3.

 

 

 

Il suo addio con Blitz era stato un crepacuore, nonostante le sue assicurazioni di tornare al più tardi fra una settimana, alla testa di un manipolo motorizzato carico di trippe e d’ossa per tutti i cani di Roma. Blitz non era credulo come Useppe; e giudicando, senz’altro, quelle assicurazioni come dei prodotti d’impostura e megalomania, rimase inconsolabile. Per tutto un giorno, rifiutando perfino di mangiare il suo rancio quotidiano malrimediato, non cessò di correre dalla porta alla finestra, gridando a Nino di tornare indietro, per quanto sapesse in fondo che Nino, oramai, stava troppo lontano per ascoltarlo. E se vedeva, dall’alto, una sagoma di ragazzetto più o meno del tipo Nino, guaiva di amara nostalgia.

Alla sera di quel giorno, Ida, frastornata, lo chiuse a dormire nel cesso; ma siccome lui, di là dentro, non cessava di gemere raspando all’uscio, Useppe a sua volta rifiutò di coricarsi, deciso a dormire lui pure nel cesso piuttosto che lasciarlo là solo. E infine, gli fu dato rifugio nel lettino di Useppe: dove lui, nella esuberanza della sua gratitudine-gioia-afflizione, leccò il nudo Useppe dalla testa ai piedi prima di addormentarsi fra le sue braccia.

Due giorni dopo, 10 luglio, gli alleati sbarcarono in Sicilia. La sirena, adesso, suonava tutte le notti, e Useppe, ogni sera, metteva sotto il proprio cuscino il guinzaglio di Blitz, il quale, prima ancora che la sirena suonasse, ne dava avviso alla famiglia con un abbaio discreto.

Blitz non si staccava mai da loro due, fuorché nell’ora della spesa. Essendo la stagione delle vacanze, Ida usciva per le compere alla mattina verso le dieci; e in quei giorni aveva preso l’usanza, quasi ogni volta, di portarsi dietro Useppe, lasciando a guardia della casa Blitz, il quale, durante le file, in coppia con Useppe sarebbe stato un doppio impiccio. Alla partenza, lui già sapeva che in simili occasioni non faceva parte della compagnia, e aggirandosi intorno a loro senza far festa, li guardava prepararsi a uscire con un’aria mortificata, e tuttavia rassegnata a questa sorte.

Al loro ritorno, fino dalla strada potevano sentirlo che li salutava a piena voce, di vedetta su presso la finestra aperta all’ultimo piano. E all’arrivo, lo trovavano in attesa dietro l’uscio, pronto a riceverli con effusioni scatenate, che si rivolgevano principalmente a Useppe, ripetendogli cento volte: «Oramai, l’ultimo bene mio sei tu!»

 

* * *

 

Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne stampato a colori, senza cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata stinta, dei calzoncini rimediati di cotone turchino, e due sandaletti di misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano teneva la sua famosa pallina Roma (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).

Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse: «Lioplani». E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti.

«Useppe! Useppeee!» urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: «Mà, sto qui», le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel cervello gli insegnamenti dell’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e del Capofabbricato: che, in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era incominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pàttini, su un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.

Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione.

Si trovavano in fondo a una specie di angusta trincea, protetta dall’alto, come da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità, sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso, nel quale, fra scrosci, scoppiettii vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. «Non è niente», essa gli disse, «non aver paura. Non è niente». Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena appena tremare:

«Nente…» diceva poi, fra persuaso e interrogativo.

I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile.

Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.

Nello spazio attorno al cavallo, si scorgevano altre corone, altri fiori, ali di gesso, teste e membra di statue mutilate. Davanti alle botteghe funebri, rotte e svuotate, di là intorno, il terreno era tutto coperto di vetri. Dal prossimo cimitero, veniva un odore molle, zuccheroso e stantio; e se ne intravedevano, di là dalle muraglie sbrecciate, i cipressi neri e contorti. Intanto, altra gente era riapparsa, crescendo in una folla che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi si sangue. Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: «anche là brucia!» «dov’è l’ambulanza?!» Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte di sordomuti. La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: «Mà, quando torniamo a casa?» La sporta gli calava giù sugli occhietti, e lui fremeva, adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso: «mà?… casa?…» seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto, il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare:

«Bii! Biii! Biiii!!»

Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva, fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:

«Biii! Biiii! Biiiii!»

Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e la cassapanca, e i libri squinternati di Ninnuzzu, e il suo ritratto a ingrandimento, e le pentole di cucina, e il tessilsacco coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno, e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.

«Andiamo via! andiamo via!» disse Ida, tentando di sollevare Useppe fra le braccia. Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva il suo grido: «Biii!» con una pretesa sempre più urgente e perentoria. Forse reputava che, incitato a questo modo, per forza Blitz dovesse rispuntare scodinzolando di dietro qualche cantone, da un momento all’altro.

E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica e buffa sillaba, con voce convulsa per i singulti. «Andiamo, andiamo via», reiterava Ida. Ma veramente non sapeva più dove andare. L’unico asilo che le si presentò fu l’osteria, dove già si trovava raccolta parecchia gente, così che non c’era posto da sedersi. Però una donna anziana, vedendola entrare col bambino in braccio, e riconoscendoli, all’aspetto, per sinistrati, invitò i propri vicini a restringersi, e le fece posto accanto a sé su una panca.

Ida affannava, lacera, con le gambe graffiate, e imbrattata fin sulla faccia di un nerume unticcio, nel quale si distinguevano le ditate minuscole lasciàtele da Useppe nell’appendersi al suo collo. Appena la vide accomodata alla meglio sulla panca, la donna le domandò sollecita: «Siete di queste parti?» E all’annuire silenzioso di Ida, le fece sapere: «Io no: vengo da Mandela». Si trovava qui a Roma di passaggio, come ogni lunedì, per vendere i suoi prodotti: «Sono una rurale», precisò. Qui all’osteria doveva aspettare un suo nipote, il quale, come ogni lunedì, l’aveva accompagnata per aiutarla e al momento dell’attacco aereo si trovava in giro per la città, chi sa dove. Correva voce che per questo bombardamento ci s’erano impiegati diecimila apparecchi, e che l’intera città di Roma era distrutta: anche il Vaticano, anche Palazzo Reale, anche Piazza Vittorio e Campo dei Fiori. Tutto a fuoco.

«Chi sa dove si trova a quest’ora mio nipote? chi sa se ancora funziona il treno per Mandela?»

Era una donna sui settant’anni, ma ancora in salute, alta e grossa, con la carnagione rosata e due buccole nere agli orecchi. Teneva sui ginocchi una canestra vuota con dentro un cèrcine sciolto; e pareva disposta ad aspettare il nipote, là seduta con la sua canestra, magari per altri trecento anni, come il bramano della leggenda indù.

Vedendo la disperazione di Useppe che ancora andava chiamando il suo Bi con voce sempre più smorzata e fioca, tentò di divertirlo facendogli dondolare innanzi una crocetta di madreperla che portava al collo, appesa a un cordoncino:

«Bi bi bi pupé! Che dici, eh, che dici?»

Ida le spiegò a bassa voce in un balbettio che Blitz era il nome del cane, rimasto fra le macerie della loro casa.

«Ah, cristiani e bestie, crepare è tutta una sorte», osservò l’altra, muovendo appena la testa con placida rassegnazione. Poi rivolta a Useppe, piena di gravità matriarcale e senza smorfie, lo confortò col discorso seguente:

«Non piangere pupé, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella, e è volato in cielo».

Nel dirgli questo, essa mimò, con le due palme alzate, il bàttito di due ali. Useppe, che credeva a tutto, sospese il pianto, per seguire con interesse il piccolo movimento di quelle mani, che frattanto erano ridiscese sulla canestra, e là stavano, in riposo, con le loro cento rughe annerite dal terriccio.

«L’ali? pecché l’ali?»

«Perché è diventato una palombella bianca».

«Palommella bianca», assentì Useppe, esaminando attentamente la donna con gli occhi lagrimosi che già principiavano a sorridere, «e che fa, là, mò?»

«Vola, con tante altre palombelle».

«Quante?»

«Tante! tante!»

«Quante??»

«Trecentomila».

«Tentomila sono tante?»

«Eh! più d’un quintale!!»

«Sono tante! Sono tante! eh! Ma là, che fanno?»

«Volano, se la spassano. Beh».

«E le dòndini pure, ci stanno? E pure i vavalli, ci stanno?»

«Ci stanno».

«Pure i vavalli?»

«Pure i cavalli».

«E loro pure, ci volano?»

«E come, se ci volano!»

Useppe le volse un sorrisetto. Era tutto coperto di polvere nerastra e di sudore, da parere uno spazzacamino. I ciuffetti neri dei suoi capelli, tanto erano impastati, gli stavano dritti sulla testa. La donna, all’osservare che i suoi piedini facevano sangue da qualche graffio, autorevolmente chiamò un soldato entrato a cercare dell’acqua, e lo incaricò di medicarglieli. E lui subì la rapida medicazione senza neanche badarci; tanto era distratto dalla fortunata carriera di Blitz.

Quando il soldato finì di medicarlo, lui distrattamente gli fece addio con la mano. I suoi due pugnetti adesso erano vuoti: anche la pallina Roma s’era persa. Di lì a poco, nel suo abbigliamento lurido e calzoncini bagnati, Useppe dormiva. La vecchia di Mandela, da quel punto in poi, tacque.

Nella cantina, era incominciato un andirivieni di gente: il locale puzzava di folla e delle zaffate che venivano dall’esterno. Ma, al contrario che nelle notti degli allarmi, non c’era confusione, né urti, né vocio. La maggior parte dei presenti si guardavano in faccia inebetiti senza dire nulla. Molti avevano i vestiti a pezzi e bruciacchiati, certuni sanguinavano. Da qualche parte di fuori, fra un rumorio sterminato e incoerente, ogni tanto pareva di distinguere dei rantoli, oppure si levava d’un tratto qualche urlo feroce, come da una foresta in fiamme. Cominciavano a circolare le ambulanze, i carri dei pompieri, le truppe a piedi armate di badili e di picconi. Qualcuno aveva visto giungere anche un camion pieno di bare.

Fra i presenti, Ida non conosceva quasi nessuno. Attraverso i suoi pensieri, che giravano in un vaniloquio ozioso e sconclusionato, di tratto in tratto ripassavano le fisionomie di certi suoi vicini del palazzo che, nelle notti degli allarmi, accorrevano a rifugiarsi qua sotto con lei. In quelle notti, intontita dai sonniferi, essa li intravvedeva appena; e invece oggi il cervello glieli presentava, benché assenti, con la precisione di una fotografia. Il Messaggero, coi suoi tremori e la sua faccia imbambolata, portato dalle figlie come un burattino. Giustina la portiera dagli occhi presbiti, che infilava l’ago a distanza. L’impiegato del primo piano che diceva Salve e Prosit, e aveva allestito un orto di guerra nel cortile. Lo stagnaro, che somigliava all’attore Buster Keaton e soffriva di artrosi, e sua figlia, che attualmente vestiva la divisa di tranviera. Un apprendista elettrauto, amico di Ninnuzzu, che portava una maglietta con sopra stampato Gomme Pirelli. Proietti, l’imbianchino disoccupato che tuttavia teneva sempre in testa il suo cappelluccio da lavoro fatto di carta di giornale… Nell’incertezza attuale sulla loro sorte, queste fisionomie le si mostravano sospese in una terra di nessuno, da dove fra un attimo potevano ricomparire presenti in carne che si arrabattavano nel quartiere di San Lorenzo, disponibili al solito e a buon mercato; o da dove invece potevano essere già partite verso una lontananza irraggiungibile, come le stelle spente da millennii: irrecuperabili a nessun prezzo, più assai di un tesoro sprofondato nell’Oceano Indiano.

Fino a stamattina, nessuno, più del nano bastardo Blitz, stava a disposizione gratuita di qualsiasi chiamata, fosse pure dello scopino o dello stracciarolo. Lei stessa di lui non aveva mai fatto gran conto, tenendolo, anzi, per un intruso e un mangiatore a sbafo. E a quest’ora invece esso era così inaccessibile che nemmeno tutte le polizie del Reich potevano riacchiapparlo. Di lui, la prima cosa che tornava nel ricordo, dando una piccola trafittura speciale, era quella macchietta bianca stellata che aveva sulla pancia. Quell’unica eleganza della sua vita diventava anche la pietà suprema della sua morte.

Chi sa che avrebbe detto Nino, al non ritrovare più Blitz? Nella enorme lacerazione della terra, Nino era l’unico punto di tranquillità e di spensieratezza alla mente di Ida. Forse perché si assicura, in generale, che i farabutti si salvano sempre? Sebbene, dal giorno della sua partenza, lui non avesse più dato notizie, Ida si sentiva fulgidamente certa, come alla testimonianza di un angelo, che Nino tornerebbe sano e salvo dalla guerra, e, anzi, presto si farebbe rivedere.

Si affacciarono a dire che, fuori, la Croce Rossa distribuiva viveri e indumenti; e presto la vecchia di Mandela col suo bel passo giovanile un po’ dondolante, si mosse a provvedere qualcosa. Indumenti non riuscì a rimediarne; ma rimediò due buste di latte in polvere, una tavoletta di cioccolato autarchico e un’altra di marmellata compressa quasi nera; e mise questa roba nella sporta vuota di Ida che gliene fu grata. Essa pensava difatti che Useppe, appena sveglio, avrebbe dovuto mangiare, giacché l’unico suo pasto finora, in questa giornata, era stata la sua prima colazione del mattino, divisa con Blitz. Quella colazione era consistita, al solito, in un pezzo di pane della tessera, elastico e molliccio, forse impastato di crusca e di bucce di patate; e in una tazza di latte acquoso. Ma pure, a ricordarla, lassù nella loro cucina piena di sole, adesso pareva un quadro di ricchezza straordinaria. Lei per suo conto aveva soltanto bevuto una tazzina di surrogato di caffè; ma tuttavia non avvertiva nessuna fame, solo nausea, come se il polverone rovinoso le si fosse coagulato nello stomaco.

Apparve, di ritorno, recando una sua valigia vuota legata con una corda, il nipote della vecchia. E subito si portò via la nonna, asserendo con sussiego che Roma non era affatto distrutta, chi lo diceva raccontava balle: però bisognava scappare d’urgenza, essendo già stato segnalato un aeroplano staffetta, che precedeva qualche migliaio di fortezze volanti in arrivo. «Ma il treno di Mandela, funziona?» gli andava domandando la nonna, nel salire con lui la scaletta d’uscita. Prima d’andarsene, essa aveva lasciato in dono a Ida il proprio cèrcine, dicendole che era un bel pezzo di tela nuova, tessuta in Anticoli sul telaio a mano, e che ci si poteva ricavare una tutina per il pupo. Ida non avrebbe voluto muoversi mai più da quella panca: non sapeva decidersi a raccogliere le forze per affrontare la fine di questa giornata. Nella cantina stagnava una puzza orrenda; ma lei, molle di sudore, col bambino stretto in braccio, era scesa in una sorta di pace insensibile e quasi estatica. I rumori le giungevano ovattati, sugli occhi le si distendeva una specie di garza; quand’ecco si avvide, al girare lo sguardo, che l’osteria s’era svuotata e il sole cominciava a scendere. Allora, le venne scrupolo di approfittare troppo della ospitalità del cantiniere; e, con in braccio Useppe addormentato, uscì all’aperto.

Useppe dormiva ancora, con la testolina penzolante dalla sua spalla, mentre, un poco più tardi, essa percorreva a piedi la via Tiburtina. Da una parte, la via correva lungo la muraglia del cimitero, e dall’altra, lungo casamenti in parte distrutti dalle bombe. Forse anche per effetto del digiuno, Ida era presa da sonno, il senso dell’identità le andava sfuggendo. Si domandava incerta se la casa di via dei Volsci a San Lorenzo, dove aveva abitato per più di vent’anni, non fosse invece la casa di Cosenza, demolita dal terremoto medesimo che aveva distrutto, insieme, Messina e Reggio. E se questo stradone fosse San Lorenzo, oppure il Ghetto. Doveva esserci un’infezione nel quartiere, per questo lo demolivano a colpi di piccone! E quel corpo impastato di sangue e di calcina, era maschio o femmina? era un fantoccio? Il vigile voleva saperlo, per conto dell’Anagrafe, ecco perché discuteva col soldato. Quelle fiamme purulente servivano a bruciare i morti? E se le rotaie erano divelte, e il tram s’era ridotto a questa carcassa, lei domani come potrebbe andare a scuola? I cavalli ammazzati, che la facevano inciampare, erano ariani o ebrei? Il cane Blitz era bastardo, dunque ebreo per l’anagrafe. Ecco perché lei veniva deportata, perché all’anagrafe risultava ebrea, sul suo cognome c’era l’accento. Ah, così si spiega… Lei di cognome faceva Almagià,… invece Useppe per fortuna faceva Ramundo… Ma Ramundo è una parola piana o tronca?… E là c’è scritto Cemeterio Israelitico: proprio così, cemeterio. E israelitico… non era questa una parola vietata?!

A leggere quella scritta sul cancello del cimitero, si convinse che senz’altro le cose stavano così: lei veniva deportata perché non ariana. Cercò allora di affrettare il passo, ma sentì che non ce la faceva.

Per suggerimento dello stesso cantiniere, s’era accodata a un gruppo di sinistrati e di fuggiaschi, avviati in direzione di Pietralata, verso un certo edificio dove s’era allestito, così dicevano, un dormitorio per i senza tetto. Quasi tutti quelli che la precedevano e la seguivano trasportavano fagotti, o valige, o masserizie; invece lei, fuori di Useppe, non aveva più assolutamente nulla da portare. L’unica proprietà che le fosse rimasta, era la sporta che le pendeva dal braccio, con dentro i pacchetti della Croce Rossa e il cèrcine della vecchia di Mandela. Ma per fortuna, in salvo sotto il busto (che lei non trascurava mai di mettersi, neanche d’estate) le rimaneva, tuttavia, il prezioso fagottello dei suoi risparmi. Quel busto, in verità, dopo tante ore, le stava diventando un cilicio. Oramai l’unico suo desiderio era di arrivare, dovunque, sia pure in un campo di concentramento o in una fossa, per finalmente sganciarsi quel busto feroce.

«Tacete! Il nemico vi ascolta! Vincere… Vincere!…»

Un ometto solo e già piuttosto anziano, al suo fianco, ripeteva a voce alta simili motti di guerra, che si leggevano qua e là lungo la via sui muri bruciacchiati e sui manifesti sporchi di fumo. E sembrava per proprio conto divertirsene moltissimo, giacché ne ridacchiava come se raccontasse a se stesso delle barzellette, commentandoli con borbottii svariati. Aveva il braccio destro ingessato fino alla spalla, così che era costretto a tenerlo levato in su e proteso, quasi facesse il saluto fascista, e anche di ciò sembrava esilararsi. Era un tipo fra l’artigiano e l’impiegatuccio, magrolino, di statura non molto superiore a Ida, e con gli occhi vivaci. Nonostante la calura, portava addosso la giacca e in testa il cappello a falda ben calcato, e con la mano libera spingeva un carrettino a mano dove aveva caricato qualche masserizia. Sentendolo borbottare sempre da solo, Ida pensò che fosse un matto.

«Signò, siete romana?» d’un tratto lui la interpellò, in accento allegro.

«Sissignore», essa mormorò. Difatti, fra sé ragionava che ai matti bisogna sempre rispondere affermativamente e rispettosamente.

«Romana de Roma?»

«Sissignore».

«Come me. Roma Doma. Io pure so’ romano, e, da oggi, invalido de guera». E le spiegò che un lastrone lo aveva colpito all’omero, proprio mentre rientrava nella sua casetta-laboratorio (faceva il marmoraro vicino al cimitero).

La sua casetta era stata risparmiata, per fortuna, ma lui preferiva lo stesso di scappare, portandosi dietro lo stretto indispensabile. Il resto, se non glielo fregavano i ladri o le bombe, l’avrebbe ritrovato al ritorno.

Chiacchierava con allegria crescente, e Ida lo fissava spaventata, senza seguire i suoi discorsi.

«Beato lui che dorme», osservò il matto poco dopo, accennando a Useppe. E le propose, vedendola stremata, di depositare la creatura sul proprio carrettino.

Essa lo sogguardava con una enorme diffidenza, figurandosi che, sotto il pretesto di aiutarla, l’ometto volesse rubarle Useppe, portandoselo via di corsa col carrettino. Tuttavia non potendone più, accettò. L’ometto la aiutò a sistemare fra le sue proprietà Useppe (il quale seguitava a dormire tranquillamente) e poi le si presentò con queste parole:

«Cucchiarelli Giuseppe, falce e martello!» e in segno d’intesa e di saluto, chiuse il pugno della mano sana, facendole con gli occhi un ammicchio.

La povera testa intontita di Ida seguitava a ragionare: se gli dico che anche il pupo si chiama come lui Giuseppe, è più facile che me lo rubi. Sulla base di questo ragionamento, essa preferì non dir nulla. Poi, per garantirsi contro ogni oscura intenzione dell’ometto, si attaccò a una stanga del carrettino con le due mani. E sebbene ormai quasi dormisse in piedi, non lasciò più quella stanga, nemmeno per isgranchirsi le dita. Intanto, sorpassato il cimitero israelitico, giravano sul gomito della via Tiburtina.

E così Useppe fece il resto del viaggio quasi in carrozza: sempre dormendo accomodato su una coperta imbottita fra una gabbia abitata da una coppia di canarini, e una cesta a coperchio contenente un gatto. Costui, tanto era atterrito e frastornato da tutta l’oscura vicenda che per l’intero viaggio si tenne senza fiatare. I due canarini, invece, accostati l’uno all’altro in fondo alla gabbia, ogni tanto si scambiavano dei minimi pigolii di conforto.