1.
I tuoni dei bombardamenti intorno a Roma si andavano facendo più frequenti, e ravvicinati; e le donne del bottegaio di Genzano, ogni volta, al sentirli, balzavano in piedi, dando in grida isteriche di terrore. Dopo lo sbarco alleato a Anzio del 22 gennaio, dalla borgata arrivarono canti e grida di gioia, come se ormai la guerra fosse finita. I pochissimi fascisti della borgata s’andarono tutti a nascondere; mentre i giovani uscivano tutti per le strade, e certuni si facevano vedere addirittura armati, come se apertamente si preparassero alla rivoluzione. Si pigliava il pane, la farina, e l’altra roba da mangiare, a violenza, nelle botteghe, o dove ancora se ne trovava, e si distribuivano all’aria aperta le copie dell’«Unità» clandestina, edizione straordinaria.
Ida si allontanava dallo stanzone il meno possibile, e si teneva Useppe sempre stretto alle sottane: spaventata che i Tedeschi, per risposta alla provocazione, invadessero la borgata, e uccidessero o deportassero tutti i maschi, senza risparmiare il suo masculillo Useppe. In quei giorni, il Lupo Mannaro sparì; e lei pensò se per caso colui non fosse una spia, corso a denunciare il popolo di Pietralata al Comando tedesco. A ogni modo, quell’estrema festa popolare si risolse in un’altra amara frustrazione. Di lì a pochi giorni i tedeschi erano riusciti a contenere lo sbarco, inchiodando gli Alleati sulla spiaggia di Anzio. Le donne del bottegaio si tenevano una addosso all’altra senza più gridare e nemmeno fiatare, con le labbra ingiallite dalla paura: giacché i tuoni dei bombardamenti intorno a Roma adesso erano continui, di giorno e di notte. A questi tuoni, si aggiungeva il fracasso enorme dei carriaggi tedeschi, che percorrevano le grandi strade, non per ritirarsi, ma per attaccare con nuovi rinforzi. Lo sbarco di Anzio non era che un episodio vanificato. Il vero fronte stava sempre fermo a Cassino. La liberazione imminente era ancora la solita balla. La guerra non finiva.
Sulla fine di gennaio, Ida ebbe la visita inaspettata dell’oste Remo, che la chiamò in disparte, di fuori, dovendo comunicarle notizie urgenti da parte di suo figlio Nino. Asso stava benissimo di salute, e le mandava saluti e arrivederci, con tanti bacetti al fratello. Però, le ultime vicende di guerra, con l’avvicinarsi del fronte, le distruzioni dei paesi e i continui rastrellamenti tedeschi avevano costretto la sua banda a interrompere la lotta nella zona. La Libera si era sciolta, alcuni dei suoi componenti erano caduti, altri avevano abbandonato il campo. Asso e Piotr (Carlo) erano partiti insieme, decisi a raggiungere Napoli, attraversando la linea del fronte; e si poteva star certi che, svelti e valorosi com’erano, riuscirebbero nell’impresa. Mosca e Quattro erano morti: e in proposito, l’oste portava a Ida un messaggio postumo da parte di Giuseppe Cucchiarelli. Costui difatti, tempo prima, in via di assoluta e universale segretezza, lo aveva incaricato, nel caso di sua morte, di avvertire la Signora Ida che il materasso già lasciatole in eredità conteneva una sorpresa per lei. Fra la lana, nell’angolo segnato all’esterno con un nodo di filo rosso, c’era conservato qualcosa che a lui, da morto, non serviva più nemmeno per il cesso, mentre che a lei e al pupetto, invece, attualmente poteva far comodo.
Da parte sua, l’oste Remo portava in regalo a Ida un fiasco di vino, mezzo litro d’olio e due candele. Non gli parve necessario raccontarle i particolari della morte del Matto, né lei glieli domandò. Era avvenuta il 21 di gennaio, nella città di Marino, e per più di due giorni il suo corpo era rimasto esposto in mezzo alla strada, da dove i Tedeschi proibivano di smuoverlo, prendendolo a calci quando passavano di là. Da morto, il suo corpo sembrava ancora più piccolo e secco che da vivo, e la sua faccia, anche se gonfia dai maltrattamenti, aveva preso una fisionomia caratteristica da nonnetto rionale, a motivo della scucchia che quasi gli toccava il naso. I Tedeschi infatti, prima di fucilarlo, gli avevano strappato i quindici denti che ancora aveva in bocca, come pure le unghie dalle mani e dai piedi: per cui si vedevano i suoi piedi nudi, e le sue manine di vecchio, gonfi e neri di sangue coagulato. Era venuto alla città di Marino nelle sue funzioni di staffetta, per consegnare un messaggio cifrato da parte di Occhiali al comandante di un’altra squadra. E camminava insieme al compagno Tarzan, incaricato di recuperare una radio, quando, intravvedendo una sagoma incerta nelle tenebre della straducola, lui pronto intimò: «Altolà!» con piglio militare. In risposta, di dietro le case vennero delle voci che baccaiavano in tedesco, e Tarzan allora sparò; ma poi, svelto, fra la sparatoria che seguì dall’altra parte, riuscì a scappare via, mentre Mosca fu circondato e preso. Gli fu trovato addosso il messaggio, del quale, in realtà, non poteva rivelare il significato, giacché lui stesso lo ignorava (il testo era: la biancheria lavata sta nel secchio). Gli erano note, però, ovviamente, molte altre cose, che i suoi torturatori volevano fargli dire. Ma a quanto è risultato da prove evidenti, quei ragazzi tedeschi, nonostante il loro lavoro, non riuscirono a strappargli che dei pianti rumorosi, come di ragazzino; finché rinunciarono, finendolo con una fucilata nella schiena. Il suo sogno, a questo punto, sarebbe stato di concludere gridando: «Viva Stalin!» ma il fiato gli bastò a malapena a emettere un lamento non più alto di quello di un passero. Meno di un mese prima, esattamente il giorno di Natale, aveva compiuto i sessant’anni. Era della stessa classe di Benito Mussolini: 1883.
La fine di Quattro segue a poca distanza quella di Mosca: e fu precisamente nella notte fra il 25 e il 26 gennaio. A tre giorni dallo sbarco alleato, già i Tedeschi avevano avuto il tempo di raccogliere truppe di rinforzo, da nord e da sud; e il traffico dei loro automezzi invadeva le strade in direzione di Anzio. Tuttavia, si credeva ancora che gli Alleati avrebbero prevalso; e i compagni della Libera smaniavano di partecipare a questa battaglia finale di Roma. L’avventura su quelle strade li eccitava col suo rischio, come una vera impresa campale. E Quattro (o Quat come attualmente veniva più spesso chiamato), pure nel suo contegno decoroso e laconico, internamente ballava e saltava per l’entusiasmo: infine, si stava sulla linea del fronte, ormai ridotta a un filo.
Di qua, c’era il passato infame; e di là, il grande futuro rivoluzionario, quasi presente, oramai, si può dire. È vero che gli Angloamericani erano dei capitalisti: però dietro a loro, alleati, c’erano pure i Russi; e una volta cacciati i fascisti e i tedeschi, ci avrebbero pensato i proletari, tutti insieme, alla vera libertà. La notte del 25, pioveva a rovesci, e Quattro si era coperto la testa di un caschetto coloniale, da lui tinto di nero per mimetizzarlo, e sotto il quale la sua faccia tonda di contadinello scompariva quasi fino al naso. Aveva con sé il suo mitra, predato al nemico; ai piedi, i suoi scarponi impermeabili, predati al nemico; e si portava, naturalmente, la sua solita munizione notturna di chiodi quadripunte, la quale invero, stanotte, era piuttosto magra. Difatti, la rifornitura dei chiodi era diventata difficile, da quando alcuni fabbri amici che li producevano (romani, in prevalenza) erano stati «fermati» e portati all’ammazzatoio. E da ultimo, Quattro aveva preso a fabbricarseli lui stesso in una fucina di paese, in complicità col garzoncello e di nascosto dal padrone.
La prima impresa della Libera in quella notte fu dietro ai cavi telefonici, dei quali ne tagliarono e asportarono una lunghezza chilometrica. Poi sulla via di Anzio la squadra si divise in due gruppi: il primo, con Quattro, specialmente addetto al lancio preparatorio dei chiodi, si dispose sul margine di un crocevia; e il secondo, capeggiato da Asso (il comandante, Occhiali, giaceva a letto ferito), si appostò su un rialzo più avanti, a una certa distanza dal primo, coi mitra pronti sul passaggio dei trasporti tedeschi, già preparati dai chiodi.
Il crocevia, quella notte, era un punto di azzardo estremo. Ci si incrociava il traffico da Cassino e quello da Roma e dal Nord; e, a regolarlo, ci si trovavano due militi della Feldgendarmerie. Solo un tipo svelto e accorto come Quattro poteva riuscire al gioco: e in tali notti, poi, il suo corpo aveva sviluppato sensi e muscoli di gatto selvatico e ali di falchetto. Coi suoi occhietti accesi, spiava ogni minima distrazione dei due gendarmi, piuttosto grevi e tardivi; e senza sbagliare di un attimo, sgusciava fuori dal suo nascondiglio, quasi sotto il muso delle macchine, lanciando i suoi chiodi in mezzo alla strada con mira precisa e con lo stesso divertimento di quando si gioca a palline sul marciapiede. Poi ribalzava indietro: così svelto da passare invisibile o da farsi prendere, al massimo, per una bestiola nottambula in fuga. Finita la scorta dei chiodi, si ritrasse dietro i margini della carrozzabile insieme ai due del suo gruppo (uno era Decimo, e l’altro un ragazzetto dell’Ariccia detto
Negus). E in fila, procedendo curvi e in silenzio, si spinsero in direzione sud, con l’idea di ritrovarsi, eventualmente, col resto della banda per dargli rinforzo, senza però trascurare, durante il tragitto, le qualsiasi proposte tentanti del destino.
Si camminava alla cieca su terreni non battuti, fra fango e acqua. Ogni tanto, dalla strada, nel fruscio della pioggia, si poteva distinguere il rumore di auto tedesche che faticavano con le gomme a terra, e allora Quattro, con un sorrisetto contento, si faceva un segno di croce. Questo movimento, rimastogli attaccato dalle prime istruzioni infantili alla parrocchia, per lui non aveva attualmente nessun valore chiesastico; ma gli valeva per gesto familiare di buona fortuna o di scaramanzia (come uno che facesse le corna, o si desse una tirata ai riccetti sotto i calzoni).
Arrivati al piede di una scarpata, alta poco meno di tre metri, ci si arrampicarono in cima, per sorvegliare dall’alto, riparati da una sterpaglia, il passaggio nemico sulla strada. Prima videro passare una fila di autocarri, che proseguivano il viaggio benché in parte coi cerchioni bucati. Dopo un certo intervallo, una macchina chiusa e di grossa cilindrata, di una classe riservata in genere agli ufficiali di grado alto, filò veloce e senza danno sotto i loro occhi. Ma non era passato mezzo minuto, che a distanza verso sud si udì un ardito crepitio di mitraglia, poi un fragore, e silenzio. Dovevano essere quelli di Asso, che lavoravano. Un grande eccitamento si impadronì dei tre compagni, all’erta sulla scarpata, coi mitra pronti. In quel punto sotto di loro passava una camionetta scoperta, affollata di soldati con gli elmi di metallo che lustravano alla pioggia. Immediatamente i tre fecero fuoco all’unisono, mirando per primo all’uomo al volante. E seguitarono a sparare senza più staccare il dito dal grilletto, mentre la camionetta bucherellata e sfranta dopo una sbandata sul viscido sbarellava verso il margine opposto della carreggiata, fra urla straziate e scomposte. Si videro due corpi caderne rovesciati sull’asfalto, nel tempo stesso che dal veicolo s’incominciava a sparare confusamente. Come in una balera di carnevale, i fili rossi traccianti dei proiettili s’incrociavano attraverso l’aria strisciata dalla pioggia. D’un tratto dalla camionetta si levarono delle fiamme, che illuminarono i corpi dei tedeschi inanimati sulla strada: anche sfigurati, si riconoscevano dei ragazzetti delle ultime leve. La carcassa della camionetta ballò un poco su un fianco, e poi si arrestò. Ne vennero ancora pochi spari estremi, subito spenti in una raffica definitiva da sopra la scarpata; mentre ancora essa emetteva delle voci deliranti, con qualche mormorio di mutter mutter fra altre parole incomprensibili. Nel tempo stesso il fuoco divampava; e infine quella ferraglia rantolante e spasmodica ammutolì. Di qua dal cannoneggiare ininterrotto proveniente dal mare, attualmente si udiva solo il soffio delle fiamme, e un crepitio di materiali che bruciavano; e l’abbaio angoscioso di qualche cane da guardia fra gli uliveti e i vigneti.
Nelle tenebre, i tre sulla scarpata si dettero una voce sommessamente. «Quat?… Decimo?… Negus?…» «Sì… sì… sì…» In quel punto, da nord, uno strepito di cingoli ancora distante segnalava l’arrivo di mezzi blindati sulla strada; e i tre si ritirarono dalla scarpata a precipizio, fuggendo insieme verso i terreni retrostanti, fra i filari delle vigne, e i fossati, e l’acqua che scrosciava dal cielo.
Solo quando si furono addentrati di forse tre o quattrocento metri, Negus e Decimo si accorsero che Quat non era più vicino a loro. Ma supposero che si fosse sviato da qualche altra parte nella confusione delle ombre, e ormai del resto era troppo tardi per rintracciarlo. L’autocolonna in arrivo aveva fatto alt davanti alla camionetta. Già si udivano passi di scarponi ferrati sulla strada, mentre là d’intorno a loro incominciavano a risuonare richiami e ordini in tedesco, fra i rami annaspati delle vigne secche e madide, e il balenare delle lanterne cieche. Trattenendo il fiato, e strisciando carponi fra la melma, Negus e Decimo riuscirono a insinuarsi in un canneto, e di là, guadato uno stagno, si trovarono in un bosco dove, già, i suoni della caccia che li inseguiva arrivavano smorzati e spersi. Ancora, affannando, a bassa voce, si provarono a richiamare: «Quat… Quat…!» senza nessuna risposta. E ripresero la fuga; finché, grondanti di pioggia e di sudore, lividi e sfiatati, si trovarono in una vallata di poche casette buie, definitivamente al sicuro dalla muta.
Nell’ultima fase del duello con la camionetta, e mentre questa già dava gli ultimi sussulti, Quat era stato trapassato al petto da un proiettile; ma non aveva provato dolore, non più che se gli avessero dato un pugno; così che aveva attribuito l’urto a un frammento di sasso o a un grumo di terriccio-sbalzati dalla mitraglia; e questa sensazione non era neanche pervenuta alla sua coscienza, tanto era stata effimera. Non aveva nemmeno lasciato cadere il mitra (se lo era, anzi, riassestato a tracolla) e si era affrettato alla fuga insieme agli altri, scivolando con loro giù per la scarpata. Ma arrivato al fondo, d’un tratto si era sentito mancare, senza poter più fare un passo. Là stesso, difatti, ai piedi della scarpata, i suoi compagni ritrovarono in seguito il suo caschetto coloniale. E Negus rammentò di avere udito, mentre fuggiva di là, un lamento alle proprie spalle, ma così piccolo da non fermarcisi col pensiero. Quat, rimasto là indietro solo, si era piegato in due, coi ginocchi nell’acqua. E mentre la sua coscienza si perdeva, i suoi muscoli gli avevano però ubbidito, nell’atto istintivo di deporre il mitra sull’erba, all’asciutto (relativamente), prima di stendersi là dove si trovava, come si coricasse nel suo letto. Così si era lasciato giù, nel buio, con la testa sull’erba fangosa e il resto del corpo dentro una pozzanghera, mentre gli altri due inconsapevoli seguivano la loro corsa.
Era già in agonia. E non sapeva più se fosse notte, o mattina, né dove si trovava. Dopo un intervallo di tempo non più calcolabile per lui, d’un tratto vide una grande luce, e era la lampada portatile di un tedesco che lo illuminava in pieno viso. Dietro al primo tedesco sùbito ne apparve un altro; però lui chi sa chi avrà creduto di riconoscere in quelle due forme altissime, con l’elmo di metallo e la tuta mimetica maculata. Fece un sorrisino timido e contento, e disse: «Buon giorno». In risposta, si ebbe uno sputo in faccia, ma è probabile che non l’abbia avvertito. Forse era già morto, o forse agli ultimi respiri. I due militari lo afferrarono uno per le braccia, e l’altro per i piedi, e saliti rapidamente sulla scarpata lo scagliarono di là sopra nel centro della strada sottostante. Poi si affrettarono da un sentierino laterale alla colonna degli automezzi, ove già convenivano, di ritorno i loro altri camerati usciti inutilmente alla caccia. I corpi dei due tedeschini uccisi erano stati rimossi; dalla carcassa nera della camionetta, storta verso lo strapiombo, ancora balzava qualche fiammella rada, e ne veniva un odore ripugnante e atroce. Si gridò due volte un ordine, e la colonna motorizzata si mosse, avanzando sul piccolo corpo di Quat che stava là con le braccia un po’ scostate dal corpo, la testa rovesciata indietro a motivo dello zaino e ancora sulla bocca quel sorrisetto fiducioso e quieto. Il primo degli automezzi ebbe un leggero sobbalzo, che già, al successivo, risultò meno percettibile. La pioggia persisteva, ma più calma. Quando l’ultimo veicolo fu passato, doveva essere circa mezzanotte.
Di suo vero nome, Quattro si chiamava Oreste Aloisi, e aveva diciannove anni ancora da compiere, nato in un villaggio vicino a Lanuvio. Suo padre vi possedeva un pezzetto di vigna e una casa di due stanze, una sull’altra, con una cantinetta per la botte; però già da anni, presa decisione di emigrare, aveva ceduto in fitto quella sua proprietà.
Un’altra morta di quelle giornate fu Maria, detta da Asso Mariulina, e conosciuta in genere dai compagni come la roscetta. Fu presa con sua madre in un rastrellamento, e per la sua paura di morire tradì; però il suo tradimento riuscì inservibile sia per lei che per i Germanici.
Verso sera, tre o quattro militari tedeschi si erano presentati a casa sua. Ci venivano, in realtà, perché quello era un punto segnato; ma sul principio, forse per divertirsi a esibire un pretesto innocuo, nel farsi avanti disinvolti chiesero del vino. E Mariulina, senza nemmeno alzarsi dalla sedia, in risposta spinse avanti il mento con una mossa a dispetto per dire che non ne aveva. Allora, essi esclamarono: Perquizire perquizire e senz’altro, fra gli urli della madre, si dettero a buttare tutto all’aria nella casa, la quale poi consisteva in una sola stanza con annessa una stalluccia per il mulo. Rovesciarono con un calcio la credenza, mandandone in cocci tutto il contenuto delle stoviglie (in totale cinque o sei fra piatti e scodelle, due bicchieri, e una bambolina di porcellana). Fracassarono la specchiera; e avendo trovato due fiaschi di vino dietro al letto, stracciarono i lenzuoli, spaccarono il quadro sulla parete; e quindi costrinsero le due donne a bere di quel vino, per compagnia di loro stessi che ne bevevano. Maria, che aveva assistito a tutta la scena ferma in piedi e senza parlare, col volto accigliato, all’intimazione di bere si dette senz’altro a mandare giù il vino a garganella, con un’aria di oltranza impunita, come fosse all’osteria. Ma sua madre, che si strascinava fra le rovine mezza carponi e con moti scomposti delle braccia, come nuotando, non si sentiva stomaco di bere; così che ingurgitava e sputava e ingurgitava e sputava, tutta sporca di saliva vino e polvere mescolati. E intanto si sfiatava a spiegare a quelli che lei era una povera vedova, eccetera eccetera. Mentre Maria, con un sorriso sdegnoso e gelido la ammoniva: «E azzìttati, mà! che parli a fare? Tanto, questi non ti capiscono».
In realtà, uno di coloro capiva in parte l’italiano, e a stento lo parlava; ma storpiando le parole in un modo così comico, che Mariulina, già mezzo alterata, gli rideva in faccia. Invece di bere, colui diceva trìnchere, e Maria gli ribatteva, come se parlasse a un idiota: «E trìnchete e trànchete. Trinca te che trinco io».
Intanto s’era fatto buio. La lampada a acetilene s’era sfasciata col resto, e quelli accesero in volto alle donne le loro lampade portatili, grosse come fari, invitandole a guidarli nella stalla e negli altri ripostigli. Trovarono il mulo Zi’ Peppe, e l’olio, e altro vino, e decretarono: requizito! requizito! Poi, dentro una grotticella mezzo interrata, sotto a un mucchio di fascine e di patate scovarono delle cassette di munizioni e delle bombe a mano. Allora schiamazzando in tedesco risospinsero malamente le due donne dentro la casa e confinandole addosso al muro incominciarono a gridare: «Partizani! Banditi! Dove partizani?! noi trovare! voi parlare, o morte!» Pareva, all’udirli, che proponessero un’alternativa. E la madre, che adesso aveva preso a lagnarsi in una nota flebile e invariata, si volse supplicando a Mariulina: «Parla, fietta mia, parla!!!» Per una sorta di opportunismo sagace, essa si era tenuta all’oscuro delle manovre guerrigliere di sua figlia, benché le subodorasse. E adesso, era ridotta inerte e senza espedienti, in quei pochi centimetri di muro.
«Io niente sapere! Nein! NEIN!!» proclamò la Mariulina, squassando, con una estrema ferocia, la sua testa rossetta («In caso, nega, nega tutto!» l’aveva ammaestrata Assodicuori). Però, appena si vide puntare contro una pistola, le si sbiancarono le labbra, e i suoi occhioni di un colore di spiga chiaro, quasi rosa, si spalancarono atterriti. Non aveva paura delle serpi, né dei pipistrelli, e né dei tedeschi e né della gente. Ma degli scheletri e della morte aveva una paura enorme. Non voleva morire.
In quel punto, avvertì alle reni un piccolo spasmo caldo, che pareva scioglierle con dolcezza le giunture, rilasciandole giù in basso il peso del corpo. E repentinamente arrossì, serrando strette le gambe e sogguardandosi i piedi, che al flusso improvviso e violento già le si imbrattavano di sangue mestruale.
All’incidente che la sorprendeva imprevisto in presenza di tutti quei giovanotti, la vergogna le si mescolò con la paura. E sbattuta fra la vergogna e la paura, tentando di nascondere i piedi e insieme di pulire il pavimento bagnato con le suole delle sue scarpacce, tremando tutta come una canna disse tutto quello che sapeva.
In realtà, non sapeva molto. I guerriglieri, sapendola ragazzetta, piccola di nemmeno sedici anni, le avevano confidato solo l’indispensabile, e, per il resto, l’avevano lasciata nell’ignoranza, o magari le avevano raccontato delle balle. Per esempio, il suo «fidanzato» Assodicuori le aveva svelato in segreto di chiamarsi, veramente, Luiz de Villarrica y Perez, con un fratello, José de Villarrica y Perez (detto Useppe): nati in qualche pampa argentina (fra caballeros, caballos eccetera) e altre storie dello stesso genere. In sostanza, essa i suoi vicini guerriglieri, in massima parte, li conosceva solo di vista e di soprannome. Di nome, famiglia e recapito, conosceva solo: 1) il capo Occhiali, residente a Albano e attualmente ferito a una gamba: il quale però, in quei giorni, per la evacuazione forzata della città di Albano in seguito ai bombardamenti, era sfollato in barella chi sa dove; 2) Quat, ossia Aloisi Oreste, il quale era morto in quei giorni (mentre i suoi fratelli stavano spersi in qualche fronte, e i suoi genitori, braccianti agricoli, già emigrati in cerca di lavoro e poi rimpatriati, si baraccavano in qualche località indefinita); 3) e infine un certo Oberdan, di Palestrina, il quale attualmente, rientrato in Palestrina, dormiva come i suoi concittadini in giro per le grotte, fra le macerie della città. Ma di tutti questi rapidi eventi, nessuna notizia, ancora, poteva esser giunta a Mariulina.
Quanto alla informazione che soprattutto interessava i Tedeschi, e cioè il rifugio in cui si nascondevano i compagni, l’ultima sede certa di cui Mariulina avesse conoscenza era il piccolo casale in muratura nel quale il comando della Libera si era trasferito con l’inverno, lasciando la capanna dei primi tempi. La roscetta però non era informata che, di recente, i ragazzi avevano disertato anche quella sede, spostandosi senza fissa dimora da un colle all’altro, per evitare i rastrellamenti tedeschi; né che del resto a quest’ora si erano interrotti i collegamenti non solo della sua banda con lei, Mariulina; ma di tutte, fra loro, le bande già esistenti nei dintorni (le quali invero per lei si erano sempre mantenute come delle bande-fantasma, senza luoghi precisi né distinzione…); che da ultimo i compagni di Asso si erano separati e dispersi; e che, infine, mentre lei ne parlava ignara, il suo Asso già era partito insieme a Piotr per la loro avventura di là dal fronte.
Esaurita la confessione di Mariulina, lei e sua madre furono malmenate e buttate in terra dagli ospiti incanagliti, i quali poi le violentarono a turno. Uno solo non partecipò a quest’ultima violenza, per quanto invece si fosse sfogato peggio degli altri nei maltrattamenti, sembrandovi trasportato quasi da un’estasi all’inverso. Era un graduato di circa trent’anni, dalla faccia di vecchio, con rughe trasversali che davano un qualcosa di straziato alla sua fisionomia, e l’occhio fisso e incolore da suicida.
Quell’orgia affrettata e rudimentale fu accompagnata con altre bevute del vino requisito nella stalla. E a questo punto Mariulina, che in realtà fino a questa serata non aveva mai bevuto più di un bicchiere, per la prima volta nella sua vita si sbronzò. Però in fondo la sua bevuta non era stata eccessiva: così che la sua ubriacatura fu di quelle che non fanno male, ma anzi hanno effetto magico all’età di sedici anni, quando i canali del corpo sono sani e freschi. Appena rimesse in piedi, le due donne furono sospinte di nuovo fuori, e invitate a guidare la squadra verso il casale indicato dalla ragazza. Quando la compagnia si mosse, Mariulina percepì la sensazione effettiva che altri uomini armati sorgessero dalla notte esterna, formando una piccola folla intorno a loro due; ma questo fatto, nel suo presente umore, non le destò né allarme, né meraviglia.
Tutto le sembrava una scena innocua, come le figure di un ballo. Quel casale si trovava a cinque o sei chilometri di distanza, di là dalla vallata che, circa tre mesi avanti, Nino e Useppe avevano guardato dall’alto col binocolo. La notte non era molto fredda, non pioveva, e il fango dei giorni precedenti si era in parte indurito sui viottoli. Le parti alte dei colli erano coperte da una caligine, ma, sulla valle, poche nubi in cammino, leggere e sciolte come nastri, lasciavano scoperti larghi spazi stellati. Dalla parte del mare, le artiglierie rintronavano quasi ininterrotte, fra bagliori lampeggianti e segnali che si accendevano e si spegnevano nella bruma. Però quello spettacolo fragoroso, che da più di una settimana accompagnava di continuo l’esistenza nella vallata, laggiù stanotte non faceva maggior effetto che una tempesta marina all’orizzonte. Delle due donne, la più anziana (la sua età, invero, non arrivava nemmeno ai 35 anni) s’era istupidita, e barcollava come sul punto di sturbarsi, così che i militari della scorta la spingevano a forza per le spalle; mentre la ragazzetta, tutta riscaldata dal vino, era portata da un eccitamento passivo, senza nessun pensiero. Per la sua funzione di guida, essa camminava in testa alla spedizione, a qualche passo da sua madre che, messa in mezzo come una prigioniera, seguiva col resto della scorta. Nel suo vestituccio nero, e di statura piccola, la donna scompariva alla vista fra quei militi colossali; però Mariulina non si voltava nemmeno indietro a ricercarla, tanto ogni cosa d’intorno le appariva inoffensiva e fantastica, straniandola, eppure dandole fiducia. Avvezza com’era a quei cammini, essa procedeva sciatta e incurante come una bestiola, e anzi, in qualche punto, seguendo la sua prontezza naturale, saltava avanti ai soldati. La vergogna, la paura, e anche la noia della sua sporcizia fisica le si scioglievano nell’unico piacere sventato del corpo in movimento, come andasse ballando. E non si accorgeva che i capelli pesti e scarmigliati le cadevano in faccia, né che la maglietta strappata le lasciava il petto mezzo scoperto; perfino la sensazione del sangue fra le gambe o della saliva in bocca le davano un senso affettuoso di calore. Il paesaggio familiare le correva incontro ubbidiente mentre il punto di arrivo le pareva lontano lontano, lasciato all’infinito come le nuvolette che correvano per il cielo. E frattanto si svagava dietro sensazioni di passaggio, seguendo incuriosita i fumetti degli aliti nell’aria, o i capricci delle ombre sul terreno. A un bel momento, dalla parte fra i Castelli e il mare, si videro dei palloncini luminosi e di tutti i colori salire verso il cielo a centinaia. Dapprima stettero sospesi, disegnando come delle spighe, o dei ciuffi di palma, poi scesero a cascata, sfilati in una lunga collana variopinta attraverso l’aria; e da ultimo si fusero in un grande finale, che abbagliò tutta la campagna col suo unico fulgore bianco. Con gli occhi sgranati in su verso lo spettacolo, Mariulina sbandò inciampando; e le sembrò che il militare al suo fianco, nell’atto di rimetterla al passo, l’avesse abbracciata. A sogguardarlo, lo riconobbe. Era stato l’ultimo a violentarla, strappandola di prepotenza a quello che c’era stato prima; e lei fu convinta, ravvisandolo, che non s’era comportato con la sguaiataggine zozza degli altri. Era un bel ragazzetto dai tratti irregolari, col naso capriccioso, la bocca arricciata in modo che pareva sempre sul punto di sorridere, e gli occhi piccoli e cerulei fra i cigli dorati, corti e duri. «Deve volermi bene», si disse fra di sé Mariulina, «per non essersi preso schifo di me, su a casa, dato come stavo…» (nel periodo mestruale, Asso, il primo e unico amante suo, si stornava da lei). E in atto spontaneo, s’appoggiò con la testa sul petto del ragazzo. Costui la sogguardò con aria insicura e sfuggente, ma quasi gentile. Di lì a poco, giù in basso fra gli avvallamenti della collina, a circa duecento metri di distanza, s’intravvide il casolare che cercavano.
La piccola costruzione biancastra, e senza finestre da quel lato, appariva messa per istorto sul terreno ineguale, col suo tetto malconcio e la porticina chiusa. D’impulso Mariulina fece un balzo in avanti, quasi per correre da Assodicuori, laggiù in attesa di lei secondo l’abitudine, già pronto con la bocca straripante di bacetti sul suo lettuccio che traballava. Ma delle braccia estranee la bloccarono, fra voci minacciose che la interrogavano in tedesco. «Ja, ja, sìne, sìne…» lei balbettò, spersa; allorché d’un tratto prese a divincolarsi, spalancando gli occhi in uno sguardo agghiacciato e attonito. «Mà! Màààà!» chiamò voltandosi indietro in cerca di sua madre, e rompendo in un pianto di bambina. E solo dopo un tratto intese la voce di sua madre che a sua volta la chiamava: «Maria! Marietta!» da qualche punto prossimo a lei ma impreciso, di fra i militari che le stringevano in mezzo entrambe scendendo giù a capofitto la scarpata verso la casupola. Le loro lampade cieche frugavano per il buio; ma non si scorgeva ombra di vedetta là in giro, né si avvertiva altro suono che quello dei loro propri passi. Tutti in assetto di guerra, coi mitra spianati, essi in parte si appostarono all’esterno fra gli ulivi, mentre due o tre aggiravano la casupola, e altri si piantavano sulla porta. Sul dietro, l’unica finestrella della casa era spalancata; e uno con la lampada ne esplorò circospetto l’interno buio, mettendo mano alle bombe appese alla sua cintura e borbottando un commento in tedesco, mentre, in quello stesso istante, i suoi compagni sul davanti abbattevano la porticina coi piedi e i calci dei fucili. Sotto i fasci abbaglianti delle lampade, l’interno della stamberga si svelò disabitato e in totale abbandono. Sul pavimento era sparsa della paglia, marcia dalle piogge entrate per la finestra aperta: né c’erano altre suppellettili se non un lettuccio metallico, senza materasso né coperte, del quale un piede mancante era sostituito con una pila di mattoni; e una rete di ferro, con sopra un materassetto di crine striminzito e bagnato di pioggia. Sul materasso c’era una gavetta sfondata; in terra il manico rotto di una posata di stagno; e appeso a un chiodo un pezzo di camicia strappato, e imbrattato di nerastro, come fosse servito a fasciare una ferita. Nient’altro: nessuna traccia di armi, né di cibarie. Unico segno di vita recente era, in un angolo, un cumulo di merda non ancora secca, deposta da Asso e compagni in isfregio ai probabili rastrellatori, come usano certi malfattori notturni sul posto della cassaforte scassinata. Inoltre sulle pareti, umide e lerce, si leggevano, ancora fresche, delle enormi scritte a carbone: VIVA STALIN, HITLER KAPUTT, VIA I TEDESCHI BOIA. Così come sui muri esterni della casupola, sopra a una precedente scritta fascista VINCEREMO era stato aggiunto di fresco un NOI a lettere assai più grosse.
Là dentro, un paio di giorni dopo, furono trovati da gente della campagna i corpi di Mariulina e di sua madre: massacrati dai proiettili, e sfranti fino dentro la vagina, con tagli di coltello o baionetta in faccia, alle mammelle e per tutto il corpo. Stavano buttate a distanza una dall’altra, sui lati opposti del locale deserto. Ma furono seppellite assieme dentro la medesima buca, là nel terreno stesso intorno alla casupola, in assenza di parenti o amici che provvedessero ai loro funerali. Nel séguito dei suoi giorni movimentati, Ninnuzzu non doveva mai più curarsi di tornare su quei luoghi: e, a quanto si suppone, non avrà mai saputo né della morte di Mariulina, né del suo tradimento.