4.

 

 

 

Dopo l’assalto al carico della farina, Ida non si credeva più capace di tornare al quartiere San Lorenzo, diventato per lei il centro stesso della paura. Ma, trascorse due settimane dalla riapertura delle strade senza ancora notizie di Ninnarieddu, si avventurò fino all’osteria di Remo.

Qui, apprese la notizia sorprendente che Nino era già stato a Roma sui primi di giugno, poco dopo l’ingresso degli Alleati, passando per una rapida visita dall’oste, che gli aveva naturalmente fornito l’indirizzo di sua madre al Testaccio. Di salute stava benissimo, allegro, e aveva portato buone notizie anche di Carlo-Piotr, il quale era vivo e sano, e attualmente abitava presso dei parenti (si trattava in realtà della sua balia) in un paesino a mezza strada fra Napoli e Salerno. I due, dopo aver superato assieme, incolumi, il passaggio delle linee, avevano conservato, anzi rafforzato la loro amicizia di guerriglieri; e spesso avevano occasione d’incontrarsi a Napoli, dove Nino teneva degli affari importanti.

Queste erano, in tutto e per tutto, le notizie, poche e sbrigative, che l’oste aveva ottenuto da Nino: il quale stava a bordo di una Gip militare, in compagnia di due sottufficiali americani, e aveva molta fretta. Dopo quel giorno, l’oste non lo aveva più riveduto.

Dopo tale informazione rassicurante, Ida non seppe più niente di Nino fino all’agosto. In quel mese, arrivò una sua cartolina col timbro Capri e la foto a colori di un palazzo lussuoso intitolato Quisisana Grand Hôtel. Equivocando, i destinatari favoleggiarono che Nino fosse alloggiato addirittura in quel palazzo. Sul lato della corrispondenza, fra numerose altre firme di sconosciuti, lui, sopra alla sua propria firma: Nino, ci aveva scritto soltanto: See you soon. Questa scritta ai presenti riusciva indecifrabile: chi la reputava americana, e chi, piuttosto, giapponese o cinese. Però Santina, che adesso faceva il mestiere coi militari alleati, consultò un siculo-statunitense in proposito. E riferì, da parte di costui, che la frase voleva dire, all’incirca, Arrivederci presto.

Tuttavia, s’arrivò all’autunno nel silenzio totale di Ninnuzzu. Il quale, invero, durante quei mesi, era stato a Roma più di una volta, avanti e indietro. Però, capitandoci sempre di passaggio, e troppo occupato in certi suoi traffici frettolosi, finora aveva trascurato d’informarne sia il suo amico oste, che sua madre.

Frattanto, gli eserciti alleati, sbarcati in Normandia, avevano sferrato l’attacco ai Tedeschi in Europa, alla riconquista della Francia, e in Agosto erano entrati a Parigi col generale De Gaulle. In tutti i paesi già assoggettati dai Tedeschi, progrediva la rivolta, mentre le armate russe avanzavano dall’oriente. E in Italia, dopo Roma gli Alleati avevano preso Firenze, arrestandosi sulla linea gotica dove attualmente il fronte era fermo.

Altri avvenimenti di quell’estate: non molto tempo dopo la liberazione di Roma, Annita, trovata occasione di un mezzo di trasporto, ne aveva approfittato per una visita su alla montagna, dove la casupola della famiglia, e le altre vicine, stavano a posto senza danno. Però, di tutte le città e i paesi abbasso in pianura o su verso i monti, che una volta s’incontravano lungo il viaggio, non restava più niente, essa raccontò al ritorno: al loro posto, non ci si vedeva altro che un polverone. I suoceri le nominavano questa o quella località, paese, aranceto; ma lei, scuotendo il capo adagio con gli occhi sconsolati, ripeteva che dovunque era lo stesso: più niente, solo un polverone. Pareva che la strana veduta di questo polverone avesse invaso tutte le altre impressioni del suo viaggio, al punto che quasi non ricordava altro.

Il secondo avvenimento fu, in agosto, la morte del nonno. In una di quelle notti canicolari, il vecchio, di sua propria iniziativa, calandosi giù dalla sua branda in cucina si era coricato sul pavimento, forse per sentirsi più fresco. E alla mattina stava tuttora là in terra lungo disteso, che borbottava da solo, senza badare che sul suo corpo seminudo camminava una fila di formiche. Il primo a entrare in cucina, svegliandosi all’alba, era stato Useppe; il quale, stupefatto, rimirando il vecchio, si era provato ad offrirgli il catino da sputare, la sedia, il fiasco del vino. Ma il vecchio rispondeva solo borbottando accanitamente, nel tono di chi rifiuta, né voleva più alzarsi. Dalla cucina il mattino stesso fu trasferito all’ospedale, da dove poco più tardi, morto, fu portato direttamente al camposanto, e riversato nella fossa comune. Useppe, che domandava dove fosse andato, ebbe in risposta, da Annita, che se n’era tornato sulle montagne; e alla risposta rimase lì perplesso, figurandosi quel vecchio allampanato, nudo, coperto di formiche e senza nemmeno le cioce ai piedi, che s’arrampicava frammezzo al famoso polverone. Però da allora non domandò più di lui.

A Ida frattanto, dopo le inevitabili confusioni dei servizi, la Cassa aveva ripreso a pagare gli stipendi in biglietti di banca di un tipo nuovo, detti am-lire. Pure con queste am-lire, tuttavia, le era difficile rimediare i pasti ogni giorno; ma rubare, per lei, d’ora in avanti, era escluso. L’edificio della sua vecchia scuola lì al Testaccio, requisito già dalle truppe, in quei giorni era stato occupato da un reparto di sudafricani, che ogni tanto fornivano a Tommaso Marrocco, in cambio di qualche commissione, i sopravanzi della loro mensa. E allora il caso volle che Ida, per mezzo di Tommaso, trovasse là un lavoro: lezioni d’italiano a un tale di quel reparto. Non avendo mai, prima, fatto scuola a un adulto, Ida si sentiva tutta spaurita alla prova; ma da principio, essa credeva che un sud-africano fosse un uomo di color nero, e questo fatto, chi sa perché, le tornava più rassicurante. Invece, si trovò di fronte a un uomo di pelle bianca, biondo e lentigginoso: il quale parlava pochissimo, in una lingua incomprensibile, e aveva con lei maniere piuttosto rudi, quasi da sergente a recluta. Era di figura grossa e squadrata, e tardo a capire; ma qui la colpa credo, era piuttosto dell’insegnante, che in quell’ora di lezione affannava e tartagliava, piena d’imbarazzo, e pareva una scema. Le lezioni avevano luogo nell’edificio della scuola, in un locale fresco a pianterreno, già adibito a palestra; e Ida ne riceveva in pagamento sacchetti di zuppa in polvere, scatolette di carne congelata, eccetera. L’impiego cessò nella tarda estate, con lo spostamento del sudafricano verso Firenze; e questo rimase, da lì in seguito, l’unico rapporto avuto da Ida coi vincitori.

Di Giovannino, ancora non s’era avuta nessuna notizia. E così Ida, alla fine dell’estate occupava sempre, con Useppe, la sua stanzuccia in Via Mastro Giorgio. Qui un pomeriggio, sugli ultimi di settembre, ci fu una visita inaspettata: Carlo.

Si presentò in cerca di Nino, asserendo che costui, già da alcuni giorni, stava a Roma, benché senza un recapito preciso. E lui contava di trovare qui, almeno, qualche indicazione per rintracciarlo; ma all’accorgersi che nella casa non erano informati di nulla, non nascose la propria impazienza di andarsene via subito, annunciando in un borbottio che doveva riprendere il treno di Napoli prima di sera.

Tuttavia, davanti all’ansietà di Ida e alle premure dei circostanti, licenziarsi così senz’altro dovette sembrargli troppo villano. E sedette impacciato come gli veniva offerto, davanti alla tavola del laboratorio su cui subito gli servirono del vino bianco di Frascati. Accorso dalla stanzuccia, Useppe a riconoscerlo gli aveva gridato contento: Carlo! Carlo! e Ida balbettando per la sorpresa lo aveva presentato agli altri: «Il Signor Carlo Vivaldi». Ma lui, sedutosi, con un fare brusco e severo, quasi che tutti dovessero già saperlo, avvertì:

«Io mi chiamo DAVIDE SEGRE».

Nella stanza, oltre a Ida e Useppe e le donne di casa e la piccinina, c’erano Consolata e ancora due altre conoscenti e in più un ometto attempato, amico della famiglia, che di professione faceva lo strillone di giornali. Ida avrebbe voluto fare all’ospite cento domande, ma di fronte al suo solito contegno scostante e forastico, se ne tratteneva. E per di più si vergognava pure d’esser lasciata da Nino all’oscuro e sprovveduta al punto da dovere, lei sua madre, informarsi di lui da un estraneo.

Colui che un tempo s’era nominato Carlo, e poi Piotr, e adesso Davide, sedeva a disagio fra la piccola folla domestica. I presenti, avendone già sentito parlare da Ida, lo avevano subito identificato per quel famoso partigiano compagno del prode Ninnuzzu, che aveva attraversato le linee assieme a lui. E in conseguenza lo trattavano da ospite di pregio supremo, tutti eccitati dalla sua presenza. Ma questi onori sembravano imbarazzarlo peggio, anzi urtarlo e renderlo quasi cupo.

Era sempre magro, più o meno come allora, però in certo modo sembrava più ragazzo del tempo che stava a Pietralata. Portava una maglietta bianca di bucato, su dei pantaloni, al contrario, incredibilmente zozzi, di cotone blu tipo marina. E per quanto sbarbato, e coi capelli tagliati belli corti secondo la foggia sua primitiva, aveva, nella faccia e in tutto il corpo, qualcosa di trascurato e di lasciato andare. Le unghie le aveva nere di sporcizia, e i piedi zellosi nei sandali consunti. Sebbene Ida lo avesse presentato col titolo di «Signor» aveva piuttosto un aspetto fra di zingaro e di proletario. E l’intensa tristezza dei suoi occhi mori pareva sprofondarsi in una ostinazione interna quasi disperata, come un’inguaribile idea fissa che gli covava dentro.

Non guardava nessuno; e fra le sorsate del vino, invece di posare il bicchiere, lo stringeva fra le due mani nervose, e ne fissava l’interno, con l’aria d’interessarsi più al fondo di un bicchiere, che ai propri simili. A chi lo sollecitò per qualche racconto delle sue avventure, rispose solo alzando una spalla, con un sorrisetto storto. Era, chiaramente, assai timido; però il suo silenzio sapeva pure di protervia, quasi che si negasse a ogni conversazione per vendicarsi dell’obbligo di civiltà che lo aveva indotto, di malavoglia, a trattenersi qui in compagnia. Al centro della curiosità e sollecitazione generale, lui si comportava, né più né meno, come un sordomuto. Solo, quando Consolata e le Marrocco inevitabilmente pervennero a sottoporgli il problema cruciale dei loro dispersi, alzò gli occhi per un attimo, e in uno scatto delle mascelle disse con una assolutezza seria e brutale:

«Non torneranno mai più».

Tutti ammutolirono. E allora lo strillone di giornali, per distrarre un poco le donne dall’impressione terribile, trasferì il discorso prontamente su Santina, la quale aveva promesso di venire subito dopo pranzo a leggere le carte, ma intanto si faceva aspettare. In proposito l’ometto, pigliando un tono ameno, partì in facili induzioni sugli affari che potevano trattenere Santina motivando il suo ritardo. E non lo fece in termini vaghi, anzi precisi, e arricchiti da allusioni sconce, che miravano all’effetto comico.

Il nominato Davide non mostrò d’interessarsi a questo discorso più che agli altri precedenti. Però, quando Santina, di lì a due minuti, fece la sua comparsa sull’uscio, lui, che fino adesso non aveva badato a nessuna persona, la accompagnò con gli occhi mentre lei muoveva i suoi passi grevi verso la tavola e seguitò a guardarla, di fra le ciglia un poco basse, anche dopo che lei vi ebbe preso posto, trovandosi quasi di faccia a lui. Grazie alla folla di soldatini e soldatoni di bocca facile che in quei mesi piovevano a Roma da tutti i continenti, Santina adesso godeva ai qualche fortuna, relativamente alla sua sorte; e si era fatta ondulare dal parrucchiere i suoi lunghi capelli sciolti, in parte grigi; ma per tutto il resto, non aveva cambiato. Nessuno si prese cura di presentarla a Davide; né lei sembrò avvertire quegli occhi neri, che la sogguardavano con una selvatichezza caparbia. Ma sul punto che le sue mani rovinate di lavandaia, grosse e nodose, si accingevano a rimestare le carte apprestatele da Annita, Davide si levò, deciso, annunciando:

«Io devo andare».

Poi subito rivolto a lei, le propose, o meglio quasi le ordinò di prepotenza, benché fosse arrossito come un ragazzetto:

«Per favore, mi accompagna giù? Manca ancora un’ora e mezza alla partenza del mio treno. Dopo, lei può tornare qua per le carte».

Aveva parlato senza ambiguità, però non c’era nessuna mancanza di rispetto nel suo tono; anzi, sulle ultime parole, aveva quasi l’aria di domandare una carità. Gli occhi tardi e docili di Santina si mossero a malapena nella sua direzione; essa fece un piccolo sorriso incerto, mostrando nella gengiva superiore il vuoto dell’incisivo.

«Vadi, vadi pure col signore, noi l’aspettiamo», la incoraggiò lo strillone di giornali, con una festevolezza cordiale, e un po’ maligna, «noi qua l’aspettiamo, a suo comodo».

Essa seguì il giovane con semplicità. Quando il suono dei loro passi accoppiati svanì giù per la scala, nel laboratorio ci furono commenti svariati, però tutti, più o meno, insistiti sul tema principale «un così bel ragazzo, se ne va con quella zòccola vecchia!!»

Frattanto, la vecchia zòccola guidava questo cliente inaspettato al proprio terraneo sui margini del Portuense, non molto distante da Porta Portese. Stava nel basso di una costruzione isolata in muratura, a due piani oltre al piano terra (i due piani apparivano di aggiunta più recente, per quanto già malridotti e scaduti) in fondo a un terreno vago e senza selci, di là da certe baracche con gli orti. Ci si entrava direttamente dalla strada, per un usciolo senza targa né campanello, e l’interno, di una sola umida stanzuccia, dava per un lato su una sorta d’immondezzaio, visibile da un finestrino a grata, che peraltro era sempre celato da una tenda. Sullo stesso lato del finestrino, c’era un letto, di legno non molto ampio, vegliato da due stampe sacre: una era la solita e ripetuta immagine del Sacro Cuore, e l’altra la figura di un santo di paese, col pastorale e i paramenti, e l’aureola intorno alla mitra vescovile. Il letto era coperto di un damasco di cotone rossastro, e aveva ai piedi un tappetino a buon mercato di stile orientale, ridotto quasi alla trama.

Il resto della mobilia consisteva in una poltrona con le molle mezze di fuori, e in un tavolinetto con sopra un bambolino di celluloide vestito di tulle, un piccolo tegame e un fornellino elettrico. Sotto al tavolino c’era una grossa valigia di fibra, che faceva anche da armadio, e al di sopra, appesa al muro, c’era una credenzuola.

In un angolo della stanza pendeva una tenda dello stesso tessuto a fiorami e a strisce di quella del finestrino, e altrettanto consunta. Là dietro ci si trovava un piccolo lavabo di ferro stagnato, con brocca, catino e secchio, un asciugamano pulitissimo appeso a un chiodo, e in terra perfino il bidè, anch’esso di ferro stagnato.

Il cesso, in comune con gli altri inquilini dei piani di sopra (al pianoterra, Santina era l’unica abitante) si trovava situato all’esterno, dentro al cortiletto dell’ingresso principale. Per andarci, bisognava uscire dal terraneo sulla strada e aggirare la costruzione fino al portone d’ingresso. A ogni modo, nella stanzuccia, sotto al letto, c’era un orinale, che si poteva anche svuotare direttamente nella strada.

Santina non volle spogliarsi, togliendosi solo le scarpe prima di stendersi sotto la coperta accanto a lui, che già s’era spogliato nudo. Stettero insieme circa un’ora, e in quell’ora Davide si sfrenò in un’aggressività animalesca, avida e quasi frenetica. Però, al momento dei saluti, riguardò Santina timidamente, con una sorta di gratitudine intenerita, mentre che invece per tutta quell’ora aveva sempre evitato di guardarla, girando altrove i suoi occhi foschi e solitari nella furia del suo corpo. Le dette tutti i soldi che aveva (pochi) pescandoli nella saccoccia dei pantaloni (dove pure teneva il suo biglietto Napoli-Roma e ritorno) e nell’ammucchiarglieli in mano, tutti arraffati come cartaccia, si scusò con lei, vergognandosi, di non poterla pagare meglio. Ma poi, nel constatare che s’era fatto tardi, dovette richiederle indietro qualche spicciolo, necessario per il tram fino alla stazione. E simile richiesta lo fece arrossire mortificato, come una colpa difficile da perdonarsi; mentre Santina, a questo piccolo scambio, pareva quasi scusarsi a sua volta, nello stupore dei suoi occhi ubbidienti, poiché invero i soldi ricevuti da lui (per quanto pochi) erano più che il doppio della sua tariffa solita.

A ogni modo, lui s’affrettò a farle sapere che, dopo la liberazione del Nord, avrebbe avuto più soldi di adesso, per cui potrebbe pagarla meglio assai. Frattanto, magari coi pochi soldi che poteva rimediare per adesso, ogni volta che capitava a Roma sarebbe tornato a cercarla.

Essa lo accompagnò alla fermata del tram, nel dubbio che, poco pratico del quartiere, ci si sperdesse. Poi, col peso del suo corpo strapazzato e paziente, tornò su dai Marrocco; mentre lui, sballottato nella calca della vettura, ci si faceva largo a furia di spintoni, irrequieto come un lottatore senza stile.

 

* * *

 

La riapparizione di Carlo-Davide, come una staffetta, precedette di poco quella di Nino. Appena due giorni dopo, sul primo dopopranzo, Ninnarieddu si presentò a sua volta in casa Marrocco; e la sua visita fu l’opposto di quella di Davide, sebbene altrettanto breve.

Siccome sull’uscio di casa c’era la targhetta MARROCCO, lui, prima ancora di bussare, chiamò con esaltazione: «Useppe! Useppe!!» Volle il caso però che Useppe, vista la giornata bellissima di sole, fosse uscito a spasso con Annita: e al saperlo Nino rimase male, tanto più che poteva trattenersi poco. Aveva portato al fratelluccio varie tavolette di cioccolata americana, e le mise là sulla mensola con una espressione contrariata. Allora Filomena spedì subito in fretta la piccinina a reperire i due, che del resto non dovevano essere andati lontano: probabilmente s’erano fermati ai giardinetti di Piazza Santa Maria Liberatrice. Però, dopo una sparizione velocissima dabbasso, la piccinina ricomparve in volata, così di prescia che pareva si mangiasse i respiri: aveva cercato i due ai giardinetti e in piazza, ma senza trovarli. Essa, invero, s’era adattata a malincuore alla commissione, ansiosa di non perdere nemmeno una scintilla di quel nuovo ospite così abbagliante. Mai, se non forse fra gli eroi del cinema, aveva veduto un tipo altrettanto strepitoso.

Era riccetto, alto, ben fatto, abbronzato di sole, ardito, elegante, tutto vestito all’americana. Aveva un giubbetto di cuoio all’americana, corto alla vita, con una camicia e pantaloni da civile, però di tela militare americana. I pantaloni bene stirati, chiusi da una magnifica cintura di cuoio e stretti di gamba, gli terminavano in certi stivaletti di pelle cruda, di quelli arroganti, del tipo che si vede nei western. E dalla camicia aperta gli si vedeva ballare sul petto una catenina d’oro, con appeso un cuoricino d’oro.

L’epopea delle sue prodezze, ormai leggendaria in famiglia, gli passava e ripassava dentro gli occhi, in figurine mobili e impunite. E perfino nelle mani, gli si indovinava lo sconquasso e lo sbaraglio: tanto che al suo casuale avvicinarsi, la piccinina pronta si buttava un po’ indietro ridendo con la tremarella, avendo l’aria di invocare: «Aiuto! aiuto! questo mi mena!»

E tuttavia, gli si fece davanti, in aria di impertinenza e perfino di sfida, per farsi mostrare da vicino un grosso anello d’argentone che lui portava alla mano. Sul castone c’erano incise le lettere A. M. (Antonino Mancuso): «Sono», lui le spiegò, «le mie iniziali». Essa si sprofondò nella contemplazione dell’anello, con l’importanza di un conoscitore che esamina il tesoro del Gran Khan. Ma d’un tratto se ne fuggì dall’altra parte della tavola, ridendo all’impazzata per la propria audacia senza nome, che addirittura le spezzava il cuore.

Delle sue grandi azioni di guerra, e delle avventure degli ultimi mesi, lui non ebbe tempo di discorrere. Ma si capiva, del resto, che per lui quelli erano già eventi antichi, ai quali riandava appena di volo, e distrattamente, troppo preso dall’oggi, e impaziente di correre al domani immediato. Quali fossero le occupazioni importanti che attualmente lo assorbivano, rimaneva un indovinello, anzi lui godeva, in proposito, a fare l’uomo del mistero.

Gli dispiacque sapere che Carlo-Davide era stato a cercarlo inutilmente; ma se ne rassegnò subito, con una scossa dei ricci, dicendo: «Lo rivedo a Napoli». E si spassò a raccontare barzellette, fischiò motivi di canzoni, e ogni momento sbottava a ridere come un fringuello. Tutti erano eccitati dalla sua presenza festosa.

Invero, attualmente, che mangiava e beveva a volontà, e con la libertà di fare quello che gli pareva, Ninnuzzu era proprio in fiore; e in questa presente stagione della sua fioritura il suo gusto più forte era di piacere a tutti. Fosse pure lo spazzaturaio, la suora questuante, la cocomerara, il poliziotto, il postino, il gatto: pure a loro. Una mosca, perfino, se andava a posarsi addosso a lui, forse gli voleva dire. «Mi piaci». E siccome gli piaceva tanto di piacere, era sempre ardente, indiavolato e pazziante come se giocasse con un pallone iridato. Lui lo lanciava, e gli altri lo acchiappavano e glielo rilanciavano; e lui faceva un salto e lo riprendeva. Ora, l’eccesso di esibizionismo, in questa sua partita, era fatale; però ci si affacciava ogni tanto una specie di domanda ingenua, trepida e propiziatoria. La seguente (più o meno): «Insomma, vi piaccio? sì o no? Ah, dite di sì, mi piace troppo di piacervi…» e qui nei suoi occhi, nella sua bocca aggressiva e capricciosa, spuntava l’ombra di una minaccia: «Se mi dite di no, mi straziate. Voglio piacervi. Sarebbe una carognata, straziare un ragazzo a questo modo…»

Questa nota gli faceva perdonare ogni vanità, e nessuno gli resisteva. Perfino lo strillone di giornali (il quale verso quest’ora capitava sempre dai Marrocco, a farsi un bicchiere di vino in compagnia) di punto in bianco batté un pugno sulla tavola, e disse a Ida, con voce quasi tonante: «Sto fìo vostro, a’ signò, è proprio gaiardo!!» E una cliente vecchietta d’una settantina d’anni, che era venuta in prova della sua nuova giacchetta, si sedette là apposta per goderselo, e sussurrò in un orecchio alla madre: «Io, signora mia, me lo magnerebbe de baci!»

La stessa Ida, che pure ce l’aveva sempre con lui per vari motivi, ogni tanto rompeva in un piccolo riso brillante, che voleva far notare: «l’ho fatto io, costui! son io, che l’ho fatto!»

Lì per lì, raccontando che aveva passato l’estate a ballare, voleva insegnare alle donne presenti certi balli nuovi; tanto che la piccinina, dalla gran paura che lui l’abbracciasse, per poco non si buttò sotto la tavola. Senonché lui per fortuna scordandosi di ballare si accese una sigaretta con un accendino americano (o inglese) che lui chiamava il cannone. E per l’occasione offerse da fumare a tutti quanti, porgendo all’uno e all’altro, compresa la vecchietta, il proprio pacchetto di americane Lucky Strike. Ma siccome dei presenti il solo che fumasse era lo strillone di giornali, regalò a costui il pacchetto intero, salvo una sigaretta sola che si tenne di riserva, infilandosela ostentatamente sull’orecchio. E qui, per fare il buffo, si mise a imitare le pose d’un mafioso.

Frattanto, ogni due minuti si dava a borbottare per l’assenza di Useppe, finché dichiarò corrucciato che non poteva aspettarlo di più. Si vedeva chiaro che il motivo più importante della sua venuta era stato di sorprendere il fratelluccio, e consegnargli la cioccolata americana; e ci s’arrabbiava sul serio e ne spasimava, per questo suo progetto sfumato. «Ritorno giù in piazza a vedere?» gli si offrì presto presto la piccinina, nella speranza di trattenerlo ancora.

«No, è tardi oramai. Non posso tardare più», rispose con l’occhio all’orologio.

E dopo aver salutato tutti, si mosse per andarsene; quando gli passò per la testa un ripensamento. Allora sbuffò, mezzo imbronciato, e con due passi di corsa verso sua madre, grandiosamente le mise innanzi in regalo una manata di am-lire. Lei rimase talmente intontita da questo fatto senza precedenti, che nemmeno lo ringraziò. Invece, lo richiamò che già stava sulla porta, avendo prima dimenticato di farsi ridire (allo scopo di evitare malintesi) il nuovo nome e cognome di Carlo Vivaldi, da lei non bene imparato quell’altro giorno.

«DAVIDE SEGRE! So’ nomi de giudio», lui spiegò. E aggiunse, in tono fiero e compiaciuto:

«Io ce lo sapevo da un pezzo che lui era giudio».

Qui, in un lampo, qualcosa di buffo e di curioso gli si riaffacciò al pensiero, arrestandolo sulla porta e stuzzicandolo, con l’ansia di una comunicazione indifferibile: al punto che, pur nella sua fretta di partire, corse indietro quasi zompando: «A’ mà, te devo dì una cosa», proferì sogguardando Ida con divertimento, «però è riservata. Te la devo dì da solo a solo».

Che cosa mai poteva essere?! Ida non sapeva che diavolo aspettarsi da lui. Se lo portò nella cameretta, richiudendone l’uscio. Lui la trasse in disparte nell’angolo, bollendo d’impazienza strepitosa:

«Lo sai che m’hanno detto, a’ mà?!»

«?…»

«Che tu SEI GIUDIA».

«…Chi te l’ha detto!»

«Eh, da mò che ce lo sapevo, a’ mà! Quarcheduno qua de Roma, me l’ha detto. Ma io, chi è, non te lo dico».

«Però non è vero! Non è vero!!»

«…A’ mà!! che stiamo ancora ai tempi de Ponzio Pilato? Che fa, se sei giudia?» Ci pensò un istante, e poi soggiunse:

«Pure Carlo Marx era giudio».

«…» Ida, senza fiato, tremava come una fettuccia al vento.

…«E papà? lui che era?»

«No. Lui no».

Su questo, Ninnarieddu stette un poco a riflettere, tuttavia senza troppa applicazione: «Le femmine», osservò, «nun se vede, quanno so’ giudie. E invece ai maschi je se vede, perché da regazzini je sgusciano la punta dell’uccello». Allora concluse, nel modo di una constatazione indifferente:

«Io, nun so’ giudio. E nemmanco Useppe».

E senz’altri ritardi, se ne scappò. Di lì a poco, la vecchietta si congedò a sua volta, mentre lo strillone fumava contento le proprie Lucky Strike. La macchina da cucire, azionata dalla piccinina, riprese a battere con fracasso peggiore del solito; e Filomena si rimise a segnare col gesso una pezza di lana marrone spiegata sulla tavola.

Un quarto d’ora dopo, rincasarono Annita e Useppe. Erano stati a guardare la giostra in Piazza dell’Emporio e sulla via del ritorno Annita aveva fatto acquisto, per Useppe, di un cono gelato, che lui stava leccando ancora quando entrarono. Ida, dopo il dialogo con Ninnarieddu, era rimasta in camera; e la piccinina, che oggi non aveva più voglia nemmeno di cantare gioia tormendo, al loro entrare alzò dalla macchina due occhietti lunghi e intristiti, e annunciò subito a Useppe:

«C’è stato tuo fratello».

Perplesso, Useppe seguitò meccanicamente a leccare il suo cono, senza però già più avvertirne il sapore. «Tuo fratello! Nino! è stato qua!» ripeté la piccinina. Useppe smise di leccare il cono:

«…E adesso dov’è andato?!…»

«Teneva prescia. Se n’è ito via…»

Useppe corse alla finestra sulla strada. Ci si vedeva passare solo una camionetta stracarica di gente, poi il carretto del gelataio, un gruppetto di militari alleati con le loro segnorine, un gobbetto anziano, tre o quattro ragazzini con un pallone, e nessun altro. Useppe si rivoltò in fretta verso la stanza:

«Ci scegno giù… a chiamarlo… mò… ci àndo io…» dichiarò con pretesa disperata. «E dove lo richiami, a’ maschié! a quest’ora quello sta già a Napoli!» lo ammonì, fumando, lo strillone di giornali.

Useppe girò intorno un’occhiata persa e irrimediabile. D’un tratto la sua faccina parve tutta acciaccata, e incominciò a tremargli il mento.

«Guarda che t’ha portato! la cioccolata americana!» gli disse lo strillone per consolarlo. E Filomena, pigliate le tavolette di sulla mensola, gliele mise tutte quante in braccio. Lui le strinse a sé con una espressione di gelosia quasi minacciosa, però non le guardò neppure. I suoi occhi, dalla tristezza, s’erano fatti smisurati. Aveva uno sbaffo di crema sul mento, e stringeva tuttora fra le dita sporche il cono gelato, che frattanto gli s’era sciolto in mano.

«Ha detto che torna presto, è vero, mà? ha detto accussì, che presto ritorna?» si rivolse, strizzandole un occhio di nascosto, Annita a Filomena.

«Già già. È sicuro. Ha detto che Sabato questo, o al più tardi Domenica, lui ristà qua».

 

* * *

 

E invece lo spensierato Ninnarieddu si fece rivedere, nientemeno, soltanto al mese di marzo dell’anno seguente. In tutto questo intervallo, da lui non si ebbe neppure una cartolina. Il compagno Remo, nuovamente consultato da Ida, disse che dopo il loro famoso incontro del giugno lui non l’aveva rivisto mai più: secondo lui, si poteva supporre che fosse tornato a combattere coi partigiani del settentrione, forse nelle brigate d’assalto Garibaldi… Però, in seguito, attraverso Davide, che ogni tanto ritornava a visitarla, Santina apprese che Ninnuzzu, invece, s’era mischiato a certi Napoletani, e con loro scorrazzava in camion per tutta l’Italia liberata, facendo il contrabbando delle merci. In diverse occasioni, era stato anche a Roma, però sempre di corsa e, per così dire, in incognito. Più di questo, Santina non seppe riferire da parte di Davide, il quale, adesso, invero, con lei s’era fatto meno taciturno; anzi, talvolta si abbandonava a discorrere, nel loro terraneo, specie se aveva bevuto.

E fra i suoi vari soggetti, uno dei più fervorosi era Nino. Ma Santina non capiva quasi niente dei discorsi di Davide, sebbene, con la sua solita pazienza sottomessa, fosse capace di starlo a sentire in silenzio anche per un’ora intera. Davide, per lei, rimaneva un tipo oscuro, irregolare e inesplicabile: quasi un genere esotico come i marocchini o gli indiani. E riguardo a Nino, lei questo prode famoso non lo aveva mai visto di persona, non essendocisi trovata quel giorno della sua visita in casa Marrocco. Tutti i commentarii che ne sentiva dagli altri, potevano lasciarla meravigliata, ma senza curiosità. E nella sua fantasia povera e tarda, essa arrivava a ritenerne, al massimo, le poche notizie pratiche sostanziali.

Non appena si metteva a parlare di Nino, Davide si schiariva in faccia, come un ragazzetto costretto a una lunga clausura da chi sa quali còmpiti astrusi, quando a un tratto gli aprono l’uscio e può tornare a correre. E come se raccontasse di un Vesuvio o di un torrente, che non vanno giudicati per quello che fanno, mai criticava le azioni di Nino, anzi le vantava col massimo rispetto, mostrando, a volte, una parzialità lampante nei confronti del suo amico. Ma da questa sua propria parzialità, libera e spontanea (come dovuta ai meriti superiori di Asso), pareva sempre venirgli un piacere innocente, e una specie di consolazione.

Secondo Davide, il compagno Remo non capiva affatto Ninnarieddu, se aveva potuto immaginarselo a fare il partigiano nel Nord. I partigiani nel Nord erano organizzati come un esercito, e questa cosa già dal principio (fino dall’estate del ’43) aveva fatto arrabbiare Nino, il quale aveva in antipatia gli ufficiali e i galloni, non rispettando né le gerarchie, né le istituzioni, né le leggi; e se adesso s’era dato al contrabbando, non era per il guadagno, ma per l’illegalità! Difatti, Nino, più cresceva, e meno s’adattava al Potere; e pure se, a momenti (per una qualche sua fatalità interna), gli si metteva addosso un certo fanatismo per il Potere, lui non tardava a rovesciarlo nell’estremo vilipendio: anzi, con doppio gusto. Nino era troppo intelligente per lasciarsi accecare da certe stelle false…

E a questo punto Davide, trascinato dall’argomento, si dava a ragionare a gran voce, con enfasi appassionata… Il Potere, spiegava a Santina, è degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per chi lo amministra! Il Potere è la lebbra del mondo! E la faccia umana, che guarda in alto e dovrebbe rispecchiare lo splendore dei cieli, tutte le facce umane invece dalla prima all’ultima sono deturpate da una simile fisionomia lebbrosa! Una pietra, un chilo di merda saranno sempre più rispettabili di un uomo, finché il genere umano sarà impestato dal Potere… Su questi toni si sfogava Davide, nella stanzuccia terranea di Santina, gesticolando con le braccia e con le gambe, in modo da smuovere e sventolare la coperta del letto. E Santina io stava a sentire, coi suoi occhioni aperti senza luce, come ascoltasse, in sogno, un pastore calmucco o beduino recitarle dei versi in lingua propria. Siccome Davide, coi suoi moti turbolenti, le prendeva quasi tutto il posto nel letto, il suo largo sedere le sporgeva a metà di fuori; e i suoi piedi coperti di geloni erano freddi sotto le calze, però essa evitava di tirare troppo a sé la coperta, per riguardo all’amante. Invero, nella stanzuccia, dove in estate si godeva un certo fresco piacevole, d’inverno l’umidità gocciava dai muri, come in fondo a una cantina.

Ma il freddo e l’acqua diaccia che procurano i geloni, la canicola che affatica e fa sudare, l’ospedale e la prigione, la guerra e i coprifuochi; gli alleati che pagano bene e il magnaccia giovane che la mena e le piglia tutti i guadagni; e questo bel ragazzo che si sbronza volentieri e parla e si sbraccia e dà calci: e nel letto la massacra, però è bravo, giacché poi le riversa ogni volta fino agli ultimi soldi delle sue tasche; tutti i beni e tutti i mali: la fame che fa cadere i denti, la bruttezza, lo sfruttamento, la ricchezza e la povertà, l’ignoranza e la stupidità… per Santina non sono né giustizia né ingiustizia. Sono semplici necessità infallibili delle quali non è data ragione. Essa le accetta perché succedono, e le subisce senza nessun sospetto, come una conseguenza naturale dell’esser nati.