4.
Passarono ancora circa due mesi e mezzo, senza nessuna notizia di Nino. Frattanto, il 25 luglio, il Duce, rimasto senza più séguito nella mala sorte, era stato deposto e arrestato dal re, e con lui era caduto il fascismo, sostituito dal governo provvisorio badogliano, che durò 45 giorni. Il quarantacinquesimo giorno, che fu l’8 settembre 1943, gli Alleati angloamericani, padroni ormai di gran parte del sud d’Italia, avevano segnato un armistizio coi governanti provvisori. E costoro, immediatamente dopo, avevano preso la fuga verso il sud, lasciando ai fascisti e ai tedeschi il resto dell’Italia, dove la guerra continuava.
Però l’esercito nazionale sparso nel territorio, senza direzione e senz’ordine, s’era disgregato, così che a combattere a fianco dei tedeschi ormai c’erano rimaste solo le milizie nere. Liberato dagli hitleriani, Mussolini era stato insediato nel nord a capo di una repubblica nazifascista. E attualmente la città di Roma, rimasta senza governo, si trovava di fatto sotto l’occupazione hitleriana.
Durante tutti questi avvenimenti, Ida e Useppe avevano seguitato a dimorare sui margini del territorio di Pietralata, nel ricovero degli sfollati che li aveva accolti la prima sera del bombardamento aereo.
Pietralata era una zona sterile di campagna all’estrema periferia di Roma, dove il regime fascista aveva istituito qualche anno prima una sorta di villaggio di esclusi, ossia di famiglie povere cacciate via d’autorità dalle loro vecchie residenze nel centro cittadino. Lo stesso regime aveva provveduto frettolosamente a fabbricare per loro, con materiali autarchici, questo nuovo quartiere, composto di alloggi rudimentali fatti in serie, i quali adesso, benché recenti, apparivano già decrepiti e imputriditi. Erano, se ben ricordo, delle casupole rettangolari messe in fila, tutte di uno stesso colore giallastro, in mezzo a un terreno brullo e non selciato, che produceva solo qualche arboscello nato secco, e per il resto polvere o melma, a seconda delle stagioni. Fuori delle casupole, ci si vedevano certi casotti di cemento, adibiti a latrina o a lavatoio, e degli stenditoi simili a forche. E in ognuna di quelle casupole-dormitorio ci si ammassavano dentro famiglie e generazioni, a cui si mischiava, adesso, una popolazione errante di fuggiaschi della guerra.
A Roma, specie negli ultimi tempi, questo territorio si considerava quasi una zona franca e fuori legge; e in genere i fascisti e i nazisti non osavano troppo di farcisi vedere, per quanto il suo panorama fosse dominato da un forte militare, torreggiante in vetta a un monte.
Ma per Ida, la borgata, coi suoi abitanti, rimaneva una regione esotica dove lei capitava solo per acquisti al mercato, o in altre simili occasioni, attraversandola sempre col batticuore, come un coniglio. Il ricovero dove lei dimorava si trovava, difatti, a circa un chilometro di distanza dall’abitato, di là da un deserto di prati irregolari, tutti a scarpate e avvallamenti, che gliene nascondevano la vista. Era un edificio isolato, quadrangolare, in fondo a uno sterro franoso; e non si capiva bene quale fosse stata la sua funzione primitiva. Forse in origine era servito da deposito agricolo, ma in seguito doveva essere stato adibito a scuola, perché ci si trovavano dei banchi accatastati. E probabilmente ci s’era dato anche inizio a dei lavori, poi sospesi, giacché sulla copertura, fatta a terrazza, una parte del parapetto era stata demolita, e vi erano stati lasciati una cazzuola e dei mucchi di mattoni. In pratica, esso consisteva in un unico locale a pianterreno, piuttosto vasto, con basse finestre a grata, e un solo uscio che dava direttamente sullo sterro; ma godeva invero di comodità rare, allora, nei territori di borgata e cioè di un cesso privato, con pozzo nero; e di una cisterna, comunicante, sul tetto, con un cassone per l’acqua. L’unico rubinetto dell’edificio si trovava nel cesso, disposto in uno stretto sottosuolo, e di là si manovrava pure l’apparecchio per il flusso dell’acqua nel cassone. Però dopo l’estate la cisterna era ormai secca, e Ida, con le altre donne, doveva rifornirsi d’acqua a una fontanella della borgata. Poi, con le piogge, la situazione migliorò.
Nessun’altra abitazione esisteva all’intorno. L’unico edificio di qua dalla borgata, a una distanza di tre o quattrocento metri, era un’osteria, specie di baracca in muratura, dove si vendeva pure il sale, i tabacchi e altri generi della tessera sempre più scarsi col passare del tempo. Se nel territorio correva la minaccia di retate, o rastrellamenti, o della semplice presenza di tedeschi o di fascisti, l’oste trovava modo di avvisarne gli sfollati, con certi suoi segnali.
Dall’ingresso del ricovero in fondo allo sterro, in direzione dell’osteria, c’era praticato un viottolo ineguale, indurito alla meglio con qualche sasso. Quella, nei dintorni, era l’unica via battuta.
Da quando Ida si trovava là, non pochi della piccola folla arrivata insieme a lei, s’erano trasferiti altrove, presso parenti o in campagna. C’era stato, al posto loro, qualche nuovo arrivo, di sinistrati del secondo bombardamento di Roma, (il 13 agosto) o di fuggiaschi del sud; ma anche questi altri, via via, s’erano sparsi altrove. Dei rimasti, là, come Ida e Useppe, fino dalla prima sera, ci si trovava tuttora Cucchiarelli Giuseppe, il marmoraro che aveva portato Useppe sul proprio carrettino. Pare che di recente fosse riuscito, falsificando le carte per la lista dei defunti, a figurare fra le vittime del bombardamento rimaste sotto le macerie. Preferiva rimanere in incognito con gli sfollati risultando morto all’anagrafe di Roma, che fare il marmoraro del camposanto sotto i fascisti e i tedeschi.
Con lui c’era pure il suo gatto (il quale poi era una gatta, di un bel colore striato rosso e arancione, e di nome Rossella); e la coppia dei due canarini, di nome Peppiniello e Peppiniella, dentro la loro gabbia sospesa a un chiodo. E da questi due la gatta, secondo gli insegnamenti del padrone, si teneva sempre alla larga, come se nemmeno li vedesse.
Di altri abitanti fissi del ricovero, attualmente c’era solo una famiglia, mezza romana e mezza napoletana, e così numerosa, da lei sola, che Cucchiarelli Giuseppe la soprannominava I Mille. I componenti napoletani di questa famiglia, rimasti senza tetto nella primavera di quell’anno in seguito ai bombardamenti di Napoli, erano venuti a rifugiarsi presso i loro parenti di Roma; ma anche qui erano rimasti senza tetto, insieme ai loro parenti ospitali, in seguito al bombardamento del luglio: «Noi», si vantavano in proposito scherzando, siamo un obiettivo militare». Contarli con esattezza era difficile, poiché componevano una tribù fluttuante; però non erano mai meno di dodici, e arrangiandosi, fra tutti, in varie attività e mestieri, godevano di una prosperità relativa. C’erano alcuni giovanotti, i quali comparivano solo a intervalli, tenendosi di solito al largo chi sa dove, anche per timore delle razzie tedesche. C’era una vecchia romana grossissima, di nome la sora Mercedes, che stava sempre seduta su una panchetta con una coperta addosso per causa dell’artrite, e custodiva, sotto la coperta, un deposito di derrate alimentari. C’era il marito di Mercedes, napoletano, e di nome, pure lui, Giuseppe. C’erano altre due vecchie (di cui la più conversevole, di nome Ermelinda, veniva intesa da Useppe come Dinda), un altro vecchio, alcune nuore giovani, e, di piccoli, diversi ragazzini, fra femminelle e maschietti. Nel numero di costoro (oltre a un certo Currado e a un certo Impero) si contava pure un altro Giuseppe, così che per distinguere fra tanti Giuseppi si usava nominare: Giuseppe Primo, il marito di Mercedes; Giuseppe Secondo, il signor Cucchiarelli (che Ida, fra sé, continuava a chiamare Matto); e Peppe il piccolo napoletano. A costoro si aggiungeva infine (per non contare i canarini Peppiniello e Peppiniella) Useppe nostro, il quale, di tutti quei Giuseppi, era senz’altro il più allegro e popolare.
Fra i Mille si notava un certo vuoto nella generazione di mezza età, per via che due genitori (già nonni di Impero Currado eccetera) erano morti schiacciati a Napoli. Oltre a vari figli maschi già maggiorenni, essi avevano lasciato orfana qua presente fra i Mille, un’ultima figlia minore di nome Carulina, la quale aveva quindici anni finiti ma ne mostrava tredici; e per le sue treccette nere ripiegate a doppio e appuntate in cima alle tempie faceva pensare a una gatta o a una volpe con gli orecchi dritti. Circa un anno avanti, a Napoli, durante i pernottamenti nelle grotte per evitare le incursioni, questa Carulina, allora in età di quattordici anni meno un mese, era rimasta incinta, non si sapeva con chi. Lei stessa, difatti, agli interrogatorii insistenti della sua tribù, rispondeva spergiurando che, se qualcuno era stato, lei non s’era accorta di niente. Però sulla fede della sua parola non si poteva contare, perché la sua testa era fatta in modo che credeva ciecamente a tutte le fantasie e invenzioni, non solo altrui, ma anche sue proprie. A esempio, nel tempo di Pasqua, i suoi di casa le avevano detto, volendo prenderla in giro, che gli Americani, per le Buone Feste, in luogo delle solite bombe dirompenti e incendiarie avrebbero sganciato su Napoli delle bombe-uovo, riconoscibili fino dal cielo per i loro bei colori sgargianti. Naturalmente, si trattava di proiettili innocui dai quali, al momento dello scoppio a terra, uscivano delle sorprese: per esempio salsicce, cioccolate, caramelle eccetera. Da quel momento, Carulina convinta si tenne sempre all’erta, correndo alla finestra a ogni ronzio d’aereo e spiando in cielo verso la sperata apparizione. Finalmente, la mattina del Sabato Santo, uscita per la spesa ne tornò con l’aria di una miracolata, e consegnò in offerta a sua nonna una sfogliatella dolce: raccontando che giusto mentre lei passava nei dintorni di Porta Capuana, da una Fortezza Volante era piovuta una bomba- uovo, in forma d’uovo di Pasqua grosso, e tutta coperta di stagnola dipinta con le figure della bandiera d’America. Questa bomba era esplosa proprio davanti alla Porta, senza far danno, anzi! sprizzando luci e faville come una bellissima girandola di bengala; e ne era sortita la stella del cinema Janet Gaynor in abito da gran sera e con un gioiello in petto, la quale aveva senz’altro cominciato a distribuire intorno pastarelle dolci. A lei, Carulì, in particolare, la diva aveva fatto un cenno d’invito col ditino: consegnandole la presente sfogliatella, con le parole: Portala a nònneta, che a quella, povera vecchia, le restano poche annate da farci la buona pasqua, a questo mondo.
«Ah accussì t’ha detto. E in che lingua t’ha parlato?»
«Come, quale lingua! itagliano! napulitano! eh!»
«E dopo, come ha fatto a riandarsene all’America?! che se si fa vedere di qua, capace che questi se la pigliano come ostaggio, e la fanno prigioniera di guerra!!»
«Nooo! Noooo!» (scuotendo calorosamente la testa), «come! Quella è già ripartita, subito, dopo cinque minuti! Teneva addosso legato come una specie di pallone, insomma un paracadute all’incontrario, che invece di scendere, monta. E accussì è rimontata sulla Fortezza Volante che stava là incoppa a aspettarla, e accussì è ripartita e via».
«Ah, accussì va buono. Grazie e saluti distinti».
Poche settimane dopo questo caso straordinario, Carulina arrivò a Roma con la famiglia. E a vederla all’arrivo, faceva l’effetto di un fenomeno di natura: così piccola, e con una pancia enorme, tale che non si capiva come potesse lei, sui suoi piedini, portarsela appresso. Nel mese di giugno, a Roma, quartiere di
San Lorenzo, essa partorì due gemelle, sane, normali e tonde, mentre che lei era anche magretta, sebbene in buona salute. Le due furono nominate Rosa e Celeste; e siccome erano, e rimanevano, identiche in tutto e per tutto, la madre, per non confonderle, gli teneva al polso due nastrini, uno celeste e uno rosa.
Purtroppo, i due nastrini col tempo s’erano resi quasi irriconoscibili, per la sporcizia. E la madre ogni volta li esaminava scrupolosamente, prima di certificare, soddisfatta: «Questa è Rusinella». «Questa è Celestina». Naturalmente, il suo poco latte infantile non le bastava per le due carulinette; ma per questo la soccorse una delle sue cognate romane, la quale si trovava addirittura oppressa dal troppo latte che teneva, avendo appena svezzato di prepotenza l’ultimo figlio (Attilio) il quale, se no, troppo fanatico della sisa, a cui voleva stare sempre attaccato, minacciava di crescere mammone.
La Carulina, anche se aveva messo su famiglia, si manteneva più ragazzina ancora della sua età: al punto che non s’interessava, come le sue cognate, a «Novella», e simili riviste di grande successo femminile; ma ancora leggeva, compitandole a alta voce, le storie a figurine e i giornaletti per i piccoli; e si divertiva a giocare a acchiapparella e nascondarella coi guaglioni e i regazzini del posto. Però, bastava un minimo lamento o protesta di Rosa, o di Celeste, per vederla accorrere preoccupata, con gli occhi spalancati e protesi come due fari d’automobile, nella direzione della sua prole. Essa divideva coscienziosamente il suo poco latte fra le due gemelle, scoprendo in pubblico le sue mammelline nude senza vergogna, come cosa naturale. E in questa operazione dell’allattamento si dava un’aria di grande importanza.
Per addormentarle, cantava una ninnananna semplicissima, che diceva così:
Ninna ò ninna ò
Rusina e Celesta s’addormentò
ò ò
ninna ò.
E questo era tutto, ripetuto sempre uguale, finché quelle dormivano.
L’angolo riservato alla sua tribù, nello stanzone-ricovero, era sempre pavesato, specie nei giorni di pioggia, di pannolini e camiciole per neonati stese a asciugare. Essa si affaccendava con una frequenza addirittura eccessiva a cambiare e ripulire le sue figlie, rovesciandole sottosopra senza tanti complimenti. Era, insomma, una brava madre: dai modi, però, autorevoli e sbrigativi, senza smorfie né vezzeggiamenti, anzi baccaiando, al caso, con le figlie, come se quelle capissero. Forse, troppo impreparata alla maternità, essa, piuttosto che due fantoline minori, vedeva in loro quasi due sue coetanee nane, uscite da lei a sorpresa, come Janet Gaynor dalla bomba-uovo.
Però al tempo stesso, nella sua inopinata promozione a madre, lei medesima si era promossa, in certo modo, a madre di tutti quanti. La si vedeva sempre indaffarata, qua a sventolare il fuoco, là a risciacquare uno straccetto, o a pettinare sua cognata con la pettinatura di Maria Denis, eccetera eccetera. Una sua eterna occupazione, poi, era di ricaricare il grammofono a manovella, proprietà della famiglia, il quale (siccome l’ultima radio della famiglia era fatalmente sprofondata con le bombe) veniva mantenuto in azione dalla mattina alla sera. I dischi erano pochi e sempre gli stessi: due sole canzoni, già vecchie d’un paio d’anni, che si intitolavano Reginella campagnola e Gagarella del Biffi-Scala; una antica canzone comica napoletana, La foto; un’altra idem, detta Sciòsciame, dove si trattava pure di una tale Carulì; e in più tre ballabili (tango, valzer e fox brillante) e un jazz italiano, del complesso Gorni, Ceragioli, eccetera.
Carulì sapeva a memoria tutti questi titoli e nomi, così come sapeva magnificamente a memoria i nomi delle attrici del cinema e i titoli dei film. Difatti, il cinema le piaceva assai; però, a chiederle la trama dei film tanto goduti, si scopriva che non ne aveva capito niente. In luogo delle storie d’amore, rivalità, adulterio e simili, essa vedeva solo dei movimenti fantastici, come di lanterna magica. E le dive, per lei, dovevano essere qualcosa sul tipo di Biancaneve, o delle fate dei giornaletti. In quanto agli attori maschi, la interessavano assai meno, perché meno assimilabili, nella sua immaginazione, ai personaggi delle favole.
Nata in una tribù, si capisce che, del sesso, niente era rimasto segreto ai suoi occhi, fino dalla sua prima infanzia. Ma questo fatto, stranamente, aveva favorito la sua indifferenza sessuale, così innocente da somigliare a una ignoranza assoluta: da potersi paragonare, addirittura, a quella di Rosa e Celeste!
La Carulì non era bella: col suo corpicino disarmonico e già sfiancato dalla doppia gravidanza al punto che il movimento delle sue gambe ne risultava sbilanciato, dandole una camminata storta e buffa, come quella di certi cuccioli bastardi. Dalla sua schiena magrolina, le scapole sporgevano eccessivamente, come due ali mozze e spiumate. E la sua faccia era irregolare, con la bocca troppo grande. Però, a Useppe, questa Carulì doveva apparire una bellezza mondiale, per non dire divina. E attualmente, il nome più chiamato e ripetuto da lui (oltre a mà) era Ulì.
D’altra parte, Useppe aveva presto imparato i nomi di tutti quanti: Eppetondo (Giuseppe Secondo, ossia il Matto, ossia Cucchiarelli, il quale invero non era tondo per niente, anzi alquanto secco), Tole e Mémeco (Salvatore e Domenico, i due fratelli più anziani di Carulì) eccetera eccetera. E non esitava a chiamarli per nome gioiosamente, ogni volta che gli capitava, come se fossero tutti pupetti pari a lui. Spesso quelli, intenti alle loro faccende e intrallazzi, nemmeno gli badavano. Ma lui, dopo un istante di perplessità, s’era già dimenticato dell’affronto.
Senza dubbio, per lui non esistevano differenze né di età, né di bello e brutto, né di sesso, né sociali. Tole e Mémeco, erano, veramente, due giovanotti stortarelli e rincagnati, di professione incerta (borsari neri, oppure ladri, secondo i casi), ma per lui erano tali e quali a due fusti di Hollywood o a due patrizi d’alto rango. La sora Mercedes puzzava; ma lui, quando giocava a nascondarella, sceglieva a preferenza, come nascondiglio, la coperta che lei teneva sui ginocchi; e al momento di sparire là sotto, le mormorava in fretta in fretta, con aria complice: «Stà zitta, eh, stà zitta».
Un paio di volte, verso la fine dell’estate, era capitato per di là qualche militare tedesco. E sùbito, nel ricovero, era corso il pànico, perché oramai, fra il popolo, i tedeschi apparivano peggio che dei nemici. Ma per quanto già l’annuncio i tedeschi agisse all’intorno come una sorta di maledizione, il piccolo Useppe non parve rendersene conto, e accolse gli insoliti visitatori con una curiosità intenta, e senza sospetto. Ora si trattava, invero, in quei casi, di comuni soldatucci di passaggio, i quali non avevano male intenzioni, né altro pretesero che una indicazione stradale o un bicchier d’acqua. Però è sicuro che se là nello stanzone si fosse presentato uno squadrone di S.S. con tutto il loro armamentario di strage, il buffo Useppe non ne avrebbe avuto paura. Quell’essere minimo e disarmato non conosceva la paura, ma un’unica, spontanea confidenza. Sembrava che per lui non esistessero sconosciuti, ma solo gente sua di famiglia, di ritorno dopo qualche assenza, e che lui riconosceva a prima vista.
Alla sera del suo arrivo dopo il disastro, scaricato dormiente dal carrettino, non s’era più svegliato fino alla mattina seguente, tanto che Ida, per fargli mangiare qualcosa, aveva dovuto imboccarlo quasi addormentato. Poi, nella nottata, essa lo aveva sentito, durante quel suo lunghissimo sonno, trasalire e lamentarsi; e, al toccarlo, le era parso che scottasse. Però al mattino invece (una bella mattinata di sole) s’era svegliato fresco e vispo come sempre. Le prime presenze che aveva scorto, appena riaperti gli occhi, erano stati i due canarini e le gemelle (la gatta era assente per i fatti suoi). E immediatamente era corso a precipizio verso di loro, salutando quella apparizione con molte risatine incantate. Poi, come fanno i gatti, s’era messo a esplorare il suo nuovo inspiegato alloggio, avendo l’aria di dire: «Sì! sì! sono soddisfatto», e intrufolandosi fra tutta quella gente ignota come volesse annunciare: «Eccomi qua! finalmente ci si ritrova!» Non s’era ancora lavato, dopo la giornata di ieri, e in quella sua faccia intrepida, sporca e nera dal fumo, la letizia dei suoi occhietti celesti era così comica che faceva ridere tutti quanti, perfino in quel tragico primo giorno.
Da allora, l’esistenza promiscua in quell’unico stanzone comune, che fu per Ida un supplizio quotidiano, per Useppe fu tutta una baldoria. La sua minuscola vita era stata sempre (salvo che nelle felicissime notti degli allarmi) solitaria e isolata, e adesso, gli era capitata la fortuna sublime di ritrovarsi, giorno e notte, in compagnia numerosissima! Sembrava addirittura ammattito, innamorato di tutti.
Anche per questo le madri altrui gli perdonavano le sue straordinarie precocità, commentandole senza invidia. Al paragonarlo coi loro propri figli, esse non volevano credere che avesse due anni appena, e sospettavano fra loro che Ida, in proposito, per farsene bella, sballasse una frottola. Però, a confermare la minima età del pupo, c’erano, d’altra parte, la sua ingenuità illimitata, e le sue misure fisiche, sempre al di sotto di quelle dei suoi coetanei. Certe dame benefiche avevano lasciato là in offerta ai senzatetto un mucchio d’indumenti usati, nel quale era stato pescato il suo corredo per l’autunno: un paio di pantaloni lunghi a bretelline, che Carulì gli aveva adattato alla vita, ma che per il resto gli sovrabbondavano addosso, da somigliare a quelli di Charlot; un mantello a cappuccio d’incerato nero, imbottito di trapunta rossa, che gli arrivava ai piedi; e una maglietta di lana turchina che, in compenso, gli stava corta (forse aveva appartenuto a un lattante) così che sempre gli si rialzava di dietro, lasciandogli scoperto un pezzo di schiena.
Inoltre, Carulì gli aveva ricavato due camiciole e parecchi slip dal cèrcine della vecchia di Mandela; e con gli avanzi di una pelle di capra, rubata dai suoi fratelli a un conciatore, gli aveva combinato un paio di calzature del tipo cioce, allacciate con degli spaghi. Si può dire, in verità, che, fra tutti gli ospiti dello stanzone, Useppe era il più povero. O meglio, lo fu durante il primo periodo: giacché in séguito, come si vedrà, arrivò un ospite che, almeno per il momento, era più povero ancora di lui.
Come tutti gli innamorati, Useppe non avvertiva assolutamente le scomodità di quella vita. Finché durò l’estate, agli altri abitanti del dormitorio si aggregarono zanzare, pulci e cimici. E Useppe si grattava di sotto e di sopra, eseguendo delle vere e proprie ginnastiche naturali, come i cani e i gatti, e brontolando appena per commento: «lope, lope…» ossia mosche, giacché lui tutti gli insetti li chiamava mosche.
Nell’autunno, con le finestre chiuse, il locale, nell’ora di cucina, si empiva di un fumo asfissiante; e lui, senza troppo impicciarsene, si contentava ogni tanto di sventolare le due mani dicendo: «Via, fumo». Questi disagi, del resto, erano compensati dalle meraviglie dello stanzone, che con le piogge d’autunno era sempre popoloso, offrendo programmi di novità e attrazione sempre varia. Anzitutto, c’erano le due gemelle. Gli altri pupi della compagnia, più o meno suoi coetanei, manifestavano, a modo loro, una certa coscienza di superiorità nei confronti di quelle lattanti. Ma per lui esse erano uno spettacolo così affascinante che a volte restava a contemplarle per la durata di molti minuti, in un divertimento estatico. Poi d’un tratto, irresistibilmente, prorompeva in certi suoi discorsi giulivi e incomprensibili, forse convinto che per dialogare con quelle creature occorresse un linguaggio ostrogoto. E forse aveva ragione, perché loro gli rispondevano con gesticolamenti esilarati e voci speciali, talmente entusiaste che, nel produrle, si bagnavano tutte di saliva.
Davanti a una tale concordia, un giorno, dalla parentela, gli fu proposto di sposarsene una. E lui prontamente accettò la proposta, serio e persuaso; però, siccome alla scelta stava titubante fra l’una e l’altra (e difatti parevano uguali), si venne d’accordo alla soluzione di ammogliarlo con tutte e due. Le nozze furono celebrate senz’altro indugio. La sora Mercedes era il prete e Giuseppe Secondo il compare.
«Useppe, sei tu contento di sposare le qui presenti Rosa e Celeste?»
«Ti».
«Rosa e Celeste, siete voi contente di sposare il qui presente Useppe?»
«Io sì. E io sì», affermarono le due spose, per bocca del compare.
«E allora vi dichiaro moglie e marito».
E così detto, mentre le mani dei tre sposi venivano solennemente congiunte, l’officiante Mercedes fece mostra d’infilare ai loro diti tre anelli immaginari. Useppe splendeva di fervore, ma anche di responsabilità a questa doppia consacrazione, che la Carulì approvava contentissima, presenti Impero, Currado e l’altra pipinara, tutti che assistevano a bocca aperta. Come rinfresco di nozze, il compare offrì due sorsi di un liquorino dolciastro, di sua propria fabbricazione; però Useppe, dopo averlo assaggiato con aria compunta, non ne apprezzò affatto il sapore, e senza cerimonie lo sputò.
Quest’insuccesso del rinfresco, tuttavia, non guastò la festa, anzi suscitò una risata generale, che liberò istantaneamente lo sposo dalla sua serietà. E in un buonumore immenso e radioso, Useppe si buttò in terra con le gambe in aria, dandosi a una sfrenata celebrazione acrobatica.
Un altro spettacolo mirabile erano i due canarini, davanti ai quali Useppe prorompeva, addirittura, in piccoli gridi di giubilo: «…l’ali…» ripeteva, «l’ali…» Però invano si studiava di capire i loro discorsi, cantati e chiacchierati.
«Ulì, che dicono?»
«Che saccio! Quelli mica parlano la lingua nostra, quelli sono forestieri».
«Véngheno dalle isole de Canaria, vero, sor Giusè?»
«No, sora Mercedes. Quelli so’ nostrani, véngheno da Porta Portese».
«E che dicono? Eppetondo, eh? che dicono?»
«Che hanno da dì! boh!… Dicono: ciricì ciricì io salto qui e tu zompi lì! Te va bene?»
«No».
«Ah nun te va bene! embè, ariccòntecelo tu, allora, quello che dicono». Ma Useppe, amareggiato, qui non trovava risposta.
Diversamente dai canarini, la gatta Rossella non teneva dialoghi con nessuno.
Però, all’occorrenza, aveva nella sua parlata certe voci speciali, che tutti più o meno, erano capaci d’intendere. Per chiedere, diceva mìu o mèu; per chiamare, màu, per minacciare, mbroooh, eccetera eccetera. Ma assai di rado, invero, costei si trovava dentro casa. Il suo proprietario Giuseppe Secondo aveva deliberato: Quando c’è carestia per i cristiani, ai gatti devono bastare i sorci, e lei, per conseguenza, passava la maggior parte del proprio tempo a caccia, spendendoci destrezza e audacia, perché il terreno della caccia era infido. «Bada a te», la avvisava ogni tanto Giuseppe Secondo, «che qua a poca distanza c’è l’osteria che cucina li gatti arrosto». E attualmente, a quanto pareva, pure i sorci scarseggiavano. Difatti il corpo della cacciatrice, di bella eleganza felina, negli ultimi mesi s’era smagrito e spelacchiato.
Secondo l’opinione generale, essa era un tipo di mala vita, cattiva e doppia.
Difatti, se si tentava di prenderla, lei sfuggiva; e mentre nessuno la cercava, veniva inaspettata a strusciarsi addosso all’uno e all’altro, facendo le fusa, ma scattando via non appena si tentava di toccarla. Per i ragazzini, poi, essa nutriva una speciale diffidenza; e se a volte, distratta dalla sua sensualità, capitava a strusciarsi a uno di loro, bastava un piccolo movimento di costui perché lei subito gli soffiasse con aria feroce. E così Useppe, ogni volta che lei lo degnava di una strusciata, si teneva immobile e senza respiro, per l’emozione di quel favore difficile e fuggente.
Un altro lusso primario dello stanzone, per Useppe, era il grammofono. Lui ne variava le canzoni all’infinito, e ci si metteva a ballare, non i passi monotoni e conformi del tango o del fox, ma tutte danze d’istinto e di fantasia, nelle quali finiva con lo scatenarsi addirittura, trascinando nell’ebbrezza gli altri ragazzini in vere mirabilia da campione. Fra le sue capacità premature, la più ammirata da tutti era la sua bravura sportiva. Si sarebbe detto che le sue minuscole ossa nell’interno tenevano aria, come quelle degli uccelli. Nello stanzone c’erano rimasti in deposito dei banchi scolastici, che ne occupavano, sovrapposti a catasta, tutto un lato; e per lui quella catasta doveva rappresentare una specie di scogliera avventurosa! Ci s’arrampicava a volo, fino alla cima, balzando e correndo in equilibrio sugli orli più alti come un ballerino sul filo; e d’un tratto saltandone giù senza peso. Se qualcuno da sotto gli gridava: «Scendi! ti fai male!» lui, per solito così pronto a rispondere, in questo caso diventava sordo e irraggiungibile. Come pure agli applausi e incitamenti: «Bravo! via!» mostrava una uguale disattenzione spensierata. Il gusto di esibirsi gli mancava; anzi, all’occasione, si scordava perfino della presenza altrui. Si aveva la sensazione che il suo corpo lo trasportasse fuori da se stesso.
In aggiunta alla catasta dei banchi, su ogni lato lo stanzone era ingombro di fagotti, damigiane, fornelli, tinozze, catini, eccetera, oltre ai sacchetti di sabbia contro gli incendi e alle materasse arrotolate. Per aria, da un lato all’altro, erano stese delle corde, tutte pavesate di vestiti e biancheria. L’intera superficie, abbastanza vasta, era un trapezio rettangolo, di cui l’angolo ottuso con le sue adiacenze era occupato dai Mille, che la notte vi dormivano tutti in un mucchio, su una fila di materassi accostati. L’angolo acuto era abitato da Giuseppe Secondo, il quale, solo fra tutti, disponeva di un materasso di lana di sua proprietà. Aveva, invece, lasciato a casa il guanciale, usando al suo posto la propria giacca, e, su questa, il cappello, che ogni mattina si rimetteva in testa, senza mai toglierselo, nemmeno per casa. A spiegazione di questa buffa abitudine, lui diceva di soffrire di artrite reumatica. Ma la verità era che sotto la fodera del cappello teneva nascosto, in biglietti da mille distesi, una porzione del proprio capitale liquido, avendone distribuito il resto, parte sotto la fodera della giacca, e parte sotto la suoletta interna dell’unico suo paio di scarpe, che di notte metteva a riposare accanto a sé, sotto la coperta.
L’angolo consecutivo era di Ida, la quale, unica fra tutti, lo aveva separato dal resto del dormitorio con una specie di tenda, fatta di sacchi cuciti insieme alla meglio e sospesi a una corda. E nel quarto angolo, presentemente disabitato, erano passati successivamente varii ospiti transitorii, dei quali, unici ricordi, erano rimasti due fiaschi vuoti e un saccone di paglia.
In questo periodo, le mattine, al risveglio, Ida raramente ricordava di aver sognato. Ma i pochi sogni che ricordava erano lieti, così che le tornava più amaro ritrovarsi, destandosi, nel suo presente stato di miseria. Una notte, le pare di risentire il grido dei pescatori già udito nell’infanzia, quando stava dai suoi nonni al tempo d’estate: FAA-LEIU!! E difatti, si trova alla presenza di un mare turchino, dentro una stanza quieta e luminosa, in compagnia di tutta la sua famiglia, i vivi e i morti. Alfio la rinfresca agitando un ventaglio colorato, e Useppe dalla riva ride a vedere i pesciolini che saltellano fino sopra l’orlo dell’acqua…
Poi si ritrova in una città bellissima, come non ne ha mai viste. Anche stavolta, è presente un grandissimo mare azzurro, di là da immense terrazze lungomare su cui passeggia una folla in vacanza, lieta e placida. Tutte le finestre della città hanno tende variopinte, che sbattono appena appena all’aria fresca. E di qua dalle terrazze, fra gelsomini e palme, si estendono dei caffè all’aperto, dove la gente, riposando in festa sotto ombrelloni colorati, ammira un violinista fantastico. Ora, questo violinista è suo padre, alto e regale su un palco d’orchestra dalla balaustra decorata: è anche un cantante famoso, e suona e canta Celeste Aida forma divina…
* * *
La riapertura delle scuole, che nella sua nuova condizione di profuga aveva preoccupato Ida fino dall’estate, veniva ormai rinviata a chi sa quando nella città di Roma, e la sola attività di Ida, fuori di casa, attualmente era la difficile caccia al cibo, per la quale il suo stipendio le riusciva ogni mese più scarso. Talora, dai Mille, che esercitavano, fra l’altro, anche il commercio clandestino, essa acquistava dei pezzi di carne, o del burro, o delle uova, a prezzi alti di borsa nera. Ma questi lussi, se li permetteva a beneficio esclusivo di Useppe. Lei stessa era tanto dimagrita che i suoi occhi sembravano grandi il doppio di prima.
Nello stanzone regnava una stretta divisione della proprietà, così che all’ora dei pasti si istituiva un vero confine invisibile fra i tre angoli abitati del trapezio. Perfino Useppe, in quell’ora, veniva trattenuto nel proprio cantuccio da Ida, la quale temeva che il pupo, fra i Mille banchettanti e Giuseppe Secondo intento a riscaldare i propri barattoli, prendesse, involontariamente, la figura di un accattone. In quel tempo di carestia, pure i prodighi diventavano avari; e il solo che, ogni tanto, si affacciasse alla tenda di sacchi recando in offerta un assaggio dei suoi piattini era Giuseppe Secondo. Ma lei, che tuttora seguitava a considerarlo matto, a tali offerte arrossiva confusa, ripetendo: «grazie… scusi… tante grazie… scusi tanto…»
Nel gruppo dei rifugiati, essa era la più istruita, ma anche la più povera; e questo la rendeva più timida e spaurita. Perfino coi ragazzini dei Mille, non riusciva a liberarsi del suo senso di inferiorità, e soltanto con le gemelline si prendeva qualche confidenza, perché quelle, pure loro, come Useppe, erano nate da padre ignoto. I primi giorni, a chi le aveva domandato di suo marito, aveva risposto arrossendo: «Sono vedova…» e l’ansia di nuove domande la rendeva ancora più forastica che già non fosse per natura.
Essa temeva sempre di disturbare, d’essere di troppo; e solo di rado sortiva dal proprio angolo, vivendo rincantucciata dietro la sua tenda come un carcerato in una cella di isolamento. Mentre si svestiva o si rivestiva, tremava che qualche estraneo si affacciasse alla tenda, o la intravvedesse di fra i fori della tela di sacco. Si vergognava ogni volta che andava al cesso, davanti al quale, spesso, era necessario fare la fila; ma intanto, quel camerino fetido era l’unico luogo che le concedesse, almeno, una pausa di isolamento e di quiete.
Nello stanzone comune, i rari momenti di silenzio le facevano l’effetto di un filo d’aria aperta nel fondo di un girone infernale. Tutti quei rumori estranei, che la aggredivano da ogni parte, ormai si riducevano, ai suoi orecchi, in un unico eterno rimbombo, senza più distinzioni di suoni. Però, a riconoscere, là in mezzo, la vocina gaia di Useppe, essa ne risentiva la identica, piccola gloria che provano le gatte randagie quando i loro figlietti intraprendenti si cimentano nella piazza pubblica, fuori del loro buco infognato nei sottosuoli.
Di solito, finita la cena Useppe cascava dal sonno e raramente ci si trovava anche lui nell’ora che i Mille approntavano la loro grande cuccia per la notte. Però da parte sua lui considerava tali rare occasioni una fortuna, assistendo a quei preparativi con interesse grandissimo, e procurando di mischiarcisi frammezzo. Poi, tratto per mano da Ida nella propria tenda privata, si voltava nostalgicamente indietro.
Ora una certa notte, nel buio universale, gli capitò di risvegliarsi per un suo bisogno; e nel provvedervi eroicamente senza aiuto per non disturbare la madre, fu incuriosito dall’enorme coro dei russanti di là dalla tenda, e si attardava sul suo vaso, a tendere l’orecchio, finché, levandosi uscì a piedi nudi, a esplorare nel dormitorio. Chi sa come facevano, i dormienti, a produrre suoni così svariati?! Uno pareva un motore a scoppio, uno il fischio d’un treno, uno un raglio, e un altro, uno starnuto a ripetizione. Fra le tenebre dello stanzone, l’unico chiarore veniva da una candelina dei morti, tenuta sempre accesa dai Mille davanti a certe fotografie, su una specie d’altarino d’angolo in fondo alla loro cuccia. Quella piccola luce arrivava a malapena dalla parte opposta, dove Useppe si trovò all’uscire dalla tenda. Ma rinunciò a spingersi oltre, non per la paura di muoversi nel buio, ma perché, invece, sulla sua curiosità di osservare il meccanismo dei russamenti prevalse lì per lì una attrazione diversa. E con un risolino, vedendo che il giaciglio dei Mille, là vicino a lui, gli lasciava un piccolo posto verso il bordo, senz’altro ci si accomodò, ricoprendosi alla meglio con un lembo disponibile di coperta. Dei prossimi dormienti, riusciva a intravvedere a malapena le sagome. Quella al suo fianco, dall’enorme rigonfio che faceva sotto la coperta, e anche dall’odore, doveva essere la sora Mercedes. Invece ai piedi di costei stava distesa una sagoma assai più piccola, che si teneva la coperta fin sulla testa, e che forse poteva anche essere Carulina. Prima di stendersi del tutto, Useppe si provò a chiamare piano piano: «Ulì…» ma quella non dette segno di udire. Forse era un’altra.
Nessuno dei Mille si accorse dell’intrusione di Useppe. Solo la grossa sagoma vicino a lui, nel sonno, istintivamente si fece in là per lasciargli un poco più di spazio, e poi se lo trasse più accosto, forse credendolo un proprio nipotino.
Rannicchiato vicino a quel gran corpaccione caldo, Useppe si riaddormentò subito.
Proprio quella stessa notte, fece il primo sogno Cui aia rimasta traccia nella sua memoria. Sognò che sul prato c’era una navi (una barchetta) legata a un albero. Lui saltava dentro la barchetta, e subito questa si scioglieva dalla corda, mentre il prato era diventato un’acqua assai lucente, sulla quale la barchetta, con lui dentro, dondolava a ritmo come se ballasse.
In realtà, quello che nel suo sogno si traduceva nel gaio rollio della barca era un movimento effettivo, che si svolgeva nel frattempo ai suoi piedi. La piccola sagoma quasi infantile coperta fino sulla testa era diventata una coppia. Un maschio della tribù dei Mille, preso da uno stimolo subitaneo, era scivolato fino a lei senza rumore attraverso la fila dei materassi, e, senza dirle niente, adagiato su di lei sfogava in brevi sussulti il proprio stimolo notturno. E lei lo lasciava fare, rispondendo solo con qualche piccolo brontolio sonnolento.
Ma Useppe addormentato non s’accorse di nulla. All’alba, Ida, non trovandoselo vicino, preoccupata corse nel dormitorio. Socchiuse, per vederci, una finestra, e alla poca luce lo scorse, sul bordo a principio della grande cuccia, che dormiva placidamente. Allora se lo prese in collo e lo ridepose sul proprio materasso.