro quell’animalino impercettibile, e già segnato fino dal principio, fosse contenuta una volontà di vita enorme. Useppe non sapeva decidersi a lasciare il gattino abbandonato al suo pianto orfano; accovacciato là in terra, senza osare di toccarlo, andava spiando con gli occhi ansiosi ogni suo minimo movimento. E riaffacciandosi cento volte verso la strada, chiamava disperatamente: «Ossella! Ossellaaa!!» Ma Rossella non dava risposta, e forse oramai, vagabonda chi sa dove, s’era già scordata di aver partorito un figlio. D’ora in ora, frattanto, il miagolio dietro la tenda si faceva sempre più timido finché tacque, e di lì a poco una cognata di Carulina, venuta a dare un’occhiata, tirò su il gattino per la coda e maledicendone la madre snaturata andò a buttarlo nel cesso.

Useppe, in quel momento, era intento a far chiasso coi suoi amici nell’angolo dei Mille. E quando, tornato a rivedere il gattino dietro la tenda, non ce lo trovò più, non ne chiese notizia. Restò là dietro silenzioso, a fissare con gli occhi grandi e seri quel piccolo covo di paglia, sporco del sangue di Rossella. E non ne parlò né con Ida, né con nessuno. Un minuto dopo, distratto da qualche futilità, si ributtò a giocare.

Rossella non rincasò per tre giorni; poi, sul pomeriggio del terzo giorno, forse soltanto perché cacciata dalla fame, si ripresentò nello stanzone: «Ah, sporca, brutta, maledetta!» le strillarono le donne, «non ti vergogni a farti rivedere qua, dopo che hai fatto crepare il tuo pupetto solo a quel modo!» Essa entrò di corsa, torva, e senza guardare nessuno. Chi sa quali vicende aveva corso, in quei giorni. Aveva la pelliccetta logora, ingiallita e zozza, come una gatta vecchia; e il corpo così macilento che al posto dei fianchi, adesso che non era più incinta, le restavano due buchi. La sua coda era ridotta a uno spago; e il suo muso era diventato un triangolo acuto, con gli orecchi enormi, gli occhi dilatati e la bocca semiaperta che mostrava i denti. S’era fatta ancora più piccola di prima; e somigliava, nell’espressione del muso, a certi borsaioli abbrutiti, che invecchiati non fanno che guardarsi da tutti gli altri viventi, non avendo conosciuto che l’odio. Dapprincipio andò ad acquattarsi sotto un banco, ma siccome i ragazzini si sforzavano a stanarla di là sotto, schizzò via, e con un balzo del suo corpo scheletrito raggiunse la cima della catasta, dove rimase appollaiata come un gufo. Stava in guardia, con gli orecchi indietro e gli occhioni iniettati di sangue che fissavano in basso minacciosi. E ogni tanto soffiava, convinta di presentarsi, a quel modo, come un essere terrificante, da fare indietreggiare il mondo intero. In quel momento, il suo istinto fu attratto da qualcosa che si muoveva là in basso a mezz’aria, verso l’angolo dei Mille. Fu lei la prima che se ne accorse, e immediatamente fu già troppo tardi per prevenirla. La sua velocità fu tale, che lì per lì si ebbe l’impressione di un raggio rosso che tagliasse l’aria di sbieco; quando già, in luogo dei due canarini in volo, essa aveva lasciato in terra due straccetti sanguinolenti. Quasi con la stessa velocità fantastica, sùbito, spaventata dalle urla e dagli insulti che la investivano d’intorno, essa riscappò nella strada donde era arrivata. In tre o quattro la inseguirono, indignati, per bastonarla; ma non riuscirono a raggiungerla, arrivando appena a distinguere in lontananza la sua codina smunta che spariva a precipizio giù per una discesa. E da allora nessuno la rivide mai più. È possibile che, pure così secca, in quei giorni di fame essa abbia fatto gola a qualche cacciatore di gatti del quartiere. Avendo perso nel deperimento la sveltezza di prima, forse si lasciò fatalmente acchiappare e finì mangiata, come le aveva già predetto, mettendola in guardia, il suo padrone Giuseppe Secondo.

Della strage dei canarini fu accusata, con rimbrotti, anche Carulì. Era stata lei, difatti, a lasciare casualmente aperto il loro cancelletto, distratta dall’inattesa apparizione di Rossella proprio mentre si trovava intenta a ripulire la gabbia. Peppiniello e Peppiniella, forse per la prima volta nella loro esistenza, e memori forse dei loro nonni liberi alle Canarie, si erano lasciati tentare dall’avventura; ma, disadatti al volo per essere nati in cattività, erano riusciti appena a sbattersi goffamente nell’aria, come fossero due nidiaci.

«E che dirà adesso il sor Giuseppe, che t’aveva pure pagato per badare a loro!» strillavano i presenti contro Ulì, la quale, allo spettacolo della coppietta assassinata, singhiozzava inconsolabile. Frattanto Useppe, dinanzi a quei mazzetti di piume spente e sanguinose, s’era fatto pallido e gli tremava il mento: «A’ mà, non volano più?» ripeteva piano, mentre Ida lo scansava via di là, verso il loro angolo, «non volano più, a’ mà? non volano più!»

Le donne, per la ripugnanza di toccare il sangue, non ebbero cuore di raccattarli da terra, e li spinsero fuori in istrada con la scopa. La mattina dopo, di là erano spariti, e non è escluso che anche loro fossero mangiati da qualche vivente: forse cane, forse gatto, ma forse cristiano. In quell’epoca, si facevano ogni giorno più numerosi, nel quartiere, coloro che cercavano il proprio vitto fra l’immondezza: e per chi si tiene contento e fortunato di rimediare delle bucce di patate, o delle mele marce, un paio di canarini cotti può rappresentare una pietanza da arcivescovo.

In ogni modo, Ida disse a Useppe che se n’erano volati via.

Il sole, quella mattina, splendeva così caldo che pareva tornata l’estate; e poco dopo l’uscita quotidiana di Ida, si avverò, finalmente, la promessa di Nino.

Era raggiante, non meno elettrizzato di Useppe. «Me porto mi’ fratello a fare un giretto con me!» dichiarò ai presenti, «prima di pranzo ristà a casa», poi scrisse con la matita un biglietto, e lo lasciò sul capezzale di Ida:

 

In 4 ore vado e torno

Useppe

Garanzia di Nino.

 

e sotto la garanzia disegnò il proprio stemma: un asso di cuori su due lame incrociate.

Si caricò Useppe a cavalluccio sulle spalle, e, correndo e saltando giù per certi terreni senza costruzioni, arrivò a uno spiazzo d’erba sui margini d’una carraia, dove lo aspettava un camioncino con un uomo e una donna di mezza età. Useppe li riconobbe subito: erano l’oste Remo e sua moglie (i quali disponevano di un permesso di circolazione per trasporto di derrate alimentari). Nel camioncino c’erano delle damigiane, delle ceste e dei sacchi, alcuni già pieni, altri da riempire.

Il viaggio durò circa tre quarti d’ora, e procedette senza intoppi. Nessuno li fermò. Era la prima volta nella sua vita che Useppe viaggiava in automobile e vedeva la campagna grande aperta. Fino adesso, di tutto il mondo aveva conosciuto soltanto San Lorenzo, il Tiburtino e dintorni Portonaccio eccetera) e il sobborgo di Pietralata. La sua emozione fu tale, che durante la prima parte del percorso rimase in silenzio; finché, nel tripudio che lo trasportava, incominciò a chiacchierare fra sé o con gli altri, tentando di commentare, in un vocabolario impensato e incomprensibile, la sua scoperta dell’universo.

Se non fosse stato il passaggio, ogni tanto, di automezzi tedeschi, e qualche carcassa di macchina abbandonata sul ciglio della strada, non sembrava che ci fosse la guerra. Gli splendori sontuosi dell’autunno parevano maturati in una quiete leggendaria. Anche dove il terreno era in ombra, il sole traspariva dall’aria in un velo dorato che si stendeva tranquillo per tutto il cielo.

A un piccolo incrocio campestre, Remo e la moglie scaricarono i due passeggeri e proseguirono per conto proprio, con l’intesa di ritrovarsi allo stesso posto più tardi. Nuovamente Nino si riprese Useppe sulle spalle, e a zompi e balzi attraversò con lui valloncelli, scoscendimenti e sentieri fangosi, in mezzo a filari di vigne e a fossatelli che scintillavano al sole. Circa a due terzi della strada, si fermarono a una casetta, dove una ragazza, arrampicata su un ulivo, ne scuoteva i rami, mentre una donna in basso ne raccattava i frutti dentro un mastello. Questa ragazza era un’amante di Nino, però in presenza della donna, che era sua madre, non voleva lasciarlo vedere. La donna, tuttavia, lo sapeva (né loro ignoravano che lo sapeva) e all’arrivo di Nino gli fece un sorriso estasiato, mentre la ragazza scendeva dall’albero, e, guardandolo appena di sfuggita, con una camminata proterva entrava nella casetta. Ne uscì poco dopo, per consegnargli un involto di carta di giornale: «Buon giorno!» le disse allora pomposamente Ninnuzzu, e lei borbottò: buon giorno, in un’aria imbronciata e di traverso. «Questo è mio fratello!!» le annunciò Nino, e lei rispose: «ah, sì?» con arroganza, quasi a intendere, per tutto complimento: se è tuo fratello, non può essere che un altro malandro uguale a te. Nino, che la conosceva, le rise e poi le disse: «Ciao!» «Ciao», rispose a mezza bocca la ragazza, riavviandosi all’albero, con un passo arcato e di malavoglia.

«Che te ne pare?» domandò, riprendendo la strada, Ninnuzzu a Useppe, come parlasse a un proprio confidente. «Si chiama Maria», seguitò, «sua madre è una vedova, e lei un’orfana. Quando finisce la guerra», concluse scherzando cinicamente, «me la sposo». E rivolgendosi verso l’albero, richiamò: «Mariulina! Mariulinaa!»

La ragazza, che stava appollaiata sull’albero come un’aquiletta fantastica, non si voltò nemmeno. Però la si vide che, stornandosi fra se stessa, col mento nascosto nella gola, faceva un piccolo riso di godimento geloso.

Dopo un altro pezzo di strada, Useppe, impaziente di correre con le sue gambe, incominciò a scalciare sul petto di Nino; e Nino lo mise giù. Anche in quest’ultimo tratto, il terreno era piuttosto scosceso, e Nino ammirava la prodezza sportiva di Useppe, divertendosi non meno di lui nel guidarlo sui campi dell’avventura. A un certo punto si fermarono a pisciare, e anche questa fu un’altra occasione di divertimento, perché Nino, come faceva da piccolo coi suoi amici burinelli, mostrò a Useppe la propria bravura nel mandarla in alto, e Useppe lo imitò col proprio piccolo zampillo. La campagna era deserta: Nino di proposito aveva evitato la mulattiera, dove si potevano incontrare dei tedeschi; e non c’erano nemmeno case, solo qualche capanna di paglia. Poco lontano da una capanna nascosta in una insenatura della collina, un muletto brucava l’erba.

«Cavallo!» gridò subito Useppe. «No cavallo», disse dall’interno della capanna una voce nota, «quello è un mulo». «Eppetondo!» gridò allora Useppe con entusiasmo. Nella capanna, bassa e di misura media, il partigiano Mosca stava intento a sbucciare delle patate dentro un catino; e al loro entrare sorrise con la bocca, con gli occhi, con le rughe e anche con gli orecchi. Oltre a lui, seduti in terra, c’erano due giovani che pulivano delle armi arrugginite e fangose con uno straccio imbevuto di petrolio. E intorno a loro per la capanna si vedeva un disordine di coperte militari, mucchi di paglia, pale, picconi, zaini, fiaschi di vino e patate. Di sotto una coperta spuntavano delle canne di fucile; vicino alla porta c’era un mitra appoggiato alla parete; e là presso, in terra, un mucchietto di bombe a mano.

«Questo è mio fratello!». Il più anziano dei due guerriglieri, un bassetto di forse vent’anni, con la faccia tonda e ispida di barba e addosso pochi stracci sporchi (perfino ai piedi, invece di scarpe, aveva dei cenci arrotolati), levò a malapena gli occhi dal lavoro che lo assorbiva. Ma l’altro fece a Useppe un bel sorriso d’amicizia, ingenuo e festoso. Costui, di corporatura già sviluppata e di statura forse 1,90, denunciava però, nel viso imberbe e roseo, la sua età di sedici anni. Aveva la fronte bassa, e i suoi occhi larghi, di un azzurro latteo, erano sfuggenti allo sguardo, per una sorta di timidezza quasi ancora impubere che contrastava con una certa sua espressione di duro. Portava un trench biancastro e ormai lurido sul torso nudo; pantaloni e scarponi militari di provenienza italiana (i pantaloni gli stavano corti) e al polso un orologio tedesco, del quale pareva estremamente fiero e soddisfatto, tanto che ogni minuto lo portava all’orecchio per constatare che marciava.

«Questo è Decimo, e questo è Tarzan», presentò Asso. «Tiè!» soggiunse, gettando al più giovane (Tarzan) il cartoccio ricevuto da Mariulina, che conteneva del tabacco in foglie. E Tarzan, tralasciando provvisoriamente la pulitura delle armi, tolto dalla tasca del trench un coltelluccio a scatto cominciò subito a trinciare quelle grosse foglie brune per farne senza ritardo delle sigarette di carta di giornale.

«Tutto in regola?» s’informò Asso che mancava dalla sera prima, avendo passato la notte a Roma con un’altra sua amante dei vecchi tempi. E intanto andava esaminando, in aria di competenza e padronanza, quelle armi in via di restauro, le quali rappresentavano la sua ultima impresa. Era lui difatti che le aveva scoperte, il giorno avanti, al limite di una boscaglia dove s’erano accampati dei tedeschi; e ieri stesso, appena fatto buio, seguìto da due altri compagni, era andato a prelevarle di soppiatto, eludendo le sentinelle del campo. Aveva, però, lui per suo conto, partecipato solo a questa prima parte (invero, la più pericolosa) della spedizione: lasciando agli altri due la più faticosa (e cioè il trasporto del carico alla base) per la smania di arrivare in tempo all’ultimo tram, e non mancare il suo appuntamento romano.

«Come vedi…» rispose alla sua domanda Decimo, impegnato tuttavia nel suo lavoro con una applicazione quasi cupa. Decimo era novizio, appena arrivato nella banda, e per questo non s’era ancora conquistato le scarpe. Non conosceva neppure l’uso delle armi, e Asso gli andava insegnando come si smontano i mitragliatori Breda, e si svitano gli otturatori dei fucili, eccetera. Le nuove armi appena predate (in tutto, una diecina di pezzi) erano di provenienza italiana, cadute in mano dei tedeschi dopo lo sbandamento dell’esercito nazionale. E Nino manifestava un certo disprezzo per le armi italiane (roba scaduta, a suo dire, e di scarto). Ma per lui, a ogni modo, maneggiare le armi era sempre un avvenimento appassionato.

«Il petrolio qua non basta», notò gravemente Decimo, «bisogna procurarne dell’altro». «Credo», disse Tarzan, «che Quattro e Piotr ci abbiano pensato» (Piotr era il pseudonimo guerrigliero di Carlo Vivaldi).

«Dove stanno, loro?» s’informò Asso.

«Sono andati là sopra, per quei viveri. Però sono già in ritardo. A quest’ora dovrebbero essere di ritorno». E Tarzan ne approfittò per consultare il proprio orologio.

«A che ora sono partiti?»

«Alle ore 7,30».

«Che portavano?»

«Quattro ha la P.38, e Piotr ha preso lo Sten di Harry».

«E Harry dove sta?»

«È qua fuori nella vigna, nudo a prendere il sole». «Eh, se sta a riposà», intervenne Mosca a rimproverare (ma per ridere) Asso, «dopo che stanotte ha dovuto fare due turni di guardia. E dopo quell’altra faticata che s’era già preso ieri sera, piantato là solo a mezza strada con tutta quell’artiglieria in braccio…»

«Se no, io perdevo il tram! E mica l’ho lasciato solo. C’era Orchidea Selvaggia. Erano in due».

«Eh Orchidea. Co’ quello, ce spari la pòrvere. Bella compagnia eh».

«E lui, dove sta, adesso?»

«Chi, l’orchidea? Starà lui pure spaparanzato qua de fora da qualche parte del giardino».

«E il Capo?»

«Ha dormito in paese, torna dopopranzo. A proposito, Asso, tu ancora non sai la novità… Io e lui, ieri a notte, abbiamo sistemato quello della PAI».

Nel comunicare questa notizia, Tarzan piegò le labbra a una smorfia dura e spregiativa. Ma un rossore bambinesco gli salì alla faccia nel medesimo tempo.

«Ah», disse Ninnuzzu, «era ora. Dove?…»

«A pochi metri da casa sua. Stava accendendo una sigaretta. Ci s’è fatto riconoscere alla fiamma dell’accendino. Stava solo. Tutto buio. Nessuno ha visto niente. Noi due stavamo dietro l’angolo. Abbiamo sparato insieme. Roba di due secondi. Ci trovavamo già in salvo quando s’è sentita la moglie che urlava».

«La consorte in gramaglie», commentò Assodicuori.

«Eh però», esclamò con enfasi il partigiano Mosca, «me sa che mica piagneva, la sora sposa, quando c’è stato il rastrellamento tedesco, per i buoni servizi del Compare!!»

«Era una spia schifosa», commentò ancora Asso. «Un panzone», concluse, a giudizio definitivo. Nel frattempo, non cessava di considerare le armi là sparse in terra davanti a lui, con l’aria di un capitalista che scruti la propria consistenza patrimoniale. «Attualmente», constatò per lui Tarzan, nel prepararsi a appiccicare con la saliva la sua sigaretta di carta di giornale, «disponiamo di otto moschetti e di sei ’91…»

Anche il partigiano Mosca interveniva ogni tanto nel bilancio degli armamenti col sussiego di un esperto: «Questi so’ proiettili de marca tedesca», fece sapere al principiante Decimo, indicando delle granate col piede.

«Sono buone per l’esplosivo», intervenne Asso, «più tardi, te faccio véde l’uso…»

«Ce se svuota la carica de lancio, e ce se fa la polvere, e mischiandola cor tritolo…»

«Eppetondo! e che cavallo è?» venne a dire in quel punto Useppe, che seguitava a interessarsi al mulo.

«Te l’ho detto che non è un cavallo. È un mulo».

«Tì! mulo! mulo! ma che cavallo è?!»

«E dàie! Mulo non è cavallo. Il mulo è mezzo cavallo e mezzo somaro».

«…? …»

«Per madre, tiene una cavalla, ma per padre, un somaro».

«O viceversa», azzardò Tarzan, che essendo nato e vissuto in città, ci teneva a denotare, tuttavia, pure su questi generi di montagna, una competenza adeguata.

«No. Se viceversa, non è mulo. È bardotto».

Tarzan fece un sorrisino mortificato. «E dove sta sua madre, adesso?» s’informava frattanto Useppe, insistente, presso Mosca.

«E dove ha da stà? Starà a casa, con lo sposo».

«…è contenta?»

«Artro che! Contentissima. Come una Pasqua».

Useppe rise, rallegrato. «Che fa? gioca?» insisté, con fervore.

«Gioca. Salta e balla!» gli garantì Mosca. Useppe rise di nuovo, come se tale risposta corrispondesse in pieno a una sua malcerta speranza. «E lui, perché non gioca?» s’informò poi nell’accennare al mulo, che solitario pascolava sul prato.

«Eh… lui magna! Non lo vedi, che sta a magnà?»

Parve che Useppe, a questo, si contentasse. Ma una domanda gli stava tuttavia sospesa sulle labbra, nel mentre che riguardava il mulo. Infine, domandò:

«E pure li muli, volano?»

Tarzan rise. Mosca si strinse nelle spalle. E Ninnuzzu disse al fratello: «A’ scemo!» Certo, lui non era informato delle notizie date a Useppe, nel giorno del bombardamento, da quella grande signora di Mandela. Ma vedendo che Useppe faceva un sorrisetto malsicuro e un po’ triste, lo sorprese con questa comunicazione:

«E lo sai, a proposito, che nome tiene, quel mulo? Si chiama Zi’ Peppe!!»

«E qua dentro, così, facciamo tre Giuseppi: io, tu e il mulo!» osservò Eppetondo gloriosamente. «Anzi, quattro», si corresse, sogguardando furbamente Decimo. Questo arrossì, come alla denuncia di un segreto di stato; e in questo rossore, nonostante la sua faccia irsuta di barbe, tradì la sua mente ancora immatura. Effettivamente, il suo vero nome non era Decimo, ma Giuseppe; e lui però, in particolare, aveva un doppio motivo per nascondersi sotto finto nome. Primo: in quanto partigiano; e secondo, in quanto ricercato dalla polizia romana per furti e contrabbando di sigarette.

Useppe spalancò gli occhi, all’idea di quanti Giuseppi ci stanno al mondo. In quel momento, fuori, nei dintorni della capanna, si udì una esplosione. Tutti si guardarono in faccia. Asso si fece a esplorare sulla porta:

«Niente, niente», annunciò verso l’interno, «è quel solito deficiente di Orchidea che dà la caccia alle galline con le bombe a mano».

«E le pigliasse, almeno!» osservò Mosca, «lui tira alle galline, e nun ce rimedia nemmanco un ovo».

«Quando rientra, lo piamo noi a carci in culo».

Ninnarieddu si armò di un binocolo, e uscì all’aperto. Useppe gli corse dietro.

Di là dalla piccola insenatura boscosa, che nascondeva la capanna alla vista, si apriva una valle di ulivi e di vigne, tutta incrociata di fossatelli scintillanti. L’aria portava voci campestri di gente e di animali; e ogni tanto passavano degli aerei che facevano un ronzio come corde di chitarra. «Sono inglesi» disse Nino osservandoli col suo binocolo. In fondo in fondo alla campagna si intravvedeva il Tirreno. Useppe non aveva mai visto il mare, e quella striscia turchin-violacea non era, per lui, che un colore diverso del cielo.

«Vuoi guardare nel binocolo anche tu?» gli propose Nino. Useppe si tese verso di lui sulle punte dei piedi. Era la prima volta che gli capitava una simile esperienza. Nino, reggendogli lo strumento con la propria mano, glielo appoggiò sugli occhi.

Dapprima, Useppe vide un fantastico deserto rosso-bruno, tutto tramato di ombre che si diramavano verso l’alto, dove stavano sospesi due meravigliosi globi d’oro (era, in realtà, un pàmpino di vite, a non molta distanza). E poi, nello smuoversi del binocolo, vide una zona acquatica celeste, che palpitava trasmutandosi in altri colori, e accendendo e spegnendo delle bolle di luce: finché d’un tratto, festosamente, si rompeva in una fuga di nuvole.

«Che vedi?» gli chiese Ninnuzzu.

«Il mare…» sussurrò Useppe con voce intimidita.

«Sì», confermò Nino, inginocchiandosi accosto a lui, per seguire la sua visuale stessa, «ciài indovinato! quello là è il mare».

«…E… la navi dove stà?»

«Mò de navi nun ce ne stanno. Però, a’ Usè, un bel giorno, sai che famo, noi due? Ci imbarchiamo su una nave transoceanica e partiamo per l’America».

«La LAMERICA!»

«Sì. Ce stai? E adesso, me lo dai un bacetto?»

Da sotto la collina, comparve Orchidea Selvaggia. Era un ragazzo dal volto angoloso e scavato, dai ciuffi neri sugli occhi, e in testa portava un fez d’avanguardista del Fascio, sul quale aveva applicato stelle rosse, falci e martelli, nastrini multicolori e simili ornamenti. Sotto a un farsetto rosso pieno di buchi, indossava una tuta da meccanico assai malridotta, chiusa alla vita da una cintura con appese delle bombe. Ai piedi calzava delle scarpe dell’esercito italiano di vacchetta chiara, quasi nuove.

Non recava nessuna gallina, né prede di altro genere. Scorrazzò verso la capanna, e Nino, dopo avergli gridato dietro stronzo, non si curò più di lui.

Seguìto da Useppe in ogni suo passo, andava perlustrando le campagne circostanti col suo binocolo, quando avvistò, dal lato della montagna, qualcosa che eccitò immediatamente il suo interesse. A non più di sei o settecento metri di distanza in linea d’aria, tre militari tedeschi, usciti da dietro una macchia di ulivi, si avviavano in quel momento su per una stretta mulattiera che, attraverso alcuni villaggi, si ricongiungeva poi con la strada carrozzabile dall’altra parte della montagna. Uno dei tre, a torso nudo, portava sulle spalle un sacco, dentro il quale, come risultò più tardi, stava rinchiuso un maialetto vivo, certo requisito a qualche famiglia contadina. I tre salivano senza affrettarsi, come per una passeggiata, e anzi, all’andatura, parevano piuttosto brilli.

Prima ancora che essi sparissero dietro alla svolta della mulattiera, Nino rientrò impaziente nella capanna, per annunciare subito che andava a dare un’occhiata là sopra, in cerca dei due compagni ritardatari (Piotr e Quattro) i quali, a quest’ora, dovevano trovarsi sulla via della discesa, anche loro su quella direzione del monte. A Useppe, rimasto sul praticello in compagnia del mulo, gridò di aspettarlo giocando là fuori, che lui sarebbe tornato presto. E agli altri diede in fretta varie istruzioni per il caso di un suo ritardo possibile.

Tarzan decise di accompagnarlo. Prendendo delle scorciatoie su per la macchia (la stessa via, più o meno, seguìta probabilmente da Piotr e Quattro per la discesa) i due contavano, con la loro sveltezza da capre, di precedere nella salita i tre tedeschi: così da trovarsi pronti per aspettarli, da un punto di vedetta nascosto verso la cima; e di là coglierli di sorpresa al gomito della mulattiera.

Mentre i due, con gaiezza febbrile, si accordavano su questo piano (il tempo di un minuto), dal lato della montagna, portati dall’aria quieta, echeggiarono degli spari: all’inizio alcuni colpi distinti, seguiti subito da una serie a raffica, e poi da qualche altro colpo. A una pronta indagine col binocolo in quella direzione, né sulla mulattiera, né là intorno, non si vide più nessuno. I due si affrettarono. Nell’uscire con Asso dalla capanna, Tarzan si nascose sotto il trench il mitra che stava appoggiato vicino all’uscio.

Frattanto Useppe, ubbidiente, si era disposto all’attesa di Ninnuzzu, perlustrando per suo conto il breve territorio intorno alla capanna. Prima chiacchierò col mulo, il quale, però, sebbene interpellato ripetutamente col suo nome di Zi’ Peppe, non gli dette risposta. Poi trovò un uomo nudo, con una quantità di cespugli rossi sulla testa, all’inguine, e sotto le ascelle, il quale russava a braccia spalancate in una radura fra i filari. E dopo, nell’esplorare a quattro zampe il piccolo tratto boschivo alle falde della collina, fra altre curiosità e meraviglie vide pure una specie di topo (dalla pelliccetta vellutata, con una coda minuscola, e i piedi davanti assai più grossi di quelli di dietro) corrergli d’un tratto all’incontro con velocità vertiginosa; guardarlo con due occhietti sonnacchiosi e piccolissimi; quindi, sempre guardandolo alla stessa maniera, correre con uguale velocità, ma all’indietro; e scomparire dentro la terra!

Questi però furono eventi secondari, in paragone con l’evento precipuo, di straordinaria importanza, che gli capitò in quel punto.

Fra gli alberi d’ulivo, là dietro, c’era un albero differente (forse, un piccolo noce) dalle foglie luminose e allegre che facevano un’ombra screziata, più buia di quella degli ulivi. Nel passare là vicino, Useppe udì una coppia di uccelli chiacchierare assieme e sbaciucchiarsi. E senz’altro, a prima vista, riconobbe in quella coppia Peppiniello e Peppiniella.

In realtà, questi due, non canarini dovevano essere; ma piuttosto lucherini: genere di uccelletti di bosco più che di gabbia, che torna in Italia per l’inverno. Ma nella forma e nel colore giallo-verde essi potevano senz’altro confondersi coi due canarini (un po’ ibridi invero) di Pietralata; e Useppe non ebbe dubbi su questo punto. Era chiaro che i due cantatori dello stanzone, stamattina, appena guariti dal loro male sanguinoso, erano volati qua, magari seguendo, su per l’alto, il camioncino.

«Ninielli!» li chiamò Useppe. E i due non fuggirono; anzi, in risposta, incominciarono un dialogo musicato. Più che un dialogo, veramente, la loro era una canzonetta, composta di un’unica frase che i due si rimandavano a vicenda, alternandosi a salti su due rami, uno più basso e uno più alto, e segnando ogni ripresa con gesti vivaci della testolina. Essa consisteva in tutto di una dozzina di sillabe, cantate su due o tre note - sempre le stesse salvo impercettibili capricci o variazioni - a tempo di allegretto con brio. E le parole (chiarissime agli orecchi di Useppe) dicevano esatta mente così:

 

È uno scherzo uno scherzo tutto uno scherzo!

 

Le due creature, prima di rivolarsene via nell’aria, replicarono questa loro canzonetta almeno una ventina di volte, certamente con l’intenzione di insegnarla a Useppe: il quale, invero, fino dalla terza replica l’aveva già imparata a memoria, e in séguito la mantenne sempre nel proprio repertorio personale, così che poteva cantarla o fischiettarla, se voleva. Però, senza spiegarsene la ragione, lui questa canzonetta famosa, che l’ha accompagnato in tutta la sua vita, non l’ha comunicata a nessuno, né allora né dopo. Solo verso la fine, come si vedrà, l’ha insegnata a due suoi amici: un ragazzetto di cognome Scimò, e una cagna. Ma è probabile che Scimò, a differenza della cagna, se ne sia scordato immediatamente.

Da dentro la capanna, il Mosca chiamò Useppe, volendo offrirgli una patata bollita. E in aggiunta, Orchidea Selvaggia, risalito allora da un suo giro nella vigna, gli fece dono di un grappoletto d’uva da vino: di buccia alquanto dura, cioè da sputarsi, però di uno zucchero dolcissimo. «Ninielli! Ninielli!» si affannava intanto a spiegare Useppe a Eppetondo, tirandolo per la manica in grande animazione; ma siccome il Mosca, preso da altri argomenti, non gli dava retta, lui rinunciò a fargli sapere il recupero dei suoi canarini. E dopo di allora, non parlò mai più con nessuno del proprio incontro con quella coppietta fortunata.

Nella capanna, i tre rimasti parlamentavano sull’emergenza della situazione, calcolando che Asso non rientrerebbe tanto presto dalla sua gita in montagna. Si trattava di spedire eventualmente qualcuno a consultare Occhiali (era il Capo) perché, nell’evenienza che la battaglia coi tre tedeschi si svolgesse in un tratto prossimo della mulattiera (e nell’attuale incertezza dell’esito), si poteva temere, dicevano, un rastrellamento successivo della zona… E si trattava pure di liberarsi prontamente di Useppe, consegnandolo a qualche persona di fiducia che lo riportasse in tempo al camioncino sulla carrozzabile. Frattanto, dopo quegli spari di prima, non s’era udito più nulla.

Nel suo equipaggiamento svariato, anche Mosca disponeva di un binocolo. Non era, però, una preda di guerra, ma un piccolo strumento di sua proprietà, che in passato gli serviva a teatro per godersi dal loggione gli spettacoli, e in particolare la Tosca, Petrolini e Lydia Johnson, sue speciali preferenze. Ora, nel corso della discussione, ogni tanto il Mosca usciva a perlustrare col suo binocolo verso il monte. E fu una sorpresa per tutti quando, in anticipo su ogni previsione, si vide la banda degli assenti, al completo, spuntare da una macchia a non più di cento metri dalla mulattiera, e avanzare su dalla vallata verso la capanna. Davanti, appaiati, venivano Asso e Quattro, affiancati a poca distanza da Tarzan che trascinava per una corda un sacco lacerato e sanguinoso; e più dietro seguiva Piotr solo. Oltre agli zaini stracolmi, tutti portavano qualche carico supplementare; e al loro arrivo scaricarono ogni cosa nella capanna, fuorché la preda uccisa del maialino che Tarzan s’era incaricato di squartare fuori nel bosco. C’erano petrolio e viveri (polenta, formaggio, sale) e in più scarponi tedeschi impermeabili, due rivoltelle tedesche coi loro cinturoni, un accendisigari, una Contax. Subito Decimo, quasi febbrilmente, prese a provarsi un paio di scarponi. Intervenne in quel punto, da fuori, anche Harry, che s’era infilato dei pantaloni di fustagno da contadino e ripeteva: «Magh-nifico! Magh- nifico!..» ancora mezzo insonnolito. Magnifico era una delle poche parole italiane che sapeva. Era difatti un inglese fuggito di prigionia con una sequenza da film (nel fuggire s’era perfino ripigliato la propria arma!) il quale da poco s’era aggregato alla banda. A lui, della preda, fu offerto un orologio.

A quest’ora, i corpi dei tre tedeschi, coperti di frasche e di terra, giacevano in un fossato sui margini della mulattiera, a circa due terzi di distanza dalla cima. Erano stati Quattro e Piotr a compiere l’impresa da soli. E quando, scendendo giù di traverso per la macchia, s’erano incontrati con Asso e Tarzan, già tutto era compiuto. Però, nessuno dei due vincitori pareva aver voglia di discorrerne. Piotr, con occhi torbidi da morto e i tratti cascanti e abbrutiti da una stanchezza enorme, appena toltosi di dosso lo zaino andò a buttarsi nel boschetto dietro la capanna, dove s’addormentò di peso, respirando con la bocca aperta, come un drogato istupidito dall’oppio. E Quattro si mise giù a sedere in un angolo della capanna e ci si restrinse, lagnandosi di spossatezza e di stordimento. In faccia aveva un insolito pallore di nausea, e negli occhi uno sguardo da febbricitante. Disse che non aveva voglia di mangiare, e neanche di parlare e non aveva neanche sonno. Ma gli bastava di riposare così un poco, là da una parte, e il malessere gli sarebbe passato.

Solo più tardi si confidò con Asso sui particolari dello scontro, nel quale la parte avuta da Carlo-Piotr era stata terribile, al punto che lo stesso Nino parve scosso alla descrizione dell’amico: «E pensare», osservò con lui, parlandone insieme a voce bassa, «che quella sera a cena, te ne ricordi? a Pietralata… lui diceva di rifiutare la violenza…» Secondo loro, tuttavia, l’azione di Piotr era giustificata. Difatti, come Nino aveva intuito fin da principio, Piotr-Carlo, oltre che ricercato politico, era ebreo (né Vivaldi, e né Carlo, non erano i suoi veri nomi) e si era risolto a entrare nella banda in séguito alla notizia che i suoi genitori, i nonni e la sorellina, nascosti sotto falso nome nel Nord, erano stati scoperti (certo attraverso qualche denuncia) e deportati dai Tedeschi. Ma pure, nonostante tutto questo, Quattro, solo a rievocare la scena dello scontro, ne provava una sensazione di freddo, al punto che si vedeva la sua pelle aggrinzarsi, sull’avambraccio nudo.

La notizia che i tre tedeschi si aggiravano in quella parte del monte aveva raggiunto Quattro e Piotr già dall’inizio della mattinata, durante la loro sosta per il rifornimento dei viveri presso un contadino amico. Le famiglie dei dintorni, passandosi la voce da una all’altra, erano state avvertite di nascondere il bestiame e le provviste e di tenersi in guardia, perché i tre individui andavano «cacciando la roba» per le casupole con la solita brutalità delle truppe naziste, che dovunque passassero le faceva odiare. Non era stato difficile a Quattro e a Piotr di mettersi sulla loro pista, soprattutto grazie alla presenza di Quattro, che era nativo di quelle campagne e ne conosceva ogni luogo e ogni persona: e avevano deciso di tenersi di vedetta, nascosti sul loro passaggio, per coglierli di sorpresa al momento giusto. L’attesa era durata più del previsto, perché i tre, inaspriti dalla povertà della loro caccia, si erano sviati in successive diversioni, sempre più alterandosi col vino. Finalmente, dal proprio nascondiglio fra la macchia, Quattro e Piotr li avevano visti apparire sulla mulattiera, preceduti dalle loro voci avvinazzate che cantavano in italiano, mezzo storpiandone le parole, una canzonetta allora in voga:

 

Mare, perché

questa sera m’inviti a sognar…

 

Cantavano in coro allegri, con le guance rosse e le giacche sbottonate: anzi il più giovane e il più grasso, quello che portava il sacco sulle spalle, si era tolto giacca e camicia, restando nudo fino alla cintura. Quattro sparò per primo, da brevissima distanza, colpendo in pieno quello che, apparentemente, era il più anziano dei tre: uno snello e stempiato, sui trent’anni, che portò le due mani al petto con una esclamazione rauca e stupefatta; e, dopo una strana giravolta nell’aria, si abbatté con la faccia a terra. Subito i suoi camerati, con un gesto convulso e istintivo, misero mano alle rivoltelle; ma non ebbero nemmeno il tempo di estrarle dalle cinture, raggiunti dalle raffiche della pistola mitragliatrice di Piotr, che si teneva appostato poco lontano. Per una durata di tempo impercettibile, i loro occhi si incontrarono con quelli di Quattro. Uno cadde inginocchiato e avanzò per forse mezzo metro sui ginocchi, mormorando sillabe incomprensibili. E il terzo, quello a torso nudo, che assurdamente con la sinistra reggeva ancora il sacco per la corda, lasciò la presa con una curiosa lentezza; e in un grido improvviso di pànico fece un passo laterale, tenendosi una mano al basso ventre. Ma di lì a un istante, sotto un’ultima raffica di colpi, caddero entrambi a poca distanza dal primo.

Dai tre corpi distesi e inerti sulla mulattiera non veniva più nessuna voce; però, in quella pausa pietrificata, da un cespuglio verso la scarpata lì di contro echeggiò una sorta d’implorazione agghiacciante, di terrore estremo, che somigliava al pianto di un neonato. Era il porcellino prigioniero, che, colpito dall’ultima scarica, era rotolato o si era trascinato nel cespuglio, e di là prorompeva in quelle strida spasmodiche, di suono umano, solite alle bestie della sua specie quando sentono la fine. Poi subito sopravvenne il silenzio e Quattro si fece sulla strada. Dei tedeschi abbattuti, due sembravano già morti; solo il più anziano, quello colpito da lui, sussultava ancora debolmente; e in quel punto cercò di scostare la faccia da terra sputando una saliva sanguinosa e mormorando «mutter mutter». Quattro lo finì con un colpo di revolver alla testa; poi rivoltò il secondo, e lo trovò con gli occhi spalancati e senza vita; mentre invece l’ultimo, quello a torso nudo, che giaceva supino a occhi chiusi e che lui aveva già creduto morto, al suo avvicinarsi ebbe una contrazione del viso e alzò faticosamente un braccio.

Quattro si apprestava a sparare anche a questo; ma allora Piotr dalla macchia irruppe sulla mulattiera, dicendo con una risata storta: «No, fermo. questo tocca a me». E Quattro gli allungò la rivoltella, intendendo che volesse esser lui a dare all’uomo il colpo di grazia. Ma Piotr respinse la rivoltella, e in un odio determinato, furente, sferrò un calcio spaventoso, col suo pesante scarpone, sulla faccia rovesciata di colui. Dopo un istante di pausa, ripeté il gesto, uguale, e così di nuovo più volte, sempre con la stessa violenza folle, ma con un ritmo stranamente calcolato. Quattro, che s’era allontanato d’un passo e voltava la testa per non vedere, udiva tuttavia quei colpi, nella loro pesantezza cupa, susseguirsi a intervalli regolari, quasi a segnare un tempo inaudito in uno spazio enorme. Al primo colpo, il tedesco aveva reagito con un urlo soffocato e rantolante, che ancora sapeva di rivolta; ma le sue urla via via s’erano indebolite fino a ridursi a un piccolo gemito femminile, quasi un’interrogazione intrisa di vergogna senza nome. I colpi seguitarono ancora, a intervalli più rapidi, dopo che il lamento era cessato. D’un tratto Piotr, col suo lungo passo slegato, si fece davanti a Quattro. «È crepato», annunciò, lievemente affannoso, come chi ha compiuto una fatica fisica. Il suo sguardo era tuttora accanito sotto la fronte madida e il suo scarpone chiodato era schizzato di sangue. Ormai, non restava che spogliare i morti delle loro armi e d’ogni altro fornimento servibile - secondo le regole della guerriglia - prima di nascondere i loro corpi. In precedenza, nella loro scelta del luogo, i due avevano tenuto conto che nel campo attiguo, di là dalla mulattiera, c’era un fossato largo, dal fondo ancora fangoso delle piogge recenti. E per primo, trascinandolo per i piedi, ci buttarono quello dal torso nudo. Non aveva più faccia, altro che un avanzo informe e sanguinoso; e, al contrasto, la bianchezza straordinaria del suo torso carnoso faceva un effetto irreale. Il sangue, perduto in gran copia dalle ferite al basso ventre, gli impregnava i pantaloni della divisa grigio-azzurra. Le sue scarpe invece non si erano sporcate; ma rinunciarono a levargliele. Gli lasciarono pure la pistola e il resto: perfino l’orologio. Con gli altri corpi, invece, si attennero alle regole solite, e poi li buttarono sopra al primo, ricoprendo il fossato con terra e frasche. Alla fine, Quattro provvide a recuperare la preda del maialetto, ora muta e rovesciata dietro il cespuglio. In tutto, dal momento della sparatoria, l’azione aveva richiesto pochi minuti.

 

* * *

 

Immediatamente dopo il ritorno alla capanna, Asso e gli altri si diedero da fare a caricare il mulo. Di lì a poco apparve la ragazza Maria (detta da Asso Mariulina) che si prese, fra l’altro, l’incarico di riportare Useppe, a dorso di mulo, all’appuntamento sulla carrozzabile. Asso non poteva accompagnarlo, essendo occupato in vari preparativi urgenti, e aspettando, inoltre, l’arrivo di quell’Occhiali famoso. Nel salutare, da terra, il fratello, gli promise che si sarebbero rivisti assai presto. Ammiccandogli, in segreto, come a un compagno guerrigliero, gli confidò che una delle prossime notti doveva partecipare a una grande azione sulla Tiburtina; e che dopo, forse, sarebbe andato a dormire da loro a Pietralata.

Il mulo Zi’ Peppe partì stracarico. Oltre a Mariulina e Useppe portava sulla groppa un grosso fardello di frasche e fascine, sotto le quali, in realtà, stavano nascoste armi, bombe e munizioni che Mariulina doveva recapitare, sulla via del ritorno, a un paesano complice di altri guerriglieri. Useppe era stato sistemato davanti, addossato al petto di Mariulina, che cavalcava il mulo a gambe larghe, come un cavaliere. Essa aveva un abituccio nero corto, e delle calze nere fatte in casa arrotolate al di sopra dei ginocchi. Nel cavalcare, si vedevano scoperte, di qua e di là, le sue cosce tonde e carine, le quali, come tutto quello che si vedeva della sua carne, avevano un colore di pesca rosa, indorato da una minutissima semola bruna. In faccia, essa aveva la solita espressione imbronciata; e durante tutto il percorso (salita e discesa della mulattiera, e raccordo verso la carrozzabile) parlò solo al mulo, dicendogli secondo i casi: «Haaaa!» oppure «Hiiii!» Alle varie domande di Useppe, rispondeva al massimo sìne e nòne, magari anche a sproposito. Zi’ Peppe avanzava con calma, anche per via dello stracarico che portava, e in certi tratti essa scendeva a trascinarlo per la cavezza, gridandogli arrabbiata:

«Hiiii!», coi capelli, di colore rossetto, che le cadevano sugli occhi, mentre Useppe si reggeva stretto ai finimenti per non cadere.

A Useppe il viaggio piacque assai. Lui pure teneva le gambe una di qua e una di là, alla pari di un cavaliere anziano. Stava addossato al petto di Mariulina, come a un cuscino tiepido, e sotto il culetto aveva la nuca pelosa di Zi’ Peppe, anch’essa tiepida. Davanti agli occhi, aveva la criniera marrone scuro di Zi’ Peppe, e i suoi due orecchi dritti, nè di cavallo nè di somaro, che portavano in mezzo, come ornamento, un pennacchietto verde spennacchiato: e per lui queste, e altre, anche minime, specialità del mulo, erano curiosità del massimo interesse. Intorno, aveva lo spettacolo della campagna, con le sue luci, diverse, adesso, da quelle della mattina. E se si voltava a guardare in su, vedeva gli occhi della Mariulina, di colore arancione, coi cigli e i sopraccigli neri, e la sua faccia che, sotto al sole, si copriva tutta di una lanugine, come avesse in testa un grande cappello velato. Secondo Useppe, la Mariulina era una beltà universale, da sbalordirsi a rimirarla.

Finita la discesa, nella valle si videro passare dei tedeschi, i quali, pure loro, conducevano un mulo affardellato. «Mulo! mulo?!» esclamò Useppe, salutandoli festevolmente. «Nòne…» rispose Mariulina stufa di rispondere.

«Inghesi?» esclamò ancora Useppe, riecheggiando l’osservazione che aveva udita da suo fratello al passaggio degli aerei. «Siìne!» rispose lei, con impazienza. Il camioncino stava già in attesa, all’incrocio della carrozzabile. E dopo aver consegnato Useppe all’oste, che la rimbrottò per il ritardo («Sei rimbambita o tonta?!»), essa, non avendo degnato nessuno d’un saluto né d’una risposta, gridò senz’altro al mulo: «Hiiii!» e si separò da loro, ritornando indietro a piedi, a lato del mulo.