5.

 

 

 

Le loro recenti scorribande nella zona del Portuense li avevano tenuti lontani di là per tre giorni. E non appena ci tornarono, dopo questa assenza, ci trovarono una novità misteriosa. Di quest’epoca (fine di maggio) tuttora il luogo era frequentato da loro due soli. Sui prati più prossimi alla città, lungo la riva già s’incominciava a vedere, specie alla festa, qualche romanetto bagnante. Ma quella zona boscosa dietro le montagnole e i canneti rimaneva distante e inesplorata, come una foresta vergine. Una volta, arrivato dal mare, ci volò sopra un gabbiano, che Useppe credette una grandissima rondine bianca. E anche, spesso, dopo quel famoso passero o stornello del primo giorno, capitarono fin sotto la tenda altri simili stornelli e passeri, i quali, invero, non facevano udire niente di più che il solito tit tit comune, e normalmente venivano cacciati via dalle feste di Bella. La loro ignoranza della canzone Tutto uno scherzo era indubbia; però già prevista, a quanto pareva, da parte di Useppe. Esisteva, in ogni caso, una prova certa che nel loro giro la bellissima canzone era ormai nota; e dunque, secondo lui, si poteva senz’altro presumere che qualcuno di loro, presto o tardi, tornerebbe a ricantarla.

In quanto, poi, all’effimera e gioiosa allucinazione avuta quel primo giorno laggiù, Useppe, lo si è visto, l’aveva presa per naturale, al punto che, passata, la dimenticò quasi del tutto. Gliene restava soltanto, sospesa in quel minuscolo territorio, una reminiscenza incantata, somigliante a un arcobaleno dove i colori e le voci facevano tutt’uno e che s’indovinava grandissimo di là dai rami frammezzo ai quali faceva scendere un pulviscolo o mormorio luminoso.

Anche dentro la città, succedeva a volte che per la durata di un istante intorno a Useppe tutti i rumori e le figure si componessero, salendo in un baleno, con un volo inaudito, verso l’ultimo urlo del silenzio. Quando lo si vedeva coprirsi la faccia con le due mani, nel sorriso di un ciecolino intento a un suono bellissimo, significava che il suo piccolo organismo tutto intero ascoltava quel coro montante, il quale nel linguaggio della musica (del tutto ignoto a lui) s’intitolerebbe una fuga. Era di nuovo la stessa reminiscenza che gli tornava, sotto diversa forma. Forse, in qualche altra forma impercettibile, essa lo accompagnava dovunque: riportandolo sempre alla tenda d’alberi come a una casa felice.

Tuttavia quella casa, per lui, rimaneva troppo solitaria. Il suo istinto nativo inestinguibile era di dividere con altri il proprio piacere e finora solo Bella divideva con lui la tenda d’alberi. Lui s’era provato a convogliarci, almeno per una sola gita, sua madre, sbracciandosi a descriverle il sito con entusiasmo, oltre che con esattezza geografica; ma Ida penava troppo a spostarsi sulle proprie gambucce mezze rotte, dove per ossi attualmente le pareva di averci delle corde slentate… In compenso, Useppe aveva concepito, da ultimo, un’ambizione suprema: di ricevere là, sotto la tenda, Davide Segre! ma finora, purtroppo, non aveva trovato il coraggio, né l’occasione, d’invitarlo… E in quanto agli altri - a tutta l’altra gente della terra - lui da tempo se ne sentiva messo al bando. Anzi, proprio l’abbandono desertico di quella valletta sul fiume gli aveva permesso di abitarla con Bella.

Dietro il cerchio d’alberi, sprofondata più in basso nel pendio, c’era una seconda valletta dove il bosco si riduceva a pochi arbusti, così che là il terreno era più asciutto e assolato e ci spuntavano pure dei papaveri. Useppe e Bella la conoscevano a memoria (non meno di tutti gli altri valloncelli e scoscese circostanti) e proprio là Bella usava asciugarsi al sole dopo il suo bagno quotidiano.

Difatti Bella adesso faceva ogni giorno una nuotata nel fiume, guardata con rimpianto da Useppe il quale non sapeva nuotare. Una volta, invero, preso dalla voglia, senza più pensare a niente lui s’era levato in fretta i sandali e i calzoni, e aveva fatto per buttarsi in acqua a giocare dietro a lei. Ma essa, avvertita dal suo senso indovino di pastora, immediatamente era tornata indietro, arrivando a terra in tempo per trattenere Useppe afferrandogli la maglia coi denti. E poi s’era rivoltata abbaiando furiosamente contro il fiume, come se questo fosse il lupo. «Se fai così», aveva detto sùbito a Useppe, con un lamento straziante, «mi condanni a rinunciare anch’io per sempre a questo bagno, il quale per me fra l’altro è igienico, sulla prova del mio cognome Pelozozzo».

E Useppe, in séguito a ciò, aveva vinto la propria tentazione del nuoto, aspettando al sole, sulla riva, il ritorno di Bella dal suo bagno, che del resto durava appena il tempo di una rifiatata.

Ora, quel dopopranzo che si diceva, affacciandosi al loro arrivo sul valloncello assolato, i due ci trovarono una capanna di frasche, costruita benissimo, che non c’era prima. Presentemente, come ogni altro luogo all’intorno, essa era deserta; però senz’altro doveva essere abitata, a quanto essi constatarono subito, a una loro pronta e curiosa esplorazione. Ci si trovavano, difatti: un materassetto (o meglio una fodera di materasso, scucita da un lato e imbottita, a quanto pareva, di stracci) con sopra una coperta militare; vicino, incollata su una pietra con la sua cera stessa, una candela, già consumata in parte; e sul terreno, parecchi giornalini illustrati, con avventure a fumetti. Inoltre, in una buca scavata, ci si trovavano pure due scatole di sardine e una di carne Simmenthal, insieme con una medaglia indorata da sembrare d’oro, della misura circa di una fetta di sfilatino, fregiata di due scritte, una in giro e una al centro, e avvolta accuratamente dentro un cellofan: il tutto, nascosto sotto un mucchio di foglie ancora fresche. Per terra, fuori della buca, c’era un cartoccio aperto, con un avanzo di fusaie. E all’esterno del locale, steso per asciugarsi su una pietra, e fermato da un paio di sassi, c’era uno slippino di misura bassissima. Dopo avere considerato tutti; questi elementi, Useppe rimise ogni cosa a posto come stava prima.

Però qua, invero, sul punto che, terminata l’esplorazione, Useppe precedeva Bella fuori della capanna, alle sue spalle accadde un fatto che non si può lasciare ignorato. Bella insomma ripensandoci tornò indietro di due passi e in un attimo si mangiò tutte le fusaie del cartoccetto. Quindi nella sua zotica ignoranza, senza nemmeno sospettare d’essere in colpa, gaia e soddisfatta trottò dietro a Useppe, il quale di niente s’era accorto.

Per tutta quella giornata, l’ignoto abitatore della capanna non si fece vedere; e così pure il giorno dopo, al loro arrivo, non c’era nessuno. Però, nell’intervallo qualcuno doveva esserci stato, perché alle suppellettili già elencate s’erano aggiunti: una sveglia caricata, di latta; un fiasco d’acqua dimezzato; e una bottiglia vuota di Cocacola.

Mentre Bella, fatto il bagno, s’asciugava al sole, Useppe si ritirò nella loro tenda dove, di lì a poco, essa lo raggiunse, stendendosi a meriggiare sotto un albero. E Useppe, che non aveva sonno, si arrampicò sull’albero stesso, fino a un certo incavo dentro il quale usava starsene appollaiato, quand’era stanco di giochi, a canterellare poesie che sempre inventava sul momento, e sùbito dimenticava. Su certi rami più alti, lassù, batteva il sole; e, oltre alle visite frettolose di qualche uccelletto, c’era una popolazione di esseri infinitesimi dagli aspetti strani e, a bene osservarli, maravigliosamente colorati, che abitavano i tronchi e frequentavano le foglie. Pure queste, al sole, mostravano a Useppe tutti i colori dell’iride, e anche altri sconosciuti: con disegni di una geometria fiabesca, in cui gli occhi di Useppe erravano come viaggiatori in un quartiere arabo. Inoltre, da quel posto di vedetta, si spaziava con la vista lungo un tratto del fiume, e sulla proda assolata.

Useppe se ne stava lì da forse mezz’ora quando scorse, nell’acqua smossa del fiume sottostante, avanzare una testolina pigmea; quindi emergere due braccini, e un ragazzettino intero sortire starnazzando dall’acqua. Certo credendosi non visto da nessuno, appena arrivato a terra colui si sfilò da dosso lo slippino da bagno. E tutto nudo corse verso la discesa del pendio, dove scomparve. Senz’altro, era lui l’abitatore della capanna misteriosa!

Alla scoperta, Useppe dall’alto dette una voce a Bella; ma costei, sonnolenta, gli rispose appena con un cenno dell’orecchio sinistro, senza neanche aprire gli occhi. E Useppe decise di aspettare, solo traslocando verso rami più alti, a sbirciare se di là si scorgesse qualche altro segno di vita dello sconosciuto. Ma anche di lassù, la capanna gli restava invisibile; tutto all’intorno era deserto; e si udiva solo il fruscio della corrente, fra i ronzii della luce pomeridiana.

D’un tratto, Bella alzò gli orecchi e balzò su, avvertita, forse dal suo naso, di qualche novità in vista. E sventolando freneticamente la coda, pur mantenendosi in attesa levò un abbaio, grandioso ma cordiale.

L’effetto di questo abbaio non fu immediato, ma quasi. Di lì a mezzo minuto, un passo si avvicinò. E con la stessa circospezione di un esploratore che procedesse per una giungla feroce, il ragazzetto di pocanzi, però adesso non più nudo, si presentò sotto la tenda d’alberi. Alla sua vista Useppe, come davanti a un’apparizione sensazionale, preso da grandissima concitazione di spiriti calò giù lungo il suo tronco in fretta e furia. In colui difatti, al vederlo da vicino, gli si faceva riconoscere immediatamente una rassomiglianza indiscutibile col non dimenticato animaluccio senza coda.

Aveva, infatti, gambe e braccia magroline e assai corte nelle proporzioni (per quanto scarsa fosse la sua statura). La sua faccia, specie a guardarla di profilo, sporgeva in avanti alla maniera dei musi. Gli occhi erano tondi e distanziati, di un vivace color oliva; il naso, piccolo e inquieto, e quasi privo di radice. E la bocca, di un taglio stretto da parere senza labbri, gli si slargava però fino verso gli orecchi quando si degnava di sorridere.

Sulla testa, rapata di recente, gli andava ricrescendo una lanugine fitta, simile a una pelliccetta marrone; e dei minimi ciuffettini di pelo gli spuntavano pure dagli orecchi, i quali erano assai minuscoli, e alquanto protesi in fuori. Infine, sulla sua maglietta bianca e calzoncini grigio-scuro questo tale portava infilato, al momento, un buffo indumento stramiciato, nemmeno cucito e con due buchi per maniche: ricavato, a quanto pareva, da un pezzo di telone cachi, e qua e là tinto alla meglio con chiazze di vernice marrone- verdastro!

All’altezza, gli si potevano dare otto anni, o al massimo nove; mentre in realtà ne aveva dodici (né trascurava, all’occasione, di vantare questa sua anzianità, attestante un lungo passato di vita vissuta).

Arrivato in presenza dei due, li adocchiò sempre circospetto e guardingo, però con una certa superiorità ovvia. E invincibilmente il suo sguardo, nell’espressione fiera, tradiva un gaio compiacimento nel posarsi su Bella. Anzi la sua mano (ossia zampetta, si allungò a toccarla:

«Ci sta qualcun altro, assieme a voi?» s’informò quindi, tenebrosamente.

«Nooo!… Nissuno, ci sta!»

«Siete soli?»

«Tì».

«E chi siete?»

«Io so’ Useppe. E questa è Bella».

«E che ci siete venuti a fare, qua?»

«…A giocare…»

«È la prima volta oggi, che ci venite?»

«Nooo… Ce semo stati mille volte!… PIU’ di mille!» dichiarò Useppe.

Pareva un interrogatorio vero e proprio. Il misterioso essere guardò Useppe dritto in faccia, con un’aria d’intesa complice, ma anche d’autorità:

«Ti avverto di non dire a nessuno al mondo che m’avete visto. Ci capiamo? A NESSUNO al mondo!»

Useppe in risposta scrollò il capo a fare no, e no, e no, con tale ardore, che nemmeno un giuramento col sangue poteva garantire meglio il segreto dovuto a colui.

L’ignoto allora si sedette su un sasso; e nell’accendere, con grinta mondana, una sigaretta che aveva pescato nei calzoncini, spiegò:

«Io sono ricercato».

Si poteva arguire, dal suo tono, che tutte le polizie d’Italia, e forse d’Europa, andavano correndo alla sua ricerca. Seguì un silenzio. A Useppe batteva il cuore. Fatalmente, alla sua fantasia, gli inseguitori dello sconosciuto, tutti, come una folla di sosia, si presentavano in aspetto di Professori Marchionni, grossi, occhialuti, anziani e con baffi spioventi.

Ma il cuore di colui, frattanto, s’involava irresistibile verso Bella, con tale sentimento che sulla faccetta, o muso che fosse, gli si irradiava un sorriso a labbri chiusi, però largo, fino agli orecchi, e moltiplicato in tante rugoline, mentre i suoi occhi s’illuminavano vispi, e intenti come quelli di un innamorato.

«Pure tu, vuoi fumà?» le domandò (mentre lei, ricambiando i suoi sentimenti, lo festeggiava da vicino, quasi naso a naso). E per ischerzo, le soffiò un pochetto di fumo nel naso. Al che lei, sempre per ischerzo, reagì con una sorta di starnuto allegro.

«Si chiama BELLA proprio di nome?»

«Sì, di nome. Bella».

«È vecchia?»

«Noooo…» rispose Useppe. E poi dichiarò, con una certa enfasi personale:

«È più piccola di me!»

«Tu, quant’anni tieni?»

Calcolando, Useppe mostrò prima una mano con tutti i diti aperti, indi l’altra mano con un solo dito alzato, che, nel ripensarci, ripiegò appena alle falangi.

«Cinque, e vai per i sei!» capì a volo quell’altro, e da parte sua dichiarò, con molto onore:

«Io vado per i TREDICI!» Quindi, assumendo una posa lenta di degnazione, ripigliò a dire:

«Giù a casa nostra, al paese, pure noi teniamo un cane, però non tanto grosso, mezzano, con la faccia nera e le orecchie a punta. Di orecchie, ne tiene una e mezza, perché l’altra mezza gliela mangiò suo patri.

«È di proprietà di mio zio, fratello di mea matri, che ci va a caccia».

Fece una pausa, e poi terminò:

«Si chiama Tòto».

Dopo questo, rimasero muti. L’ignoto, consumata la sua sigaretta, ne succhiò dal rimasuglio le ultime fiatate con frettolosa e vistosa voluttà. Poi, ne sotterrò l’infima cicca rimasta, in atto assai decoroso, quasi le rendesse le onoranze funebri, e s’allungò giù sull’erba, appoggiato al sasso con la testa. Bella gli s’era seduta vicina, e Useppe, a sua volta, s’era accovacciato in terra, di fronte a lui. Restavano in silenzio, a sogguardarsi l’un l’altro, senza trovare più niente da dirsi. D’un tratto Bella in uno scatto levò in alto il capo, ma non abbaiò, né si mosse da dove stava.

Un uccellino si era posato su un ramo alto, proprio sopra a loro. Tacque un istante, poi fece due o tre salti sullo stesso ramo, poi fece qualche mossa con la testa (quasi per accordare fra sé il proprio canto) e poi cantò.

Un’allegrezza meravigliosa inondò le vene di Useppe. Anche Bella aveva immediatamente riconosciuto la canzone, poiché guardava in su, contenta, a bocca aperta, con la lingua che un poco le tremolava. Da parte sua il terzo ascoltatore rimaneva zitto, sbirciando in su con un solo occhio, non si capiva se distratto, o sopra pensiero.

Al frullo di partenza dell’uccellino, Useppe si mise a ridere, accorrendo verso colui. «Ahò!» lo interpellò impetuoso, con una vocina esultante. E senza esitare gli chiese:

«Tu ce la sai, quella canzone?»

«Quala canzona?»

«Quella che cantava lui! adesso!»

«Chi lui! l’acedduzzo?» domandò il ricercato, dubitoso, accennando con una delle sue zampette verso il ramo.

«Sì!» E palpitando di segretezza, però impaziente di partecipargli la novità, Useppe gli svelò, in un fiato: «Dice così: È uno scherzo uno scherzo tutto uno scherzo!»

«Chi te l’ha detto, che dice così?!»

A questo, Useppe non sapeva che rispondere: tuttavia, rapito dalla canzoncina, invincibilmente tornò a ripeterla, e stavolta senza trascurarne le note.

Lo sconosciuto ebbe un sorrisetto futile e luminoso, pure alzando una spalla al tempo stesso: «L’aceddi», sentenziò, «tengono la lingua sua di loro. Chi può sapere?…» Fece una smorfia scettica, ma di lì a poco, in tono d’importanza, disse:

«Al paese mio, ci sta un vinaio ch’è pure barbiere, e tiene un vero aceddu parlante, che parla con la voce tale e quale a un cristiano! Però quell’aceddu non si trova su per gli alberi. Non è nazionale. È turco. E saluta e dice Buona Pasca e Santu Natali, e male parole, e ride. È pappagallu. Colorato. E imparò una canzona conosciuta al paese mio, e la cantava!»

«Come dice, la canzone?» domandò Useppe.

«Dice così:

 

Io sugnu re e cardinale

posso ridere e posso parlare.

Per amore della compagnia

staiu zitto pure io!»

 

Al suono di tante canzoni, Bella s’era data a zompare, come a un festival. Useppe invece s’era rimesso giù sull’erba, in contemplazione dell’essere misterioso.

«E qual è il paese tuo?» gli domandò.

«Tiriolo».

Nel pronunciare questo nome, l’interrogato aveva preso un’aria di sufficienza, come uno che citasse, in una compagnia d’illetterati, un sito di rinomanza eccezionale: «L’anno scorso al Giro d’Italia ci passau pure Bartali, campione del Giro!» dichiarò, «…io conservo pure una medaglia, che gliel’ho fregata a una Pompa Shell! Una medaglia fatta per omaggio a Gino Bartali in certe grandi fabbriche d’industria del Regno della Montagna, vicino Milano…»

Qua Useppe arrossì, ricordandosi della medaglia nel cellofan già notata, effettivamente, da lui e da Bella nella capanna di frasche. Di sicuro, sarebbe stato un dispiacere, per colui, sapere che la sua casa era stata scoperta… Ma quello non si accorse del rossore di Useppe avendo in quel momento abbassato gli occhi, nascosti da due fitte frangette di ciglia. D’un tratto, un assalto di tosse, brutale nel confronto con la sua piccolezza, lo sbatté come una serie di sventole. Non appena riprese fiato, lui fece notare, con orgoglio:

«È la tosse dei fumatori!»

E pescando nella tasca dei calzoncini, ne trasse un pacchetto ancora quasi intatto di Lucky Strike: «Americane!» vantò, mostrandole a Useppe, «mi sono state regalate!»

«Chi te l’ha regalate?»

«Un frocio».

Useppe ignorava il significato di questo titolo, ma per non mostrarsi troppo ignorante si ritenne dal domandarlo.

Insieme al pacchetto, colui dalla tasca aveva ripescato un frammento di giornale, che esaminò con ostentazione ufficiosa, come un documento riservato. C’era una notiziola di poche righe, dal titolo: Tre corrigendi evasi dal Gabelli. Due riacciuffati, uno latitante, e sotto, fra l’altro, c’era citato un certo Scimò Pietro, da Tiriolo (Catanzaro). Dopo avere ancora a lungo esaminato il documento, quasi non lo sapesse da un pezzo a memoria, il ricercato si decise, e, sottoponendolo a Useppe, con la sua unghietta nera gli indicò in particolare le parole Scimò Pietro. Ma per Useppe, che non sapeva leggere, quelle due parole, non meno dell’intero documento, erano un enigma indecifrabile. Allora l’altro gli svelò gloriosamente: «È il nome mio, questo. Sono io, Scimò!»

(Il suo nome completo, invero, come pure risultava dal documento, era Scimò Pietro. Scimò era soltanto il cognome. Ma lui s’era avvezzo a venir chiamato col solo cognome).

«Adesso il nome mio lo sai. Però, t’avviso, nessun altro lo deve sapere. Non dire a nessuno né il nome mio, né che m’hai visto qua!»

Useppe garantì il segreto con nuovi e ripetuti scrolli della testa, ancora più appassionati, se possibile, di quelli di prima.

Allora, in totale comparanza e fiducia, a voce bassa il nominato Scimò lo informò di essere evaso dal Riformatorio, dove i suoi parenti, e in particolare suo fratello, volevano tenerlo rinchiuso. Ma lui rinchiuso là dentro non ci voleva stare. Durante una passeggiata al Gianicolo con la sua squadra al completo, se l’era svignata insieme a altri due. L’impresa era stata da lui progettata con costoro in ogni particolare. Anzitutto, avevano approfittato che in quei giorni l’istitutore di turno, Signor Patazzi, soffriva di un disturbo viscerale che lo forzava ogni tanto a ritirarsi, lasciando momentaneamente la sorveglianza al caposquadra. Con accorgimenti adatti erano riusciti a distrarre l’attenzione di costui, scomparendo. E mentre gli altri due compagni suoi nella fuga erano rimasti uniti (e questa certo era stata la loro prima fregatura, perché, così in coppia, era stato più facile scovarli), lui, secondo la vera scienza della latitanza, li aveva salutati fin da principio per andarsene da solo. Subito dopo s’era spogliato in fretta della giacca e berrettino d’uniforme; e per diverse ore aveva soggiornato dentro un bidone pieno di foglie, erbe secche, bisogni di cavallo, eccetera sortendone solo col favore delle tenebre. Accortamente in precedenza s’era munito di certe figurine della cioccolata trovate nei pacchi-dono (le quali attualmente valevano parecchio sul Mercato Scambi), portandole con sé nascoste nelle scarpe, insieme con la sua preziosa medaglia del Giro. E la sera stessa, cambio figurine, un tale di Trastevere gli aveva ceduto questi calzoni borghesi che aveva addosso. Lui, poi, s’era confezionato da se stesso questa tenuta mimetica (si trattava del già descritto indumento a chiazze fondo cachi) per meglio nascondersi vivendo alla macchia. E adesso, se quegli altri due s’erano lasciati riacchiappare, lui non si lascerebbe catturare mai, garantito, né vivo né morto.

La narrazione di Scimò era stata seguìta da Useppe (e anche da Bella) con una partecipazione di attualità fremente, specie nei punti cruciali. Non solo i loro occhi, ma tutto il loro corpo ne era trascinato. E in quanto a Scimò stesso, aveva accompagnato il suo parlare con un tale gesticolìo di gambe, testa, bracci e diti, che al termine dovette riposarsi e restare zitto. Ma dopo un po’, quasi a suggellare, fra i presenti, un triplice patto esclusivo con lo svelare, dopo il suo passato, anche il suo futuro, disse, in uno sfolgorio spavaldo:

«Io farò il ciclista».

Successe un grande silenzio. Col sole già verso ponente, quell’invisibile arcobaleno, che sempre stava aperto e inchinato sulla tenda d’alberi, vi sparpagliava tutte le sue luci come alucce senza peso, mutevoli e ronzanti, in cui fra i centomila colori predominavano l’arancione dorato, il viola e il verde acqua. E il loro ronzio somigliava a una risonanza mischiata, come di voci e musiche innumerevoli che arrivassero da lontano; ma vi predominavano, anche qui, certe voci speciali: e queste erano piccole, come di grilli, d’acqua e di femminucce.

Useppe, rallegrato, si mise a ridere. Aveva voglia di contraccambiare le grandi confidenze di Scimò rivelandogli lui pure qualche altro segreto suo proprio, unico e straordinario; ma non sapeva che dirgli, pur trovandosi già proteso, impaziente, verso di lui. Così che, a capriccio e senza averci pensato, gli soffiò nell’orecchio, accennando intorno, con la mano, alla tenda d’alberi:

«Qua ci sta Dio».

Scimò fece una smorfia da uomo esperto e scettico, la quale tuttavia non preludeva (come forse poteva sembrare) a una professione di ateismo. Sentenziò invece, con una certa importanza:

«Dio sta dentro alla chiesa».

A questo punto, considerando che s’era fatto tardi, disse che fra poco doveva andare: «A quest’ora, lo spettacolo delle quattro dev’essere un pezzo avanti!» opinò, col tono di un affarista che ha grandi e improrogabili incombenze. E spiegò che doveva trovarsi alla Stazione Ostiense con un amico suo della Garbatella (il quale teneva i biglietti gratuiti); e, dopo, andare con quello al cinema.

«Del film», aggiunse, «non me ne importa tanto, perché io l’ho visto già due volte. Però voglio arrivare in orario almeno per la fine della prima proiezione, perché è quella dove ci si trovano i froci, che poi mi portano a mangiare la pizza».

E riecco questi Froci! personaggi, evidentemente, famosi e munifici, dei quali Useppe non aveva nessuna idea! Tuttavia, neanche stavolta, non volle confessare a Scimò la propria ignoranza. Fece soltanto un breve sospiro (del quale nessuno si accorse): anche perché, fra l’altro, lui, ancora, al cinema non c’era stato mai nella sua vita.

Nell’alzarsi da terra, Scimò mise in mostra, con una certa negligente ostentazione, la canottiera bianca che portava sotto alla sua casacca mimetica. Era una canottiera elegantissima (a differenza dei calzoncini, che parevano usciti dal carretto di uno stracciarolo): nuova, pulita, e decorata su un lato dal disegno di un’àncora di colore blu. Si trattava, disse Scimò, di una canottiera australiana e risultò che pure questa gli era stata regalata da un FROCIO! Anzi, uno - se lo stesso, oppure un altro, non si capiva - sempre di questi Froci, gli aveva promesso anche un paio di scarpe estive tipo tennis, e forse pure, in un domani, un orologio da polso e un cuscino! Useppe rimase convinto definitivamente che quei misteriosi personaggi menzionati da Scimò dovevano essere senz’altro creature spettacolari, di una magnificenza eccelsa! e se li figurò nel pensiero come qualcosa di mezzo fra la Befana, i Sette Nani, e i Re delle carte.

Scimò disse che adesso, prima d’andare in città, doveva passare «da casa sua» per togliersi la «tuta mimetica» (così lui la chiamava) la quale, nella città, disse, riuscirebbe «controproducente». Qui, avendo pronunciato per intero questa parola difficilissima, dovette interrompersi un momento a rifiatare; ma sùbito dopo, riguardandosi intorno con estrema segretezza, si fece a dire che per oggi ormai non c’era tempo; ma domani, se loro capitavano qua, gli avrebbe fatto vedere la «casa sua»: una capanna fabbricata da lui medesimo, completa, dove si ritirava e abitava clandestino: e che si trovava in un luogo nascosto dei paraggi.

A questo discorso, come già prima a quell’altro della medaglia, il viso di Useppe riavvampò di un rossore immediato che stavolta non poté sfuggire a Scimò.

Costui lo guatò, perplesso e insospettito: finché, nell’incontrare le sue pupille parlanti, fra il silenzio generale ebbe una specie d’illuminazione; e senza più esitare proruppe, in accento terribile di denuncia:

«Chi si mangiò le mie fusaie?!»

A questo, Useppe rimase sconcertato più che mai: giacché, del fatto delle fusaie, lui niente sapeva. Né la stessa Bella, da parte sua, seppe comprendere la questione. Fra l’altro, nel dizionario umano a lei noto, mancava la parola fusaie: le stesse venivano dette lupini. E quella sua azione indebita nella capanna non aveva lasciato neanche un minimo ricordo nel suo testone di pastora.

La sola cosa da lei compresa insomma fu che Scimò attualmente, per qualche oscuro motivo, s’andava riscaldando contro Useppe; e allora, nell’urgenza di rabbonirlo, piena d’innocenza gli si buttò al collo, dandogli una leccata amorosa su tutta la faccia, con in più qualche morsetto indolore all’una e all’altra orecchia.

E capitò che questo atto di pace fu interpretato da Scimò come un’autodeuncia di Bella! Così che lui per proprio conto, e sia pure attraverso un equivoco, intese il fatto com’era andato veramente. Davanti alla confessione della pastora non gli restava che perdonarle senz’altro. Anzi, fece sùbito un sorriso, mettendo in luce, stavolta, anche i denti, che aveva piccoli piccoli, radi, e già malandati e scuri. E Useppe, di rimando, sorrise consolato (mostrando, a sua volta, i propri dentini ancora di latte). Allora Scimò decise di fare il grandioso:

«Beh che fa! per quattro fusaie!» disse con una smorfia signorile, «e già me l’avevo pensato, io da solo, che se le fosse mangiate qualche animale passato per di là… L’essenziale», soggiunse abbassando la voce, «è che non ci siano passati i Pirati!!» E prese a spiegare che, sulla riva opposta del fiume, notoriamente esisteva una banda di pirati, capeggiata da un certo Agusto, il quale aveva più di sedici anni, e un tempo era stato rivale perfino del famosissimo Gobbo del Quarticciòlo! Questi tali Pirati disponevano di una barca, e ci andavano scorrendo di sotto e di sopra per tutta la riviera, a pigliarsi la roba! a incendiare le capanne! e ammazzare gli animali! e assaltare la gente! Ancora, quest’anno, da queste parti non s’erano visti; ma lo scorso anno, in luglio e agosto, si sapeva che c’erano stati. E avevano buttato a fiume una macchina con la gente dentro! distrutto le capanne! menato a un sordomuto! e fatto l’amore con una vitella!

Dopo questo, Scimò prese commiato. Ma nell’andarsene, disse a Useppe e Bella che se ricapitavano domani dopopranzo, potevano cercare di lui direttamente nella sua capanna, visto che già sapevano il posto: però, nessun altro doveva saperlo!

Raccomandò poi di trovarcisi in tempo, perché domani lui doveva andarsene via più presto, dato che al cinema si cambiava film, e quest’altro film lui ci teneva a vederlo dal principio.

«Domani», annunciò, «quando venite, vi faccio vedere un punto, vicino a casa mia, dove ci fanno il nido le cicale».

 

* * *

 

L’indomani, tutti e tre si trovarono puntualissimi al convegno. E in più Bella e Useppe, lungo la via, fecero un altro incontro inaspettato. Evidentemente, questa era l’epoca degli incontri per loro. Percorrevano l’ultimo tratto del Viale Ostiense, già in vista della Basilica, quando una voce fresca di donna chiamò dietro a loro: Useppe! Useppe! Là in attesa alla fermata dell’autobus c’era una ragazza, con in braccio una creatura piccola, e a tracolla una borsa di paglia. «Useppe! non mi riconosci?» essa continuò, sorridendo dolcemente.

Bella già la stava annusando con una certa familiarità, ma Useppe, invece, sul momento, non seppe ravvisarla: piuttosto, la creatura piccola, benché sconosciuta, alla faccia pareva ricordargli qualcun altro… Era una pupetta appena lattante, chiaramente una femminella, poiché portava gli orecchini. Le sue guance erano tonde e vermiglie, con occhi neri neri, già ridarelli e vispi. E i suoi capelli scuri, umidi e fini, già lunghetti di parecchi centimetri, erano tutti ben allisciati, salvo un unico boccolo, arrotolato con gran cura, che le attraversava per lungo il colmo della testa.

«Non mi riconosci? Sono Patrizia! Ti ricordi di me?»

«… … …»

«Non te ne ricordi più?… eh?… de quando semo iti assieme, sulla motocicletta!… non te ne ricordi?»

«…tì…»

«E questa, nun è Bella?… o me sbaio? Sei Bella, no? M’hai riconosciuto, a’ Bella!?…»

Patrizia appariva invero ingrassata, e al tempo stesso con qualcosa di patito e affaticato nella faccia. Adesso, portava i neri capelli legati da un nastrino in cima alla testa, e lasciati pendere all’indietro in una grande coda ondulante.

In luogo di tutti quei monili vari che prima le tintinnavano addosso, attualmente Portava un solo braccialetto di rame e altri metalli, il quale tuttavia tintinnava anch’esso con frequenza perché composto di più fili che si urtavano fra loro ai suoi gesti. E ogni volta, a quel tintinno, la pupetta esilarata agitava i piedi e le mani. Essa indossava una camiciolina bianca con un piccolo orlo di merletto, e il resto della sua persona era avvolto in una tela stampata a colori con disegni dei cartoni animati, dalla quale sortivano le sue braccia e parte delle sue gambette, in grande movimento. Ai piedi aveva delle scarpucce lavorate a maglia, bianche, e chiuse da un nastro di tinta rosa vivace. I suoi orecchini piccolissimi, simili a bottoncini, erano d’oro. Patrizia tentennava il capo, riguardando Useppe, il quale si volgeva in su con un piccolo sorriso. «Io t’ho riconosciuto sùbito, a’ Useppe!» gli disse. «E questa», aggiunse, «e tua nipote!»

Useppe si mostrò perplesso: «Sì, ti è nipote! tu sei suo zio!» confermò Patrizia, ridendo con la faccia tremante. E preso il polso alla figlietta, e muovendoglielo come a salutare, incominciò a dirle: «Ninuccia, saluta Useppe! Fagli addio, a Useppe…» D’un tratto la risata le si ruppe in un pianto convulso. Cercava di asciugarsi le lagrime alla meglio col pugnetto della pupa, sospeso nel saluto, portandoselo agli occhi.

«Ah, non ci posso ancora credere!… Sono passati tanti mesi, e ancora non mi sembra vero! tutto m’ero aspettata, ma questa cosa, non me l’ero aspettata! Che m’avesse piantata sola con la panza, e che se ne sarebbe ito via, già me l’aspettavo! Ma no questa cosa! questa cosa, no!»

Poi, di nuovo sorrise a Useppe, nella sua faccia gonfia di pianto, e dondolando la testa gli disse, con una voce un po’ - materna, e un po’ infantile:

«A’ Useppe, quanto te voleva bene, a te! Io c’ero pure gelosa, perché voleva bene più a te, che a me! m’ha pure menato, una vorta, perché j’ho detto male de te!»

«…Ecco arriva l’autobus», osservò in fretta, asciugandosi le lagrime con un fazzoletto pescato a stento nella borsa, «…eh, annàmo… Te saluto, a’ Useppe».

Si videro, da dietro, i suoi fianchi ingrossati ondeggiarle sui tacchi alti, poi si mostrarono le sue gambe nude mentre montava sull’autobus, aiutata dal fattorino che s’era affacciato a darle appoggio per un riguardo al carico della pupa. A quell’orario, il pubblico sull’autobus era scarso. Essa trovò sùbito posto a sedere vicino al finestrino aperto, e di là fece ancora con la mano un gesto vago di saluto, che pareva amaro, e già lontano. Useppe continuava a salutare aprendo e richiudendo il pugno lentamente, mentre l’autobus riprendeva la corsa, e Bella, seduta sul marciapiede, ne seguiva il moto con un ànsito delle narici e della lingua. L’ultima vista che si ebbe di quelle loro parenti fu l’immenso ciuffo nerolucente di Patrizia; e, di sotto al volto chinato di questa, il boccolo civettuolo di Ninuccia, nel mezzo della sua liscia capoccetta bruna.

 

* * *

 

Arrivati al luogo del convegno, trovarono Scimò davanti alla soglia della sua capanna, come se li aspettasse. Prima ancora di averlo salutato, Useppe quasi affannando gli annunciò di avere incontrato, poco fa, una, la quale era sua nipote, e lui stesso le era zio! Ma Scimò ricevette questa notizia sbalorditiva senza troppo stupirsene. Lui stesso, disse, era zio di diversi nipoti (figli di suoi fratelli maggiori) fra i quali una di età anni 14! «E mia mamma», fece sapere ancora, «giù al paese havi una nipote, che le è pure zia!»

E di qui, corrugando la fronte nell’esercizio mentale, non senza aiutarsi nel conto con tutti e dieci i diti, si mise a spiegare che suo nonno Serafino, patri di sua matri, aveva una diecina di fratelli minori, chi morto e chi vivente: e fra questi il più giovane era un Americano (ossia emigrato in America). Passa il tempo, e costui rimase vedovo.

Ora, sempre il suo nonno Serafino, aveva in proprio nove figli: sei femmine e tre maschi, che facevano cinque sorelle e tre fratelli di sua madre. E tutti erano spusati con famiglia (meno che tre: una sorella monaca, e un’altra soricella morta piccola e un altro fratello morto schioppato). E tutti avevano chi quattro, chi sette, tre, sei, figghi e figghie, certi grandi e certi piccoli, i quali tutti venivano a essere i nipoti di sua madre: e fra costoro ce n’era una, già grande e signorina, di nome Crucifera.

Passa il tempo, e quell’americano vedovo (Ignazio di nome) mezzo anziano e mezzo vecchio se ne rivenne al paese a aprirci una bottega. E un bel giorno disse: «Qua, senza donna, che faccio?» e si pigliau quella giovane Crucifera: la quale così, essendo già nipote della madre di Scimò, d’un tratto, avendone sposato lo zio, le diventò pure zia! La stessa poi, fra l’altro, già cugina di Scimò, viene pure a essergli una mezza nonna, perché si fece cognata del suo nonno Serafino, il quale poi sarebbe il nonno pure di lei e di tutti quanti!

«E lui dove sta, adesso?» s’informò Useppe.

«Il mio nonno sta a Tiriolo».

«E che fa?»

«Pesta l’uva».

Useppe non chiese altre informazioni: tanto più che Scimò ardeva oramai di mostrare ai suoi ospiti la cosa principale: ossia la famosa medaglia del Giro. Non la teneva più dentro la buca, dove era minacciata dall’umidità, ma in fondo a quella fodera di materasso che a lui serviva, come si vide, anche da deposito per vestiario e altro; e l’aveva avvolta, in aggiunta al cellofan, anche in una seconda protezione di stagnola.

Si trattava, da quanto a m risulta, di una targhetta-réclame per una marca di gomme, di metallo leggerissimo color giallo-oro e di forma circolare: portante al centro la dichiarazione BARTALI il RE DELLA MONTAGNA usa i copertoni taldeitali, eccetera eccetera e, all’intorno, la scritta decorata Giro d’Italia 1946 - con altre indicazioni del caso (tutte scritture, ovviamente, geroglifiche per Useppe). Non appena, svolto il doppio involucro, la medaglia apparve, Bella cantò, festeggiandola: «Questa, la conosco già!» nel mentre che Useppe inevitabilmente arrossiva; ma Scimò, per fortuna, né comprendeva i discorsi di Bella, né in questo momento osservava Useppe, essendo occupato a esaminare la medaglia da dritto e da rovescio; per verificare se l’umidità non l’avesse troppo danneggiata. Anzi, non ne distolse gli occhi neppure nell’atto di sottoporla a Useppe (giusto il tempo di una rapida visione), e sùbito si affrettò a riincartarla e riporla dove stava prima. Seguitò tuttavia a rovistare fra i vecchi giornali e gli stracci che imbottivano il suo materasso, certamente avendo da mostrare ancora qualche altra cosa interessante. E difatti estrasse prima un pettinino variegato di vari colori, di quelli che si trovano sulle bancarelle di merci americane; poi una fibbia da scarpe con brillantini di vetro, raccattata in istrada e poi mezzo tergicristallo d’automobile. Mostrò quindi la sveglia che marciava davvero, anzi a vero dire correva troppo (ma per gli orari lui sapeva regolarsi col sole); e inoltre, novità ultima arrivata, una torcia elettrica a pile, simile a quelle che Useppe aveva vedute ai partigiani. Disse che questa aveva una durata di 200 ore! e invero attualmente mancava della pila, ma quello che gliel’aveva regalata aveva promesso di rifornirgliela al più presto.

«E chi te l’ha regalata?» domandò Useppe.

«Un FROCIO».

Il nido di cicale si rivelò un caso attraente, però arcano. A una sessantina di metri dalla capanna, dietro la collinetta, cresceva un albero, dal tronco piuttosto corto rispetto all’altezza grandiosa della chioma. Uno dei suoi rami era segnato da un lungo taglio, e Scimò disse che quello era un deposito delle uova di cicala. Poi, mostrando, alla radice dell’albero, una buchetta nella terra smossa, spiegò che là sotto c’era un nido dove le uova andavano a covarsi.

Affermò pure di avere sorpreso, il giorno prima, una cicaletta giovane appena risalita dal nido, proprio nel mentre che, attaccata alla corteccia dell’albero, s’ingegnava con fatica a sortire dal proprio guscio. Siccome lui doveva andare in città, l’aveva lasciata lì, che ancora intontita e mezza stupida aspettava il momento di saper volare. Però attualmente, insieme con la cicala, anche il guscio era sparito: forse qualche animale l’aveva rubato come preda, o forse il vento se l’era portato via. E la cicala, a quest’ora, avendo imparato a volare, forse abitava di sopra, nell’albero stesso, o in qualche altro albero vicino; e presto la si sentirebbe cantare, se era una cicala maschio. Perché solo i maschi cantano: le femmine non cantano.

Useppe aveva udito, in passato, il canto delle cicale, ma non ne aveva mai visto nessuna. Tanto lui che Scimò si trovarono, però, d’accordo a non rimuovere il terriccio dal nido, per non interrompere la cova di altre piccole cicale novelle. Difatti, a detta di Scimò, quella da lui vista era una cicala staffetta, venuta su in anticipo, e certo le sarebbe venuta dietro una parentela numerosa di femmine mute e di maschi cantanti.

E se ne andarono sulle rive del fiume, dove Scimò voleva prendere un bagno, prima di recarsi al cinema. Qui Useppe dovette confessare, con rimpianto, di non saper nuotare ancora. E rimase addolorato sulla riva, mentre Bella e Scimò scorrazzavano dentro l’acqua.

Uscito dall’acqua, Scimò, tutto nudo, fece notare a Useppe i propri genitali, vantandosi di essere già maschio: virile al completo, tanto che, se pensava a certe cose, per esempio ai baci nei film oppure alla sua mezzo cugina - mezza nonna Crucifera, era pure capace di gonfiarsi. E Useppe incuriosito volle fargli vedere, a sua volta, il proprio uccelletto, per sapere a che punto fosse lui. Scimò gli disse che lui pure, senz’altro, era maschio al completo, però doveva ancora crescere. E Useppe allora pensò che, non appena cresciuto, fra l’altro sarebbe stato forse capace di cantare a piena voce, come avviene ai maschi-cicala.

Il corpo di Scimò, magrolino e scorfaniello, era segnato da diverse cicatrici, delle quali lui fornì sùbito a Useppe la spiegazione. Una, più recente, sulla gamba, gliel’aveva fatta un istitutore del riformatorio con una legnata. Un’altra più antica sul braccio, quasi all’altezza della spalla, gliel’aveva fatta un suo fratello grande, di ventun anni, picchiandolo con un finimento del mulo. Questo fratello cattivo, a detta di Scimò, era, di tutta la famiglia, il più accanito a volerlo tenere rinchiuso coi corrigendi.

La terza cicatrice, che gli segnava la fronte in alto, presso l’attaccatura dei capelli, se l’era procurata lui stesso sbattendo la testa contro la porta e contro i muri, quando al riformatorio lo avevano rinchiuso nella cella di punizione. Al ricordo di questa cella, Scimò ebbe una specie di mugolio; la sua faccetta sembrò farsi ancora più piccola, con gli occhi fissi e stralunati. E lo si vide d’un tratto, invasato da una subitanea disperazione, buttarsi giù carponi e sbattere la testa in terra, con furore, per tre volte di séguito.

Useppe accorse con la faccia tramortita, non meno che se quelle capate in fronte le avesse prese lui. Ma Scimò, quasi già consolato dallo sfogo, si rilevò su pronto, con un sorrisino che pareva dicesse: «Poco male!» E dopo un momento sembrò essersi scordato d’ogni cosa, fuorché del film nuovo che andava a vedere e della pizza che avrebbe mangiato dopo.

Era venuta l’ora, per lui, di andarsene. E Useppe, con un rimpianto nell’anima, già lo vedeva arrivare al fastigioso palazzo del Cinema, e là incontrare quei tali esseri di splendore misteriosissimo, regalanti doni, dei quali lui stesso ignorava la persona, il titolo e insomma tutto. Infine, pur senza ammettere questa sua ignoranza, si fece davanti a Scimò, e, dondolandosi, azzardò con una voce timida:

«Perché non mi ci porti pure a me, al Cinema, a trovare li froci?»

E gli fece vedere che, in una tasca dei suoi calzoncini a bretelle, chiusa con un bottone, teneva pure disponibile qualche soldo (che Ida gli aveva dato prima d’uscire per comperarsi il gelato).

Ma Scimò scosse il capo, protettivamente; e guardandolo con occhio paterno, gli disse:

«No. Tu ancora sei troppo piccolo». Quindi, forse a rendere più plausibile il proprio rifiuto, aggiunse:

«E poi i cani, al cinema, mica ce li lasciano entrare».

Dopo di che, vedendo l’espressione delusa di Useppe, si trattenne ancora qualche momento assieme a lui. Però infine gli disse: «Devo correre!» e, per consolarlo, gli promise solennemente:

«Oggi non c’è più tempo; ma la prossima volta che venite qua, io t’insegno a nuotare».

«Domani noi ci torniamo!» s’affrettò a rispondere Useppe.

«Domani è domenica: il primo spettacolo comincia alle tre. Però, se ci venite in tempo, principio a insegnarti gli esercizi a rana e stare a galla».

Mentre correva verso la capanna, lasciando sulla riva gli altri due, si udì nella distanza la sua frequente «tosse di fumatore» che lo faceva traballare sulle corte zampette. La sua partenza mise addosso a Useppe una tristezza buia, che cresceva col passare dei minuti. La stessa compagnia di Bella, che gli ammiccava affabilmente coi suoi occhi simpatici, non bastava a consolarlo. Ripensava a Davide, che non aveva affatto dimenticato, nonostante la nuova amicizia di Scimò; e non avendo più voglia, oggi, di restare sul fiume fino a sera, tirò un poco il collare di Bella, tentandola con la proposta: «Vvàvide…» Ma Bella scosse la testa, a fargli notare che Davide non aveva dato nessun appuntamento; e che se andavano da lui senza appuntamento ne sarebbero stati cacciati via, come l’altra volta.

Dopo la partenza di Scimò, anche la mancata promessa di Davide ritornava a contristare la solitudine di Useppe. Una nuvola di passaggio coperse il sole, e a lui parve una enorme nube di tempesta. D’un tratto, si vide salpare dalla riva opposta una barca su cui si scorgevano parecchie sagome di ragazzi. Con un sussulto, Useppe si disse: «I PIRATI!» e si levò in piedi, in posizione di battaglia. Era deciso, a qualsiasi costo, a difendere da coloro la tenda d’alberi e la capanna di Scimò. Però la barca si allontanò invece nella direzione sud, costeggiando la riva donde era partita; e di lì a poco scomparve alla vista.

Useppe si risedette sull’erba, col batticuore. Le sue tristezze di poco prima andavano confondendosi in una sorta di presentimento informe che a lui non era nuovo, sebbene gli tornasse ogni volta irriconoscibile. Ciascun ritorno del suo grande male era un punto di violenza che lui subiva senza esserne testimone. Solo, ne avvertiva in anticipo un segnale ambiguo, come l’arrivo, alle sue spalle, di una maschera senza lineamenti, dietro alla quale, per lui, c’era un buco vuoto. E allora lo sorprendeva un orrore nebuloso, dove lui già mezzo cieco tentava una partenza senza direzione, per venire abbattuto dopo due o tre passi. Però questa esecuzione oscura lo trovava già incosciente. E anche di quel primo segnale non gliene rimaneva, in séguito, nient’altro che una traccia indefinita, simile a un tema frammentario udito non si sa più quando, né dove. Le sue note riemergono da qualcosa che somiglia a una lacerazione… ma non dicono quale sia la cosa.

Seduto sull’erba del fiume, col cuore che ancora gli batteva, Useppe ebbe il senso di aver già vissuto, in passato, un altro momento identico a questo. Non si sa quando, forse in un’altra esistenza, si era già trovato su una spiaggetta radiosa, lungo prati sparsi di tende allegre, nell’attesa di un orrore imminente che voleva inghiottirlo. La sua faccia si contrasse in una ripulsa smisurata; «Non voio! non voio!» esclamò. E si drizzò in piedi, allo stesso modo di poco prima, quando s’era disposto allo scontro coi Pirati. Contro quest’altra cosa, invero, non gli si dava nessuno scampo, se non un’assurda fuga. E l’unica estrema via di fuga che gli si offerse, lì all’istante, fu l’acqua del fiume, che scorreva sotto ai suoi piedi. Con la vista già annebbiata, Useppe ci si buttò a precipizio. In quel punto, la corrente era piuttosto tranquilla, però l’acqua era di parecchio più alta di lui.

Un abbaio disperato echeggiò dalla riva, e in un attimo Bella fu addosso a lui, che starnazzava in un disordine incoerente, sballottato dall’acqua come una povera bestiola, d’aria o di terra, ferita nella schiena. «Aggràppati, aggràppati a cavalluccio», lo supplicò Bella, scivolando pronta sotto la sua pancia e così sorreggendolo a galla, nel nuotare verso terra. Dentro il tempo di due respiri, il salvataggio era compiuto: di nuovo, nei suoi pannucci grondanti, Useppe stava al sicuro sul margine del prato.

Può darsi che la scossa fredda e brusca dell’acqua gli bloccasse la crisi al suo primo insorgere. Stavolta non ci fu l’urlo, né la perdita di coscienza, né quell’orrenda cianosi che lo sfigurava. Unica manifestazione di questa sua crisi (parziale o irrisolta) fu un tremito di tutti i muscoli che lo agitò convulsamente, appena fu a terra, misto a un pianto straziato: «No! no! non voio! non voio!» seguitava a ripetere, mentre Bella lo leccava in fretta, come avesse là una covata di cagnolini. Useppe tramutò infine il pianto in una risatina spaurita; e si abbracciò stretto a Bella, quasi fosse nel suo letto di casa, vicino a Ida. Si addormentarono assieme, nel mentre che il sole li asciugava.

Non sempre questi sonni stremati dopo le crisi portavano sogni; o si trattava, piuttosto, di sogni che Useppe dimenticava del tutto al risveglio. Stavolta, invece, ebbe un sogno di cui nella memoria gli si conservò durevolmente, in séguito, non proprio un ricordo ma un’ombra palpitante e colorata. Sognava di trovarsi precisamente nel luogo dove stava in realtà: solo che il fiume aveva preso la forma di un grande lago circolare, e le collinette all’intorno erano assai più alte del vero, tutte travolte da una nevicata. A suo tempo, trascurai di dire che nell’inverno del 1945 a Roma era caduta la neve: che aveva rappresentato uno spettacolo insolito per Roma, e straordinario per Useppe. Allora Useppe aveva poco più di tre anni; e da allora fino adesso, quello spettacolo della neve s’era ritratto indietro nella sua memoria, al punto da nascondersi in una caligine; quand’ecco, oggi esso tornava avanti in questo sogno. Senonché, quella neve romana era stata una visione placida, di quiete incredibile e di candore; e invece questa del sogno era una tormenta, quale Useppe, invero, non aveva mai veduta nella vita. Il cielo era nerastro, un vento fischiante torceva gli alberi della valletta e di tutte le altre rive intorno, e la neve turbinava, simile a una mitraglia di ghiacci puntuti e micidiali. Dalle vette all’ingiro, gli alberi si tendevano nudi e neri come corpi scarnificati, forse già morti. E per tutta la catena delle colline il solo suono era il fischio delle raffiche: non c’erano voci, non si vedeva nessuno.

Useppe, nel sogno, non si trovava a riva, ma nell’acqua del fiume-lago. E quest’acqua, sebbene chiusa in cerchio dalle colline, appariva di una grandezza infinita. Era tutta di un colore iridato, quieta e luminosa, e di un dolce, meraviglioso tepore, come fosse attraversata di continuo da sorgenti non viste, che il sole riscaldava. Useppe nuotava in quest’acqua naturalmente, come un pesciolino; e intorno a lui per tutto il tiepido lago emergevano innumeri testoline di altri nuotatori compagni a lui. Costoro, gli erano tutti sconosciuti; ma lui li riconosceva lo stesso. E invero, non pareva difficile capire che là erano presenti tutti i numerosissimi nipoti di Scimò, sùbito ravvisabili per i loro musetti protesi, a imitazione del famoso animaluccio senza coda; come inoltre vi era una gran folla di capoccette tonde, dalla guancia colorita, con vivi e neri occhietti: tutte gemelle, o strette parenti, della Ninuccia nipote.

Ma la cosa più straordinaria di questo lago festantissimo era che il cerchio delle colline, massacrato dalla tetra bufera, là dentro si rispecchiava, invece, intatto e beato, nella piena serenità di un’estate al suo principio. Gli alberi torturati vi si raddoppiavano incolumi, nella salute viva delle loro foglie: così che i loro riflessi diramati per tutto il lago vi disegnavano una specie di pergola verde sotto l’acqua azzurra, da sembrare un giardino sospeso in cielo. E il movimento dell’acqua li accompagnava come un soffio di vento estivo, con un suono di canzoncina e di mormorio.

Né si dava alcun dubbio che il lago era vero e autentico; mentre il panorama soprastante era un trucco, qualcosa come le ombre cinesi su un telone. Ciò nel sogno era ovvio, anzi, nell’insieme, buffo. E il dormiente ne avvertiva un piacere delizioso, tanto che dava, fra il sonno, delle piccole esclamazioni giulive. Accanto a lui Bella, invece, emetteva frattanto dei borbottii, forse rivivendo in sogno le emozioni di quel suo pomeriggio eroico.

È probabile che Useppe, lasciato a se stesso, avrebbe così dormito per almeno dodici ore ininterrotte. Ma passate circa tre ore, quando il sole declinava, Bella si svegliò dandosi una grande scrollata alla pelliccia, e lo ridestò con l’avviso:

«È l’ora di tornare a casa. Mamma ci aspetta per cena».

Il viaggio di Useppe verso casa fu strano, perché, sebbene muovesse i piedi dietro al guinzaglio di Bella, non era del tutto uscito dal suo sogno. Passarono sotto la tenda d’alberi e le voci che fanno gli uccelli raccogliendosi verso il tramonto a lui sembravano ancora i dondolii di quel lago, dove i suoni e i riflessi giocavano insieme. Alzò gli occhi, e nel tetto di rami credette di rivedere la meravigliosa pergola verde rispecchiata nel lago, nella quale i suoi compagni nuotatori scherzavano sporgendo le testoline. Anche i frastuoni cittadini del sabato sera gli arrivavano attutiti, come uno sterminato bisbiglio in fondo all’acqua, e questo rumore subacqueo gli si confondeva col battito delle prime stelle.

Era così assonnato che a cena la testa gli ciondolava. E il giorno dopo seguitò a dormire fino oltre l’ora di pranzo, resistendo ai richiami di Ida. Quando finalmente si alzò, gli ci volle un poco per ritrovare il senso del tempo. D’un tratto si ricordò che Bella e lui dovevano incontrarsi con Scimò alla capanna.

 

* * *

 

Ci arrivarono verso le quattro: troppo tardi per l’appuntamento con Scimò. E difatti, Scimò non c’era. Essendo oggi domenica, e la stagione oramai già estiva, qualche bagnante nella mattinata doveva aver sostato sulla spiaggetta. Ci si trovavano dei tappi di Birra Peroni e delle bucce di banana; ma per fortuna, nessuna traccia di pirati, ne qui né all’intorno. La capanna era come loro l’avevano lasciata il giorno avanti. Buttato sul materasso, c’era lo slip da bagno di Scimò, tuttora umidiccio; e la lampada a pila stava in terra, vicino al sasso con la candela, come ieri. Useppe non si accorse del fatto che la candela non era calata d’altezza da ieri. Unica novità: la sveglia era ferma. Useppe suppose che Scimò, per la fretta, avesse trascurato di caricarla. E siccome aveva imparato a riconoscere le ore sugli orologi, vide che essa segnava le due.

Quel due per lui significava senz’altro le due del pomeriggio; mentre la sveglia, invero, al momento che s’era fermata senza carica, faceva le due di notte. Useppe non sapeva, né seppe mai, che Scimò da quando li aveva salutati, ieri, non era più tornato a dormire nella capanna, e aveva passato la notte al riformatorio. Qualche sua conoscenza di città, ubbidendo forse a scrupoli legali, lo aveva denunciato, e fatto cadere in un tranello. Ieri stesso, dentro Roma, Scimò era stato riacchiappato; e oggi, forse, passava la sua domenica chiuso in cella, per punizione della fuga.

Useppe non ebbe nessun sospetto di un evento simile. Si disse, amareggiato, che certamente Scimò, dopo avere atteso invano lui e Bella all’appuntamento, se n’era andato senza più aspettarli, per trovarsi in orario al primo spettacolo domenicale. E certo a quest’ora si trovava già al cinema, né sarebbe tornato alla capanna prima di notte. Così, per oggi, non si sarebbero riveduti.

Questa idea già bastava a dargli dolore. Per un dovuto rispetto al domicilio di Scimò, uscì dalla capanna, e si sedette in terra, a un passo dall’entrata.

Bella, vedendolo triste, gli si sedette accanto senza disturbarlo, tutta quieta, solo ogni tanto divertendosi a dare una testata nell’aria, per mettere paura a un moscerino di passaggio. A dispetto della sua età, e pure nelle situazioni più serie, essa si lasciava sempre tentare dal suo passato di cucciola.

In quanto alla sua nuotata quotidiana, dopo l’avvenimento di ieri essa si era indotta a rinunciarci, non fidandosi di lasciare Useppe sulla riva neppure per brevi momenti. Anzi, perfino si sforzava a mantenere una certa distanza fra lui e la spiaggetta, quasi che l’acqua davvero le rappresentasse il lupo.

Oggi il sole cuoceva, come di piena estate; però essi sedevano al fresco, nel quadrato d’ombra della capanna. Di là dal valloncello, si affacciavano degli alberi, e da uno di questi si udì il suono solitario e precoce di una cicala maschio. Senz’altro doveva essere una cicala ancora piccola intenta a esercizi da principiante, perché, nonostante il suo testardo impegno, produceva un rumore da violino infinitesimo, appena appena grattato con un filo. E così, al suono, Useppe la riconobbe immediatamente per quella stessa cicala appena salita dal nido che Scimò aveva veduto nascere un paio di giorni fa.

Una certa stanchezza, da ieri, durava ancora nel corpo di Useppe, che non aveva voglia di rotolarsi, correre e arrampicarsi come gli altri giorni. Ma nel tempo stesso lo prese un’irrequietudine che lo tentava a spostarsi e cambiare luogo, pur senza indicargli dove andare. Perfino nella tenda d’alberi gli durava questa impazienza. Il tetto di rami gli riportò una vaga reminiscenza del sogno di ieri, che però oggi, in gran parte, s’era già scancellato dalla sua memoria. Non ne ricordava più i particolari del paesaggio, né la tormenta, né le testoline, né i riflessi. Quello che ne rivedeva era una distesa acquatica in un dolce movimento di colori, con insieme un bisbiglio canoro che ne accompagnava il dondolio. E gliene tornava un desiderio di lettuccio e di riposo, contrastato da una paura di rimettersi a dormire, mentre tutti erano svegli.

Vedendolo bisognoso di conforto e di svago, Bella, seduta accanto a lui, risolse di raccontargli una storia. E sbattendo un poco gli occhi, in un modo favoloso e pieno di malinconia, cominciò a dire:

«Io, una volta, avevo dei cagnolini…»

Ancora mai gliene aveva parlato: «Non so quanti fossero, di numero», seguitò, «io non so contare. E certo che all’ora del latte mi trovavo le sise tutte occupate, al completo!!! Insomma, erano tanti, e uno più bello dell’altro. Ce n’era uno bianco e nero, uno tutto nero con un orecchia bianca e una nera, e uno pure quello tutto nero con la barbetta bianca… Quando ne guardavo uno, il più bello era lui; ma ne guardavo un altro, e il più bello era questo qua; poi ne leccavo un altro, e frattanto un altro ancora spuntava di mezzo col muso, e indubbiamente ognuno era il più bello. La loro bellezza era infinita, ecco il fatto. Le bellezze infinite non si possono confrontare».

«E come si chiamavano?»

«Non ebbero nome».

«Non ebbero nome».

«No».

«E dove so’ iti?»

«Dove?., su questo, io non so che pensare. Da un momento all’altro, li cercai, e non c’erano più. Di solito, quando se ne vanno, più tardi ritornano, almeno così succedeva alle mie amiche…» (Bella, come pure le sue amiche, era convinta che ogni successiva cucciolata fosse un altro ritorno sempre dei medesimi cagnolini) «…ma i miei non tornarono più. Li ricercai, li aspettai chi sa quanto, ma non hanno fatto ritorno».

Useppe tacque: «Uno più bello dell’altro!» ripeté Bella, persuasa, con le pupille sognanti. Poi, ripensandoci, aggiunse: «È regolare. Lo stesso càpita pure con gli altri… con tutti i nostri eh. Guardiamo a esempio Antonio mio, quello di Napoli… Senz’altro, il più bello di tutti è lui! Però Ninnuzzu mio, lui pure, basta vederlo: uno più bello di lui non esiste!!»

Era la prima volta che il nome di Ninnuzzu veniva pronunciato fra loro due. Al sentirlo, la faccia di Useppe fu corsa da un tremolio, che tuttavia si risolse in un sorrisetto attento. Il discorso di Bella, invero, abbaiato con accenti canini, lo cullava come un’aria di soprano melodiosa.

«E tu», essa qua riprese, mirandolo convinta, «sei sempre il più bello di tutti al mondo. È positivo».

«E mamma mia?» s’informò Useppe.

«Lei! S’è mai vista un’altra ragazza più bella?! Eh a Roma lo sanno tutti! È una bellezza infinita. Infinita!»

Useppe rise. Su questo, senz’altro era d’accordo. Quindi ansioso chiese:

«E Scimò?»

«Che domanda! Ognuno lo vede, che lui è il più bello!»

«Il più bello di tutti?»

«Di tutti».

«E Davide?»

«Aaaah! La bellezza di Davide è la più grande. Assolutamente. La massima».

«Infinita?»

«Infinita».

Useppe rise soddisfatto, perché invero su questo argomento delle bellezze l’accordo fra la pastora e lui era completo. Giganti o nani, straccioni o paìni, decrepitudine o gioventù, per lui non faceva differenza. E né gli storti, né i gobbi, né i panzoni, né le scòrfane, per lui non erano meno carini di Settebellezze, solo che fossero tutti amici pari e sorridessero (lui, se avesse dovuto inventare un cielo, avrebbe fabbricato un locale sul tipo «stanzone dei Mille»). Però da qualche tempo lui veniva scansato e si capisce: era perché teneva questo brutto male.

«Annàmo via», disse a Bella.

Le strade erano animate dalla folla dei pomeriggi domenicali. Di là da certe case in costruzione, su un terreno aperto s’era attendato un grande lunapark. Non solo c’erano le giostre, le bancarelle, i tiri a segno, le autopiste eccetera, ma perfino le Montagne Russe, e un carosello volante dove si girava appesi in cerchio su altalene multiple a una velocità turbinosa. Useppe, che s’era spinto irresistibilmente con Bella fino sul margine del lunapark, ebbe una involontaria risatina di gioia, alla presenza di questi macchinari fantastici. Ma sùbito si ritrasse, con un sentimento di nostalgia mista di delirio, come davanti a una ebbrezza negata. È un fatto che, dall’inizio del suo male, la notte aveva certi sogni di paura (sebbene poi li dimenticasse) nei quali precipitava dall’alto in voragini cieche, oppure veniva mulinato su orbite incommensurabili in un vuoto rutilante e senza principio né fine.

Il possesso, nella tasca abbottonata, dei soliti quattrini da spendere, lo invogliava a farsi avanti, verso le bancarelle dove si vendevano i mostaccioli, i croccanti, e in ispecie lo zucchero filato, di colore rosa e giallo. Ma anche qui, la calca festante lo respinse solitario indietro. Poi, sulla via Marmorata verso il Testaccio, s’incontrarono col carrettino isolato di un gelataio. E allora Useppe si decise a tendere la manuccia coi soldi, nell’acquisto di due coni: uno per sé e uno per Bella. Anzi, incoraggiato dalla faccia del gelataio, il quale era un ometto sguercio, dal sorriso simpatico, vedendogli l’orologio gli domandò: «Tu, che ora fai?» «Le cinque e mezza», rispose il gelataio.

Era ancora presto per rincasare. E d’un tratto Useppe prese la risoluzione impulsiva di far visita a Davide Segre. «Vvàvide!» annunciò a Bella sul muso, in un tono così irrevocabile, benché di preghiera, che stavolta Bella, senza affatto obiettare, trotterellò verso Ponte Sublicio. Qui però Useppe, ripensandoci, ebbe l’idea di portare in offerta al suo amico quel fiasco di vino che giorni prima era stato acquistato da Ida apposta per lui. C’era speranza che Davide, al vederli presentarsi con quel regalo, oggi non li caccerebbe di casa. Per tornare sui loro passi verso Via Bodoni, stavolta, invece che Via Marmorata, presero le strade interne del quartiere. Dalle finestre, dai caffè e dalle osterie, li accompagnavano le voci uniformi delle radio, che trasmettevano i punteggi delle squadre di calcio; ma incrociando Via Mastro Giorgio udirono, da dentro un’osteria, qualcuno gridare: «guerra… storia…» e altre parole coperte dalla radio. Era la voce di Davide. Useppe conosceva l’osteria, per averci talvolta accompagnato Annita Marrocco, la quale ci si recava a prendere il vino. Agitato dalla sorpresa, istantaneamente si fece sulla soglia del locale; e scorto Davide, gli disse forte: «Ahò!» facendogli con la mano il suo familiare gesto di saluto.