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La statura di Nino, in quell’anno, s’era fatta molto più alta. E il disegno del suo corpo s’adattava a questa crescenza in un modo sbandato, cambiando senz’ordine né misura: con effetti di sproporzione e sgraziataggine, i quali, però, nella loro durata passeggera, gli davano un’altra grazia. Come se la forma della sua infanzia si rivoltasse, in una lotta drammatica, prima di cedere alla sua impazienza di crescere.

Quando si guardava allo specchio, faceva delle smorfie furenti, mirate da suo fratello Useppe (che gli andava sempre dietro) con interesse profondo, come al circo. Il motivo principale della sua rabbia era il suo vestiario, tutto rimediato e scombinato nella impossibile gara con la sua crescita. E per dispetto, certi giorni, usciva camuffato con indumenti stravaganti: per esempio, un asciugamano sporco a uso di sciarpa, una vecchia coperta di lana sulle spalle e in testa un cappellaccio mezzo sfondato di suo padre: da somigliare a un capraro e a un bandito. E era capace di presentarsi pure a scuola in questo costume.

Sempre affamato, andava frugando nella credenza di cucina e dentro le pentole, arrivando a mangiare le pietanze prima che finissero di cuocersi, tanto era fanatico. Una sera arrivò sventolando come uno stendardo, senza nemmeno preoccuparsi di nasconderlo, un enorme pezzo di stoccafisso, che aveva rubato, disse, a Piazza Vittorio, perché aveva voglia di mangiare baccalà con le patate. Ida, spaventata nel suo rispetto per le leggi, rifiutò di cucinarlo, dicendogli di riportarlo indietro; ma lui dichiarò che, se lei non lo cucinava, lui se lo sarebbe mangiato crudo tutto intero, là sull’istante. Allora Ida come una martire lo cucinò, ma non volle mangiarne. E beati ne banchettarono lui, Useppe e Blitz.

Questo furto con destrezza significò, per lui, la scoperta di un nuovo divertimento. Un’altra sera arrivò con una collana di salsicce intorno al collo, e un’altra sera con sulla spalla un pollastro vivo: dicendo che avrebbe pensato lui a ammazzarlo e a spennarlo, e Ida poi l’avrebbe cucinato. Ma siccome il pollastro si rivelò immediatamente un animale buffo e ardito (che invece di scappare cantava, beccava nella chioma di Nino come fosse un’erba, e giocava a acchiapparella con Useppe e con Blitz) Nino gli si affezionò e non volle più farlo morire. Così, nei giorni seguenti, il pollastro rimase ad abitare in casa come un pensionante, minacciando gli scarafaggi con le ali spalancate, saltando sui letti e sporcando ovunque. Finché Ida si risolse a scambiarlo con qualche scatoletta di sardine.

Adesso (oltre alla macchia di essere, lei maestra, quasi la involontaria complice di ladrocinii) Ida, ogni volta che Ninnuzzu tardava, si faceva smorta, pensando che l’avessero scoperto in flagrante. Ma lui diceva, garantendosi, che in questo caso avrebbe mostrato il fazzoletto nero, con un teschio stampato sopra, che portava al collo: dichiarandosi moschettiere del Duce, autorizzato alle requisizioni alimentari.

Quella, per Nino, fu la stagione della smania. L’invernaccio maledetto contrastava le sue scorribande diurne e notturne per le strade; e certe sere, mancando anche di soldi per il cinema, il ragazzo era forzato a rimanere in casa coricandosi presto. Siccome però il fratellino e il cane si addormentavano prima di lui, lui, solo, privato pure di quei suoi fedeli gnomi, fino all’ora di dormire non sapeva dove mettersi né come sfogarsi. Tanto che si riduceva perfino a discorrere con sua madre, magnificando loquace le trame degli ultimi film, o l’èra futura del grande Reich, o l’arma segreta; mentre che lei, seduta alla tavola di cucina, già sotto l’azione dei suoi sonniferi, piegava le palpebre appesantite e crollava giù la testa, fino a urtarla contro il marmo della tavola. Nella sua oratoria fanciullesca, frattanto, lui non stava fermo un attimo, come a una urgenza infrenabile che volesse esprimersi da tutti i muscoli del suo corpo. Ora prendeva a calci uno straccio che gli capitava fra i piedi, e ci si dava con veemenza per tutta la cucina, come su un campo di football; ora scagliava un pugno, e poi un altro, nell’aria, come su un ring… Finché, dopo un vano fischio rivolto a sua madre, avuta la prova che lei dormiva, rinunciava a parlare da solo e se ne andava nella sua stanza, ingrugnato.

Nemmeno la lettura dei suoi giornaletti sportivi, e romanzi avventurosi o scandalosi, non riusciva più a divertirlo; anzi, aumentava la sua smania, attizzandogli la voglia dell’azione, o di fare l’amore. A questo punto, certe sere, usciva in istrada, anche sotto la pioggia, puntando sulla fortuna d’incontrare qualche compagnia raminga, magari anche una infima puttanella sperduta che, per simpatia dei suoi riccetti, lo ricevesse gratis nella propria cuccia, oppure (se non aveva fissa dimora) lo seguisse zitta su per le scale al sesto piano, fino al suo divanoletto. Dove Blitz, già opportunamente ammaestrato per queste evenienze, li accoglieva senza emettere suono, salutando a malapena con la coda.

Ma simili fortune, che gli erano capitate, in realtà, nella buona stagione, e anche un paio di volte verso Natale, si ripetevano assai raramente. Di regola, Ninnarieddu incontrava solo il deserto gelato della pioggia e delle tenebre. E rincasava solo, tutto bagnato, per coricarsi a testa in giù contro il cuscino, arrabbiato di dover dormire così presto! mentre la vita, con le sue cucce d’amore, le sue bombe, i suoi motori, le sue stragi, ancora imperversava dovunque, allegra e sanguinosa!

La scuola, ormai, gli era diventata una costrizione impossibile. E non di rado, al mattino, specie nei giorni di maltempo, dopo avere risposto borbottando all’usuale chiamata di Ida, partita lei si rivoltava dentro le coperte, per seguitare a dormire voluttuosamente altre due ore almeno, senza curarsi della lezione perduta. Quando poi s’alzava (tutto carico d’energie libere e fresche, felice di aver fatto vacanza) perfino gli inquilini del piano di sotto ne prendevano paura, e si davano a protestare picchiando nei soffitti con la scopa. La casa si trasformava in uno stadio, in un circo, in una giungla. Il massimo divertimento della mattinata stava nelle ricerche di Roma e di Lazio, fatalmente soggette a sparire nella foga delle solite gare, che a questo punto diventavano una caccia epica. Si spostavano mobili, si rovesciava, si esplorava, si frugava, e si buttava tutto all’aria: finché Blitz risbucava impolverato da qualche anfratto recando fra i denti le prede ritrovate: esultante, e applaudito come un campione.

Tali sfoghi bambineschi non consumavano, ma anzi esasperavano, la turbolenza di Nino, portandolo all’eccesso, come una tribù aizzata dalle proprie urla. Nel mezzo di quelle gare sballate, in una allegria furiosa e quasi tragica, lui si buttava a correre le stanze, imitando gli zompi e i ruggiti dei leoni, delle tigri e delle altre fiere. Poi balzava su una tavola gridando: «Attenzione!

Tutti al muro!! Fra tre secondi scocca l’ora H! Tre… due e mezzo… due… uno e mezzo… uno… ORA H!!! Heil Hitler!» con tale feroce verisimiglianza che perfino Blitz ristava perplesso, e Useppe esplorava in aria, aspettandosi di veder comparire la famosa ORA H, che per lui s’identificava con una sorta di lioplano.

Nei dopopranzi, a volte, perseguitato dai bronci di Ida, Ninnuzzu si sedeva al tavolino, per fare i còmpiti di scuola. Ma subito incominciava a sbadigliare, quasi avesse la malaria. E mentre sfogliava i libri con uno sguardo amaro, come non sapesse quale uso farne, ogni tanto ne stracciava dei pezzi di pagina e li masticava, risputandoli poi subito per terra. Infine, nauseato da quel martirio assurdo, si alzava dicendo che prima di mettersi a studiare aveva bisogno di prendere aria. Blitz accorreva, entusiasta della decisione; e fino all’ora di cena i due non si rivedevano a casa.

Spesso però, sebbene a malincuore, lui rinunciava alla compagnia di Blitz, per muovere più sciolto alle sue azioni; e queste azioni, anche se erano soltanto delle andate al cinema o in tram, balenavano minacciose e nefande alla mente perplessa di Ida. Gli si era sviluppato, fra l’altro, un carattere rissoso. Una volta, arrivò con le nocche della destra insanguinate; e disse che aveva menato a uno, il quale aveva insultato il Duce. E in che modo lo aveva insultato? Aveva detto che il Duce oramai era un vecchietto, d’una sessantina d’anni all’incirca. Un’altra volta, ritornato a casa con uno strappo nella maglia, disse che s’era azzuffato per gelosia. Gelosia non sua propria, ma d’un altro, fidanzato d’una tale, che s’era ingelosito di lui.

Un’altra volta ancora, si presentò a casa con un occhio nero. E disse che aveva affrontato da solo due individui, e avevano fatto a botte, uno contro due. Ma chi erano costoro? E che ne sapeva, lui, chi erano? Erano due stronzi, mai conosciuti prima, che mentre lui passava, col cappello calato e la sua coperta addosso, s’erano urtati il gomito, dicendosi fra loro: «Anvedi er Negus?!»

Quell’occhio abbottato (avendogli Ida rifiutato i soldi per un paio d’occhiali neri) gli fu pretesto per non farsi vedere a scuola durante alcuni giorni. Ma oramai, del resto, le sue assenze da scuola erano più numerose delle sue presenze; e per proprio conto, lui stesso poi si firmava le giustificazioni col nome di sua madre. Al preside, che infine lo invitò a presentarsi accompagnato o da suo padre, o da sua madre, insomma dal Capo responsabile della famiglia, lui spiegò che di famiglia lui aveva soltanto un fratellino piccolo, e un cane, e una madre vedova (occupata tutti i giorni come insegnante alla scuola); e che quindi il capo responsabile della famiglia era lui. Dopo di che, siccome il preside (uomo spavaldo, chiomato di bianco, ostentante modi giovanili e camerateschi) era un fascista decorato, che inoltre si chiamava Arnaldo come il fratello di Mussolini, pieno di fiducia gli chiese, approfittando di questo colloquio, una raccomandazione per venire sùbito ammesso volontario nella guerra. Ma il preside gli rispose che, alla sua età, finché la Patria non lo chiamasse, il suo dovere di fascista era, intanto di studiare; che la Patria non si serve solo sui campi di battaglia, ma nel chiuso delle aule e delle officine, eccetera. E per concludere, nella fretta di levarselo di torno, citandogli il motto del Duce Libro e moschetto, con un saluto romano lo congedò.

Allora, dopo essersi chiuso l’uscio della presidenza alle spalle, Nino, pieno di strafottenza e di rabbia, si rivolse a salutare quell’uscio con una mossaccia oscena.

Lo strazio delle lezioni lo rendeva quasi pazzo. Il banco gli era troppo stretto, e, anche senza accorgersene, ogni poco dava spinte, o sospirava. Di tutti gli argomenti che si trattavano in classe, a lui non importava assolutamente nulla: gli pareva comico che della gente si riunisse là dentro per questo, sprecandoci intere mattinate. E lo prendeva la tentazione, proprio fisica, di erompere sui banchi buttando tutto all’aria, e dandosi alle imitazioni della tigre e del leone, come faceva a casa. Allora, non sapendo più come salvarsi da simile tentazione, d’un tratto fingeva una tosse cavernosa, apposta per essere mandato nei corridoi.

Perché la sua presenza disturbasse meno, i professori lo avevano messo da solo, come un reprobo, a un ultimo banco in fondo. Ma, occupata da lui, quella solitaria dimora non pareva più una gogna: piuttosto, la gabbia singola di un galletto in un recinto comune di pulcini. E da quell’isolamento speciale, la sua presenza, per gli altri, era ancora più mordente: attizzando la compiacenza vassalla, quasi innamorata, che i suoi compagni in generale provavano per lui. Quando un estro lo prendeva, lui era capace, con la sua bravura, di mobilitare tutta la classe. Così, una mattina di scirocco, per variare la lezione di greco, a un certo punto prese l’iniziativa di spingere senza parere, puntandolo coi piedi, il banco davanti al proprio. E al suo segnale, già stabilito prima, gli altri suoi complici lo imitarono in un accordo collettivo; così che fra un silenzio impunito tutta la schiera dei banchi incominciò ad avanzare, come la foresta di Dunsinane, verso la cattedra dell’insegnante. Il quale, sempre in colpa per i suoi pensieri politici sospetti, snervato dalle angustie e mezzo allucinato dalla fame, a quel fenomeno mostrò una faccia smorta, quasi che davvero, per un momento, si sentisse inchiodare, come Macbeth, al punto segnato dal destino.

Ma certe risorse miserrime da ginnasiale non bastavano più alla noia di Ninnuzzu, la quale, verso l’equinozio di primavera, diventò tragica. Durante le ore di lezione, lui sbadigliava di continuo; e quando, con buona volontà, ricacciava indietro gli sbadigli, dallo sforzo era costretto a digrignare i denti o a fare delle boccacce spaventose. Involontariamente gli succedeva d’allungarsi sul sedile del banco come su un triclinio; e redarguito, per questo, dall’insegnante, nel ricomporsi prendeva un’aria sinistra, da assassino nel vagone cellulare.

Non resistendo alla voglia incessante di fumare e di muovere i piedi, s’inventò (come scusa per uscire più spesso dall’aula) che soffriva d’una sorta di dissenteria. E così andò a finire che buona parte delle sue mattinate scolastiche lui le passava nei cessi. Dove si attardava a fabbricarsi con delle cartine e degli scarti di tabacco rimediato le sue sigarette di guerra, succhiandole poi, con furia e voluttà, fino all’ultimo brandello rognoso che gli bruciava la mano. Quindi, se ne aveva la fantasia, si divertiva a sconciare il luogo, decorandone un uscio, o un angolo di parete, con qualche disegno anonimo di nefandezza favolosa. E quando, con suo comodo, rientrava in aula (come anche già prima all’uscirne) non si dava la pena di recitare la sua parte d’infermo; ma anzi, aveva un’aria fiera e anarchica. Così che i compagni lo guardavano con occhiate ridarelle di ammirazione e di omertà.

Uno di quei giorni, durante un intervallo il preside lo fece chiamare per avvisarlo che, all’indomani, se non si presentava accompagnato dalla madre, non sarebbe stato ammesso in classe. Lui disse: Va bene, e rientrò in aula. Ma, non appena rientrato, subito si pentì di esserci; e addusse il solito motivo del suo morbo, per farsi mandar fuori. Stavolta, però, uscito dall’aula, non si avviò ai cessi; ma scese la scalinata, e, passando davanti alla portineria, disse: Permesso speciale!, con una tale grinta che il portiere stesso ne ebbe paura, e non osò discutere. Siccome il cancello era chiuso, lo scavalcò. E appena fuori, pisciò contro il muro di cinta: dando con questo, alla scuola, il suo ultimo addio.

La sera stessa, annunciò a Ida che lui, oramai, sapeva tutto lo scibile, e smetteva la scuola. Tanto, presto avrebbe dovuto smetterla lo stesso, per fare la guerra. Finita la guerra, poi, se ne sarebbe riparlato.

Questa notizia ebbe il potere di riscuotere Iduzza, per qualche minuto, dalla sua fiacchezza serale, e perfino di rimescolare certe sue ambizioni estreme. In fondo, la sua prima idea, quando Ninnuzzu era piccolo, sarebbe stata di vederlo diventare un grande professore, uno scienziato, un letterato, o insomma un professionista importante; ma le rimaneva, a ogni modo, l’impegno irrinunciabile di farne un laureato. Nessun’altra spesa le pareva altrettanto necessaria; finché, da ultimo, per non intaccare, almeno, il suo famoso tesoro nascosto nel busto, s’era disfatta dei suoi piccoli ori, di vari mobili di casa e d’ogni altro oggetto vendibile: fino ai materassi di lana, che aveva scambiato con altri di kapok e con qualche chilo di pasta.

All’annuncio catastrofico di Nino, addirittura parve gonfiarsi fino nei capelli, come certi piccoli animali indifesi quando assumono l’aspetto terrificante. Secondo il solito, in una povera e buffa riesumazione di sua madre Nora, ritrovò sulle proprie labbra le tragiche invettive dei figli di Sion contro Tiro o Moab… E fra questi improperii e lamentazioni, si sbatteva qua e là per la cucina, quasi sperasse che dalla cappa del camino, o da sotto l’acquaio, davanti a lei spuntasse una qualche forma di alleanza, o di aiuto… Ma non c’era niente da fare: essa era sola, a combattere contro Nino. E le sue proteste, a lui, facevano, più o meno, l’effetto che farebbe la voce di un grillo o di una ranocchia a un pistolero che cavalca nella pampa.

I suoi pochi interventi, nell’accanito monologo di Ida, erano solo per dirle, con voce di conciliazione: «Insomma a’ mà, quando la pianti?», finché alla lunga, dando qualche segno d’impazienza, se ne andò nel salotto studio. E Ida lo seguì.

Allora esasperato lui si dette a cantare come un coro immenso, per non più sentirla, gli inni fascisti; improvvisandoci sopra, per far peggio, delle varianti oscene. A questo, la paura, com’era prevedibile, annientò Ida. Diecimila poliziotti immaginari sprizzarono dal suo cervello dentro quella stanza esplosiva, mentre da parte sua Nino, fiero del proprio successo, attaccava addirittura Bandiera rossa… Né poteva mancare l’accompagnamento di Blitz: il quale, sconcertato da quel dialogo ineguale, dava in latrati matti e spersi, come vedesse in cielo due lune.

«…basta. Vattene pure… alla guerra… dove vuoi…» prese a ripetere Ida, in disparte, con la gola secca. La sua voce era appena un mormorio. E traballando come un fagottello, essa si lasciò cadere su una sedia.

Frattanto Useppe, risvegliato dal frastuono nel suo primo sonno, e non arrivando, nella sua piccola statura, alla maniglia dell’uscio, andava chiamando allarmato: «Màà! Ino! Aièèèè!» Senz’altro Nino, contento del diversivo, mosse a liberarlo; e, per rifarsi della scena straziante con la madre, si abbandonò ai soliti giochi col fratello e col cane. Un’allegria meravigliosa si scatenò per le stanze. Mentre Ida, ammutolita sulla sua sedia, si metteva a scrivere, lasciandolo poi bene in vista sul tavolino del figlio, il messaggio seguente:

 

Nino!

fra noi tutto è finito!

Lo giuro!

tua madre.

 

Per il tremito del suo polso, i caratteri di questo scritto erano così storti e sbandati, da parere l’opera d’uno scolaretto di prima classe. Alla mattina seguente, il messaggio stava ancora là, dov’essa l’aveva lasciato, e il divanoletto era intatto e vuoto. Nino quella notte aveva dormito fuori.

 

* * *

 

Da quella sera, non di rado Nino passò le notti fuori di casa, non si sapeva dove né con chi. Verso l’inizio della terza settimana, una volta, in compagnia di Blitz, scomparve per due giorni. E Ida si domandava spaurita, nella sua impotenza, se dovesse risolversi a cercarlo per gli ospedali, o anche (minaccia per lei fra tutte la più orrenda) alla Polizia; quando se lo vide ricomparire, seguito da Blitz, gioioso e tutto vestito di nuovo. Portava un giubbetto di tela incerata nera foderata di turchino, una camicia celeste, pantaloni di finta flanella, dalla piega ben stirata, e scarpe nuovissime, addirittura lussuose, con la suola di para. Perfino un portafogli aveva (e lo mise in mostra con aria di sfoggio) contenente un foglio da cinquanta.

Ida osservava queste novità, intontita e inquieta, sospettando, magari, altri furti; ma Ninnuzzu, prevenendo ogni inchiesta, le annunciò, tutto luminoso di compiacimento: «Sono regali!» «Regali… e chi te li ha fatti?» essa mormorò, peritosamente. E lui, con prontezza spavalda e sibillina, rispose «Una vergine!» Poi, vedendo sua madre alterarsi un poco a questa parola, reagì subito, per correggere, con una faccia sfrontata: «Beh. Una puttana! te va?» Ma siccome, a tale risposta più chiara, il volto già alterato di sua madre si coprì addirittura di rossore, proruppe, animosamente:

«Ahò! A dirti una vergine, ce sformi. A dirti una puttana, te sturbi. Allora, te do da sceglie quest’altra: una checca!»

Iduzza, che riguardo a certi vocabolari era più sprovveduta di una monacella, lo guardò, a questa nuova risposta, con semplicità inerte, senza capire nulla. Ma intanto era sopravvenuto Useppe, il quale, pure fra gli assalti appassionati di Blitz, al cospetto del suo nuovo, elegante fratello ristava abbacinato. Come fosse al Teatro dei Pupi, sul punto che dall’alto della scena cala giù il Paladino Orlando nell’armatura d’argento.

E Ninnarieddu, nella sua straripante felicità e voglia di giocare, si appartò col fratelluccio. Anzitutto, gli insegnò subito una parola nuova: puttana. E rise pieno di beatitudine alla prontezza con la quale Useppe imparò a ripeterla, naturalmente a suo modo: pumpana. Ora, al vedere il divertimento immancabile di Ninnarieddu non appena gliela sentiva ripetere, Useppe rimase convinto che questa parola fosse, in se stessa, comica: tanto che in séguito, ogni volta che diceva pumpana, già ne rideva per conto suo come un matto.

Dopo di che, in segretezza fra loro due, il fratello gli annunciò la meravigliosa nuova che presto lo avrebbe portato a spasso in bicicletta per tutta Roma: giacché dentro due tre giorni al massimo contava di possedere una bicicletta da corsa, che gli era stata promessa in regalo. E lasciando in pegno a Useppe questa promessa divina, di nuovo scomparve nella sua ricchezza e splendore, simile alle fate dei racconti.

Ma la sua promessa della bicicletta non fu mantenuta. Dopo essere rimasto ancora due giorni e tre notti senza farsi vedere, ritornò appiedato, a un’ora incredibile: circa le sei della mattina! quando Useppe dormiva ancora profondamente, e Iduzza, da poco alzata, ancora in camicia e vestaglia, preparava sul fornello dei broccoli per il pasto di mezzogiorno. Al solito, era seguìto da Blitz, il quale però si mostrava insolitamente depresso, e così digiuno che s’approfittò persino di un torso di broccolo freddo trovato in cucina sotto la tavola. Lui stesso, poi, pure nei medesimi vestiti nuovi dell’ultima volta, appariva povero, sporco e scarmigliato come uno che avesse dormito sotto i ponti. Sulla faccia, assai pallida, e sul dorso della mano, aveva dei graffi violenti e crudi. E senza nemmeno inoltrarsi nelle stanze, sùbito all’entrare si sedette sulla cassapanca dell’ingresso: dove rimase, corruscato e muto, quasi portasse addosso una maledizione.

Alla interrogazione concitata di Ida, rispose: «Làsseme pèrde!», in una maniera così torva e perentoria che sconsigliò la madre dall’insistere. Più di un’ora e mezza dopo, quand’essa uscì per il suo lavoro, lui stava sempre là, nella stessa posizione di prima; con Blitz che dormiva un sonno gramo ai suoi piedi.

La nottata era stata interrotta dagli allarmi, fattisi più minacciosi con la primavera; e Useppe, meno mattiniero degli altri giorni, si svegliò alle otto passate. Qualcosa, nell’aria, lo avvertì di una sorpresa (in cui ribalenava, fra l’altro, la visione di un raid ciclistico); e prontamente, con un esercizio spericolato, che lui però eseguiva oramai da esperto, si calò da solo giù dal lettino. Di lì a un istante, faceva la sua comparsa sulla soglia dell’ingresso: e, all’apparizione di Nino, seduto là sulla cassapanca, immediatamente spiccò la corsa verso di lui. Ma Ninnarieddu gli urlò contro: «Làsseme pèrde!» con una tale brutalità furente da arrestarlo impietrito a mezza strada.

Questa era la prima volta, nei venti mesi e più della loro convivenza, che suo fratello lo trattava male. E, per quanto Blitz, subito mosso a salutarlo, si adoperasse, frattanto, a fargli cuore con le sue raspose leccatine e sventolii di coda, lui, dallo stupore, rimase quasi insensibile, senza fiato e inchiodato sul posto. Con sulla faccia una serietà amara, e tutta compresa di una strana solennità: come dinanzi a un decreto assoluto e indecifrabile del destino.

A Nino, nell’atto di scacciarlo, capitò, naturalmente, di dargli un’occhiata; e la vista della sua persona, pure in quell’alba di tragedia, gli produsse, istantaneamente, un effetto comico. Il fatto era che Useppe, grazie al clima già tiepido primaverile, non portava addosso, per la notte, nient’altro che una maglietta di lana: la quale era così corta da coprirlo appena in vita, lasciandolo, dalla pancia in giù, tutto nudo, davanti e di dietro. Questo, alla sua levata, era il costume in cui lui si trovava; e in cui restava, se nessuno provvedeva a rivestirlo, durante tutta la mattina e magari anche il resto del giorno. Lui però se ne andava così in giro per la casa, nella sua semplicità, con la medesima naturalezza e disinvoltura che se fosse stato vestito.

Ma nell’occasione presente, quel suo semplice costume contrastava con la gravità estrema della sua faccia in un modo così curioso che Nino, appena l’ebbe adocchiato, sbottò in una risata irresistibile. E sùbito alla sua risata, come a un segnale liberatorio, Useppe accorse a lui tutto allegro, nel ritorno di una fiducia totale. «Ahò! Làsseme pèrde!» lo avvisò ancora Nino, rifacendo la grinta del bullo; ma lo stesso gli dette, per contentarlo, un bacetto sulla guancia. Prontamente Useppe (così contento, ormai, da aver perfino scordato la bicicletta assente) lo ricambiò con un altro bacetto. E questo momento, nella storia del loro amore eterno, rimase uno dei ricordi più amati.

Dopo i due ricambiati bacetti, Nino scansò via Useppe, e anche Blitz; e si distese sulla cassapanca, piombando in un sonno addirittura sepolcrale. Se ne risvegliò verso mezzogiorno, sempre con lo stesso pallore torvo: quasi gli fosse rimasto in gola un sapore rivoltante, che non si poteva né sputare, né inghiottire. E come Useppe gli si riaccostò per salutarlo, lui con la faccia nera e accigliata, gli insegnò una nuova parola: troia, che Useppe prontamente imparò con la solita sua bravura. Ma nemmeno questo nuovo successo didattico non valse, oggi, a rischiarare l’espressione cupa di Nino: tanto che in seguito Useppe, ogni volta che diceva toia assumeva una gravità doverosa.

Fin verso la fine della settimana (anche perché non gli dava gusto di farsi vedere in giro così sfregiato dai graffi) Ninnarieddu, per la prima volta forse nella sua vita, passò in casa la maggior parte delle ore, sia di giorno che di notte. Ma il suo umore, nel farsi casalingo, si era fatto, allo stesso tempo, insolitamente forastico. Perfino per il mangiare, mostrava una fosca indifferenza, avendo anche la fame guastata dall’umore nero. E quasi in continuità voleva star solo, chiudendosi a chiave nella sua camera, che poi era la stanza di soggiorno della famiglia: così che Useppe e Blitz erano ridotti a sfogarsi nei pochi vani angusti del resto della casa. La mancanza di sigarette gli stravolgeva la ragione: finché la sciagurata Iduzza, per non vederlo impazzire, si rese spergiura, col pagargli da fumare, anche al prezzo di borsa nera. Ma a lui quelle scarse sigarette non bastavano; e per farle durare di più mescolava il tabacco con certi surrogati, fatti di erbacce puzzolenti. Inoltre, in camera sua, vicino al letto, si teneva dei fiaschi di vino, che gli davano l’ubriachezza cattiva: per cui d’un tratto si faceva fuori dell’uscio con un passo dinoccolato, come su una tolda nella tempesta, a sbraitare insulti e sconcezze; oppure a urlare: Ah, Morte! Morte!! Morte!!!

Poi, su e giù per il corridoio, andava dicendo che avrebbe voluto ridurre tutto l’universo a una faccia sola, per farne poltiglia coi pugni; ma che, se magari era una faccia di femmina, dopo averla abbottata coi pugni, l’avrebbe unta con una pomata di merda. Ce l’aveva perfino col suo Duce, al quale minacciava dei trattamenti fantastici, però invero irripetibili. E seguitava a ripetere che, tanto, a dispetto del Duce Rotto in… (sic) e del Führer Vaaffà eccetera lui Nino, alla guerra ci sarebbe andato lo stesso, per mettergliela in… a tutti e due. Diceva che Roma puzzava, l’Italia puzzava; e i vivi puzzavano peggio dei morti.

Durante questi monologhi nefandi, che essa miseramente chiamava scene da trivio, Iduzza atterrita si rifugiava in camera sua, serrandosi gli orecchi con le due palme per non udire. Mentre che dimenticato, nel tumulto, in un angolo, Useppe invece restava a mirare il fratello, con grande rispetto, ma senza nessuna paura: come fosse davanti a un vulcano, troppo alto per investire lui con le sue lave. Oppure nel mezzo di una stupenda tempesta marina, che lui, nella sua barchetta minima, attraversava spericolatamente. Ogni tanto, dal suo cantone, dritto e pieno di bravura nella sua solita maglietta da notte, si faceva presente al fratello chiamandolo, con piccola voce: «ino ino», per significare chiaramente: «Non dubitare, io sto qui a farti compagnia. Non scappo».

In quanto allo scemo Blitz, era manifesto che la faccenda, comunque fosse, gli dava qualche soddisfazione. Purché il suo amore principale non si tenesse chiuso in camera escludendolo dalla propria presenza, per lui era tutta baldoria.

Dopo un poco, gravato dall’indigestione del vino, Ninnarieddu cascava addormentato sul divanoletto: russando, con suprema ammirazione di Useppe, in un modo tale, da sembrare che un aeroplano girasse proprio dentro casa.

A motivo dei graffi, in quei giorni doveva tralasciare di radersi la barba: la quale, nuova e matta, ancora da mezzo-imberbe, gli cresceva irregolarmente, simile a una sporcizia. E lui, per rendersi più schifoso, nemmeno si lavava né si pettinava. Al Sabato mattina, finalmente, si svegliò coi graffi ridotti a poco più di un’ombra e poté farsi la barba. Era un sabato soleggiato, ventilato, si udiva una radio cantare una canzonetta nel cortile. Ninnarieddu si mise a fischiare, ballando, la medesima canzonetta. Si lavò le mani, gli orecchi, le ascelle e i piedi; si pettinò i riccetti con l’acqua. Si mise una maglietta bianca, pulita, che gli stava piuttosto ristretta, ma così, in compenso, gli metteva in piena mostra la muscolatura del torace. Davanti allo specchio, si misurò i muscoli del braccio e del torace; e tutto d’un balzo, si mise a fare, per la stanza, la tigre e il leone. Quindi tornò allo specchio, a esaminarsi i segni dei graffi, che per fortuna erano diventati quasi invisibili: ebbe, tuttavia, un passaggio corrusco nello sguardo. Ma intanto la sua faccia, allo specchio, gli piacque: e in uno slancio immenso di tutti i nervi, muscoli, respiro, gridò, felice:

«Ah, vita!! Vitaaa!… Mò se va dentro Roma! Annàmo, Blitz!»

Nell’uscire, d’altronde, per consolare Useppe, che restava solo, gli disse:

«Useppe! viè qua! la vedi, questa calza?»

Era una comune calzettina sporca, da lui lasciata lì per terra: «La vedi? Attento! Resta qua a guardalla, nun fiatà, nun te mòve: ce devi stà fermo a controllà per un minuto e mezzo COME MINIMO eh! Hai capito? nun te devi mòve! E vedrai che quella se cambia in un serpente a sonagli, che marcia e suona: Tarampàm! Zuum! Parampum!»

Pieno di fede straordinaria, Useppe rimase, per un certo tempo, ad aspettare davanti alla calzetta l’apparizione della meravigliosa creatura; ma questa non apparve. Sono gli incerti della vita. Così pure, della bicicletta non si sentì più parlare. Però invece, uno di quei giorni Nino portò a casa un fonografo a manovella mezzo rotto (il precedente apparecchio consimile, già di sua proprietà, lo aveva scambiato contro sigarette) con un unico disco troppo usato, che tuttavia seguitava a ripetere alla meglio i suoi motivetti sentimentali: vecchio organin e illusion dolce chimera sei tu… ripigliandoli a volontà, senza smetterla, nelle ore che Nino era in casa, con una media di circa venti sonate al giorno. Per Useppe, esso era un portento sublime, non meno del serpente a sonagli. Ma al terzo giorno, la sua voce ormai senza sesso, e dal discorso incomprensibile, suonò più straziata del solito; e con uno strappo, nel mezzo del canto si spense. Nino constatò che per il fonografo non c’era più rimedio, s’era scassato. Lo mise in terra, vicino al muro, e, con un calcio, lo lasciò là.

Un’altra volta, di pomeriggio, Nino portò su in visita una sua ragazza casuale, da poco incontrata, la quale a Useppe parve un altro spettacolo stupendo. Essa vestiva un abito a colori con figure di rose, che nel camminare le si alzava di dietro, mostrando una seconda veste nera col merletto; e avanzava placida e formosa, con un passo storto per via delle suole ortopediche. Sulle mani aveva tante fossette per quanti erano i diti; le unghie erano di un rosso ciliegia, gli occhi stellanti, e la bocca, perfettamente tonda, piccola, di carminio scuro. Aveva una voce lenta di cantilena e, parlando, a ogni cadenza della voce, si dondolava. Entrando, disse:

«Oh, che ber pupetto! De chi è?»

«È mi’ fratello. E questo è er cane mio».

«Aaaah! Come te chiami, pupo?»

«Useppe».

«Ah, Giuseppe, sì? Giuseppe!»

«No», intervenne Nino, con assolutismo accigliato, «invece, proprio USEPPE, se chiama, come ha detto lui!»

«…? Us… Io me credevo de capillo differente… Invece, proprio Useppe, fa, lui? Ma che nome sarebbe?»

«A noi, ci gusta».

«A me, me sona novo… GIUseppe, sì, ma Useppe… A me, ‘st’Useppe, mica me sa de nome!»

«Perché tu sei una mezza deficiente».