9.

 

 

 

Stavolta, Ninnarieddu non mantenne la promessa. Doveva passare quasi un anno, prima che si facesse rivedere. A quella splendida mattinata di Useppe sui campi della guerriglia seguirono giornate fredde e piovose. Il borgo di Pietralata era una marana di fango.

Nello stanzone chiuso, il puzzo era terribile, anche perché le gemelline, a causa del freddo e della poca aria e del nutrimento malsano, s’erano ammalate di diarrea. Si erano sciupate, avevano perso il loro brio, e piangevano e si agitavano, magroline, nella loro sporcizia.

I Mille, infreddoliti, avevano rinunciato del tutto a spogliarsi. Dormivano tutti vestiti, e per di più, anche di giorno, passavano la massima parte del tempo avvoltolati nelle coperte sulle loro cucce, uno addosso all’altro. Maschi e femmine facevano l’amore a ogni ora della giornata, senza più curarsi di chi li guardava; e fra loro si sviluppavano intrighi, gelosie e scenate, alle quali prendevano parte anche i vecchi. La promiscuità li rendeva tutti rissosi: ai canti del grammofono si mischiavano di continuo le urla, gli insulti, le botte e i pianti delle donne e dei ragazzini. Vi furono pure dei vetri rotti, che vennero aggiustati alla meglio con carte incollate. La notte scendeva presto; in séguito a disordini nella città, i Tedeschi avevano anticipato il coprifuoco alle sette di sera. Alle biciclette era vietato di circolare dopo le cinque del pomeriggio, e i trasporti pubblici (invero già assai ridotti) cessavano alle sei.

Così, la sera, tutti erano incarcerati nello stanzone. Uno dei passatempi di quelle serate, era la caccia agli scarafaggi e ai topi. Una sera, un topo venne finito a calci da Domenico, sotto gli occhi di Useppe che gridava: «No! no!»

I topi, già in antico frequentatori di quello stanzone seminterrato, e incoraggiati a una nuova intraprendenza dopo la fuga di Rossella, adesso accorrevano più numerosi verso le provviste dei Mille, forse presaghi di un imminente abbandono della nave. Difatti i Mille, stufi di aspettare là dentro la famosa Liberazione che non arrivava mai, incominciarono a emigrare verso altri rifugi. La prima famiglia che se ne andò, fu quella di Salvatore, coi figli Currado, Impero, eccetera per effetto di una separazione rabbiosa seguìta a un litigio; ma presto lo stesso Salvatore invitò tutti i rimasti a dividere insieme una abitazione più bella, vuota e a basso prezzo, ottenuta da certi suoi conoscenti di Albano. Così anche Domenico e famiglia, con la nonna Dinda, e la sora Mercedes e Carulina e gli altri andarono a raggiungere il resto della tribù.

La mattina dell’addio rimane nella memoria sotto il segno di un disordine caotico. Carulina era nervosa fino a piangere, e correva di qua e di là, perché le due gemelline, a causa della diarrea peggiorata, si sporcavano di continuo. I loro pochi panni, che essa si ostinava a lavare e rilavare con ogni specie di sapone autarchico e di pessima polvere detersiva, non si asciugavano; e appesi alle corde dello stanzone, macchiati tuttavia di giallastro, piovevano la loro acqua sul pavimento, sulle provviste e sulle materasse arrotolate. Carulina veniva aggredita da ogni parte con rimbrotti e urla, e ricevette pure un manrovescio dalla cognata. Da qualche parte in lontananza arrivavano echi di bombardamenti; e le nonne, spaventate da quei tuoni, e riottose all’idea della partenza, invocavano il Papa, e i morti e i santoni del cielo con voci altissime, mentre Domenico bestemmiava. Mi risulta che a quel tempo la circolazione delle macchine private era sospesa; però a ogni modo i giovanotti dei Mille, grazie alle loro arti d’intrallazzo, erano riusciti a procurarsi un furgoncino Balilla, munito di tutti i permessi necessari, in aggiunta a un altro motoveicolo a tre ruote inviato da Salvatore. Ma purtroppo all’atto pratico questi mezzi di trasporto non bastavano a caricare la compagnia dei partenti e le loro proprietà (fra l’altro, i Mille avevano deciso di portarsi via anche le materasse, già prestate a suo tempo dall’ospedale a uso degli sfollati: giacché, pure nel trasferimento, essi rimanevano sempre, di diritto, sfollati)… E i preparativi d’imballaggio e di carico da ultimo si travolsero in un drammatico marasma. L’esasperato Domenico prese a calci i materassi che, usati come involti del pentolame e legati, avevano assunto dimensioni giganti; Peppe Terzo, Attilio e la loro madre proruppero in un coro di strilli. E allora il nonno più vecchio (sposo della nonna silenziosa) si mise a piangere come un pupo, supplicando che lo lasciassero qua a morire, anzi lo sotterrassero senz’altro qua stesso a Pietralata, magari affondandolo in qualche marana: «Interratemi», ripeteva, «interratemi, così stanotte dormo tranquillo in cìelo!» E la nonna sua moglie all’udirlo esclamava con voce acuta: «Gìesù! Gìesù!»

La meno agitata era la sora Mercedes, che fino all’ultimo istante restò seduta sul suo sgabelluccio con sulle ginocchia la coperta (di sotto la quale erano state rimosse le provviste) limitandosi a ripetere, in tono di cantilena: «E stàteve un po’ zitti, all’animaccia vostra!» mentre suo marito Giuseppe Primo, seduto vicino a lei con una specie di cuffia di lana in testa, si sfogava scatarrando sul pavimento.

Fu deciso che una parte della compagnia, fra cui Carulina con le figlie, avrebbe raggiunto la nuova sede in tram. Prima dell’addio, Carulina lasciò in ricordo a Useppe il disco delle comiche, il quale, purtroppo, senza il grammofono (già riposto col carico dei bagagli) non poteva più suonare; ma del resto, per l’uso, già da tempo era ridotto a emettere solo dei raschi e dei singulti. Essa gli lasciò pure in regalo (ammiccandogli di nascosto per non farlo sapere a nessuno) un sacchetto dimenticato dalla parentela, contenente circa un chilo di cicerchi (legume di specie ibrida fra il fagiolo e il cece).

Alla partenza, nel cielo s’affacciava un sole incerto. In coda a tutti stava Carulina, preceduta di poco dalla cognata romana, la quale portava Celestina in braccio e sulla testa una valigia strapiena che non chiudeva; mentre Carulina portava in braccio Rusinella e sulla testa l’involto dei panni bagnati. Se non fosse per i pianti straziati che ne sortivano, difficilmente si poteva riconoscere che quei due fagotti, in braccio alle partenti, erano creature. Difatti Carulina, come rimedio estremo, aveva involtato le pupette in ogni sorta di stracceria disponibile: tenda già di Carlo Vivaldi, residui delle Dame Benefiche, e perfino cartaccia; per la vergogna che, sul tram dei Castelli, tutti i passeggeri potessero giudicare all’odore che le sue figlie erano sporche della diarrea.

Sollecitata dagli altri che la sopravanzavano, e si voltavano a richiamarla bruscamente, essa si affrettava a stento nella fanghiglia, sulle sue scarpette ancora estive ridotte a ciabatte. Le calze da donna smesse che portava, troppo grandi per il suo piede, le facevano delle borse sui calcagni, e per via del peso che la sbilanciava tutta da una parte, la sua camminata era più sbandata del solito. Per cappotto, aveva una specie di tre-quarti sbilenco, ricavato da una giacca del fratello Domenico; e sotto l’involto dei panni si vedeva la scrima precisa dei suoi capelli, divisi in due bande uguali fino alla nuca, con le due treccette sui lati tenute basse dal peso.

Prima di passare la curva del viottolo, si girò a salutare Useppe, con un sorriso della sua bocca grande voltata in su. Useppe stava fermo di qua dallo sterro a guardarla partire, e le rispose con quel suo saluto speciale che faceva in certi casi, a cuore contrario, aprendo e richiudendo il pugno lento lento.

Era serio, con appena un sorrisino incerto. In testa aveva un berrettino uso ciclista che lei stessa gli aveva rimediato; e addosso i soliti pantaloni alla Charlot, con gli stivali fantasia, e l’impermeabile, lungo fino ai piedi, che gli si apriva nel saluto, mostrando la fodera rossa.

Qualche mese dopo, un terribile bombardamento sui Castelli distrusse in gran parte la città di Albano, e Ida alla notizia ripensò ai Mille, se per caso la loro tribù non fosse tutta sterminata. Invece, erano incolumi. Nell’estate seguente, capitò che Nino, a Napoli, nei corso di certi suoi affari, si rincontrasse con Salvatore, che per l’occasione se lo portò in visita a casa sua. Abitavano in un avanzo di palazzo semidistrutto dalle incursioni, in un locale al piano nobile a cui presentemente - siccome la scala era crollata - si accedeva dalla finestra per una sorta di ponte levatoio fatto di tavole. E ci stava pure Carulina, che, secondo la logica naturale della sorte, s’era messa a fare le marchette con gli alleati. Cresciuta un poco di statura, essa era più magrolina ancora che a Pietralata, così che nella faccia rimpicciolita gli occhi, impiastricciati di rimmel, sembravano assai più grandi. La bocca poi, già troppo larga per natura, tinta di rossetto si mostrava allargata al doppio. E la camminata delle sue gambe smilze smilze, sui tacchi alti risultava più scombinata che mai. Però il suo modo di guardare, e il fare, e la parlata, non s’erano cambiati per niente.

Delle gemelle non si scorgeva nessuna traccia, e Ninnuzzu non si curò di chiederne notizia. Nel breve corso della sua visita arrivò un militare afroamericano, amante di Carulina, il quale era tutto contento preparandosi a ripartire per l’America il giorno dopo; e come regalo, su scelta di Carulina stessa, le portava una di quelle arcinote scatolette di Sorrento che suonano a carica, stonandola, un’arietta di canzone. Sul coperchio intarsiato della scatola c’era una bamboletta di celluloide, vestita con un bustino e un tutù di raion lilla: la quale, per via di un bastoncino che teneva infilato nel corpo, ogni volta che si dava la carica alla canzone faceva un giro in tondo sul coperchio. Carulina s’incantava di quel balletto a suon di musica; e non appena cessava la carica del congegno, immediatamente lo ricaricava, con una importanza ansiosa di proprietaria. Là presente, insieme all’altra nonna e ai due nonni mariti, c’era pure la nonna Dinda, la quale, per giustificare ai visitatori il fanatismo di Carulina, spiegò che questa era la prima bambola da lei posseduta mai nella vita. Frattanto, la medesima nonna Dinda ricantava con le parole l’arietta antica della scatola, accompagnandosi con delle mosse di un genere café-chantant. Come trattamento agli ospiti, furono offerti whisky e patatine fritte.

Però Ninnuzzu non si ricordò mai, dopo, di riferire questo incontro a Ida: la quale, certo, vista la grandezza e la folla smisurata di Napoli, non pensava a chiedergli se avesse incontrato qualcuno dei Mille dentro a quell’enormità. E così, Ida rimase per sempre nel dubbio che i Mille fossero tutti sepolti sotto le macerie di Albano.

 

* * *

 

Dopo che gli ultimi Mille ebbero svoltato la curva, Useppe, rientrando, trovò che lo stanzone era diventato immenso. I suoi passetti ci rimbombavano; e quando lui chiamò «Mà!» e Ida gli rispose «Eh?» le loro due voci avevano altre note da prima. Tutto era immobile, fra le cartacce e i rifiuti sparsi in terra non si affacciava, in quell’ora, nemmeno uno scarafaggio o un topo. In fondo all’angolo ottuso, i vetri del bicchierino dei morti, rotto nel subbuglio, giacevano in terra vicino allo stoppino unto e a un po’ d’olio rovesciato. Nel mezzo del locale, c’era rimasta una cassa da imballaggio, servita già da culla alle gemelline, con dentro uno strato di giornali vecchi tutti sporchi delle loro feci. Nell’angolo di Eppetondo, rimaneva tuttora il suo materasso arrotolato; e nell’angolo vicino alla porta, da dove la tenda di stracci era stata strappata via per involtare meglio Rosa e Celeste, c’era sempre il pagliericcio, ancora macchiato di sangue dal parto di Rossella.

Ida s’era distesa sul proprio materasso, per un breve intervallo di riposo. Ma il suo organismo doveva essersi assuefatto al frastuono come a un vizio, giacché il silenzio incredibile, che d’un tratto era sceso sullo stanzone, acuiva la tensione dei suoi nervi invece di calmarla. Aveva ripreso a piovere. Né dalla città né dalla borgata non arrivava nessun segno di altre esistenze. E il fruscio della pioggia, con l’eco ritornante di bombardamenti lontani, ingrandiva il silenzio intorno a quel camerone mezzo interrato nel fango dov’erano rimasti soli lei e Useppe. Ida si domandava se Useppe si rendesse conto che la partenza dei Mille era definitiva. Sentiva i suoi passetti percorrere lentamente il locale, tutto in giro, come per una ispezione, poi d’un tratto quella lentezza del suo passo si trasformò in una fretta eccitata, finché preso da una frenesia si mise a correre. C’era là in terra una pallaccia di pezza che nei giorni di bel tempo era servita agli altri ragazzini più cresciuti per imitare i giocatori di football sul prato all’aperto. E lui, per imitare a sua volta i ragazzini, si mise a calciarla con accanimento, ma non c’erano squadre, né arbitro, né portiere. Allora si slanciò invasato su per la catasta di banchi, e ne balzò giù con uno dei suoi soliti voli.

Al tonfo leggero dei suoi piedi stivalati seguì un silenzio totale. Di lì a poco, affacciandosi da dietro la tenda, Ida lo vide seduto come un emigrante sopra un sacchetto di sabbia, che esaminava il disco lasciatogli da Carulina sfiorandone col dito i solchi all’intorno. I suoi occhi si levarono, gravi e sperduti, al movimento di Ida. E col suo disco accorse a lei:

«A’ mà! sònalo!»

«Non si può suonare, così. Per suonarlo, ci vuole il fonografo».

«Pecché?»

«Perché un disco non suona, senza il fonografo».

«Senza il nononògafo non sòna…»

La pioggia cadeva più fitta. Nell’aria, un sibilo, come di sirena, fece sussultare Ida. Ma probabilmente non era che un camion, di passaggio sulla via dei Monti. Sùbito cessò. Calava il buio. Lo stanzone abbandonato, freddo, pieno d’immondezza, pareva isolato in uno spazio irreale, di qua da una frontiera assediata.

Nell’attesa che spiovesse un poco, Ida cercò un passatempo da intrattenere Useppe. E per la millesima volta, gli ricantò la storia della navi

 

«E volta la navi e gira la navi…

…Tre leuni e tre barcuni…»

 

«Ancora», le disse Useppe quando ebbe finito. Gliela raccontò un’altra volta.

«Ancora», disse Useppe. E intanto con un sorrisetto allusivo, annunciatore di una sorpresa che certo la troverebbe incredula, le svelò:

«A’ mà, io l’ho visto, il mare!»

Era la prima volta che, in qualche modo, accennava alla propria avventura nei campi della guerriglia. Per solito, anche interrogato, teneva la bocca chiusa, mantenendo una segretezza doverosa sull’argomento. Però stavolta Ida interpretò la sua frase oscura come una semplice fantasia e non gli domandò altro.

 

«E volta la navi e gira la navi…»

 

Per un certo intervallo, in quel mese di novembre, loro due rimasero i soli occupanti dello stanzone. Le scuole, benché con ritardo, s’erano riaperte; però la scuola di Ida era stata requisita dalle truppe, e le sue classi erano state trasferite ad altra sede, ancora più fuorimano della precedente (con orario di lezioni pomeridiano per via dei turni) e in pratica irraggiungibile per lei nell’attuale scarsità dei trasporti e orario del coprifuoco. Così che Ida, in grazia della sua condizione di sinistrata, ottenne licenza temporanea dalle lezioni. Essa era tuttavia costretta a uscire ogni giorno fuori di casa, per la solita caccia ai viveri; e specie nei giorni di maltempo non aveva altro rimedio che lasciare Useppe solo, a guardia di se stesso, chiudendolo a chiave dentro lo stanzone. Fu allora che Useppe imparò a passare il tempo pensando. Si metteva i due pugni sulla fronte, e cominciava a pensare. A che cosa pensasse, non è dato saperlo; e si trattava, probabilmente, di futilità imponderabili. Ma è un fatto che, mentre lui stava così a pensare, il tempo comune degli altri per lui si riduceva quasi a zero. Esiste nell’Asia un piccolo essere detto panda minore, di un aspetto fra lo scoiattolo e l’orsacchiotto, il quale vive sugli alberi in boschi di montagna irraggiungibili; e ogni tanto scende in terra in cerca di germogli da mangiare. Di uno di questi panda minori si diceva che trascorresse dei millennii a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra ogni 300 anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passati 300 anni, sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci minuti.

Quelle ore solitarie di Useppe furono, seppure raramente, interrotte da qualche visita inaspettata. Un giorno fu un gatto striato, così magro da sembrare un fantasma di gatto, il quale tuttavia, con la forza della disperazione, riuscì a sfondare la carta che sostituiva il vetro della finestra, e a penetrare nello stanzone in cerca di cibo. Naturalmente, i topi, al suo arrivo, evitarono d’affacciarsi; e Useppe non aveva altro da offrirgli che un avanzo di cavoli bolliti. Ma colui, per quella particolare superbia aristocratica che i gatti conservano pure decaduti, annusò l’offerta e, senza degnarsi di assaggiarla, se ne andò a coda ritta.

Quello stesso giorno, arrivarono tre militari tedeschi: evidentemente, come già altre volte, semplici soldati qualsiasi (né Polizei, né S.S.) senza malvage intenzioni. Però secondo l’usanza comune delle truppe germane, in luogo di bussare picchiarono violentemente all’uscio coi calci dei loro fucili. E siccome Useppe, essendo rinchiuso dentro a chiave non poteva aprire l’uscio, strapparono del tutto la carta della finestra già sfondata pocanzi dal gatto, esplorando con gli occhi l’interno, in lungo e in largo. Useppe si era fatto incontro a loro sotto la finestra, contento di ricevere una visita, di chiunque fosse; e loro, non vedendo altri che lui nel locale, gli si rivolsero nella loro lingua. Che diavolo cercassero, non si sa: e Useppe, non intendendo le loro parole ostrogote, ma supponendo che pure loro come il gatto cercassero da mangiare, si provò a offrirgli quello stesso resto di cavoli. Però anche loro, come già il gatto, rifiutarono l’offerta; e anzi, a loro volta, ridendo, offersero a Useppe una caramellina. Purtroppo si trattava, però, di una caramella di menta: un sapore che non piaceva a Useppe, il quale subito la sputò; e doverosamente, dopo averla sputata, fece per restituirla al donatore, dicendogli con un sorriso:

«Tiè!» Al che coloro, sempre più ridendo, se ne riandarono via.

Il terzo visitatore inaspettato fu Eppetondo, che disponeva di una chiave, e poté quindi entrare nello stanzone. In luogo del cappello di una volta, si era procurato una scoppoletta del tipo gangster americano per difendersi la testa dal freddo. E sempre era allegro come al solito, per quanto nel braccio, in seguito alla frattura ingessata e guarita l’estate scorsa, gli si fosse sviluppata un’artrosi. Lui però non voleva far sapere a nessuno che il braccio gli faceva male, per timore di venire licenziato dai partigiani come stroppiato e vecchiarello. E se ne confidò con Useppe. Inoltre, gli portò notizie del campo, come se parlasse, oramai, con un compagno guerrigliero. Tutti i compagni stavano bene; e avevano compiuto nuove imprese grandiose. Una notte, la Libera e altre squadre avevano sparso di chiodi a quattro punte le vie di accesso a Roma, d’accordo con l’aviazione inglese: la quale, sopravvenendo a tempo sugli automezzi tedeschi bloccati, ne aveva fatto strage con raffiche di mitraglia, bombe e spezzoni incendiari, così che le grandi vie romane consolari erano tutta una baldoria sanguinosa. E un’altra notte Asso, con alcuni compagni, dopo varie azioni minori di sabotaggio stradale, avevano fatto saltare con la dinamite un intero treno di militari germanici, che in un attimo era esploso in un finimondo di fiamme e di ferraglie.

La Libera aveva lasciato la capanna, trasferendo la base altrove, dentro una casetta in muratura. Asso, e Quattro, e Tarzan eccetera mandavano a Useppe saluti e bacetti. A dispetto del maltempo e del freddo, che facevano assai più dura la vita alla macchia, tutti stavano di buonumore e in ottima forma, con l’unica eccezione di Piotr, il quale, dopo i primi giorni di partecipazione ardente, era caduto in una specie di abulia, non faceva nulla, e passava il tempo a ubriacarsi. Invero, il compagno Piotr come guerrigliero da qualche tempo si era reso inservibile: tanto che gli altri discutevano fra loro se non fosse il caso di rimandarlo a spasso, o addirittura di liquidarlo sparandogli un colpo alla testa. Ma invece seguitavano a tollerarlo: primo, perché contavano che passato quel periodo brutto ritornerebbe bravo come all’inizio; secondo, per le sue circostanze amare di giudio; e terzo, per l’amicizia di Asso, il quale gli portava sempre grande fiducia e rispetto, e lo difendeva fieramente contro l’ostilità sorda degli altri compagni, stimandolo un prode.

Per quanto poco ne capisse, Useppe stette a sentire tutte queste notizie epiche col medesimo fervore intento di quando ascoltava la cantata della navi; e anzi, alla fine del resoconto di Mosca, gli disse: «ancora!», ma senza esito. Purtroppo, il motivo principale della visita di Eppetondo si risolse, per costui, in una frustrazione acerba. Era venuto, difatti, con l’idea di portare al campo le ultime provviste di scatolette da lui lasciate nello stanzone: sardine, cozze e calamaretti in conserva, ma constatò che tutto era stato portato via, e delle sue proprietà gli erano stati lasciati solo il materasso e la gabbia vuota. Tutto il resto, chiaramente, era partito insieme ai Mille; e avventandosi contro costoro con diversi insulti, dei quali i meno irripetibili erano «fii de mignotta» e «zozzoni», Eppetondo prese l’iniziativa di stendere il proprio materasso su quello di Ida, così che almeno qualcuno se lo godesse, dato che lui, come partigiano, dormiva comodissimo sulla paglia. Del resto, lo stanzone era ancora meno comfort della casetta-base della Libera, dove almeno qualche fuoco di legna si rimediava sempre. Dentro lo stanzone, invece, non c’era mezzo di riscaldare, si battevano i denti, l’umidità faceva delle macchie sui muri, e Useppe, piuttosto palliduccio e smunto, girava avvolto in tante vecchie lanerie di scarto (già Dame Benefiche) da parere un fagottello ambulante. «Così adesso almeno dormirai su due materassi», gli disse Eppetondo al momento di salutarlo, «e bada, non fartelo portare via questo qua, eh! che è di lana, e stà attento pure che non se lo mangino i sorci!» La gabbia vuota, rimase nell’angolo acuto per ricordo.

Una visita frequente, in quei giorni solitari di Useppe, erano i passeri, che venivano a saltellare e chiacchierare sulla finestra inferriata. E siccome la sua specialità di comprendere la lingua degli animali gli capitava solo in certe giornate, Useppe in quelle loro chiacchiere non ci capiva niente altro che il regolare cip cip cip. Tuttavia non gli era difficile capire che anche questi visitatori cercavano una merenda. Ma purtroppo la razione di pane della tessera era così scarsa, che difficilmente si poteva rimediare qualche briciola in avanzo da offrire a questi altri mortidefame.