1.
«È proprio destino che tu non lo incontri mai!» deprecò Filomena quando Santina, alla seconda visita di Ninnarieddu, arrivò dopo un’ora circa che lui se n’era ripartito. Né mai, difatti, s’incontrarono; ma del resto è da credere che l’incontro fra i due non avuti grandi effetti né per l’una né per l’altro. Evidentemente, il tempo era un fenomeno relativo, per Nino. Dopo tanti mesi d’assenza, si ripresentò come fossero passati un paio di giorni. Stavolta, la piccinina rimase nel suo cantuccio, traguardandolo incerta come una bestiola scacciata. Useppe tremava, e gli si aggrappò alla blusa per impedirgli di riscappare via.
Era dalla famosa giornata al campo, nell’ottobre del ’43, che non si vedevano. Useppe, che allora aveva poco più di due anni, adesso ne aveva tre e mezzo passati; e anche nell’aspetto di Nino c’era stato, frattanto, qualche mutamento. Però, dal loro immediato e spontaneo riconoscersi pareva che tutti e due, l’uno per l’altro, fossero sempre rimasti alla stessa età. Solo, dopo un po’ Nino disse a Useppe:
«Sei cambiato da prima: hai fatto gli occhi più tristi».
E gli fece il solletico per farlo ridere. Useppe sgranò una risata a cascatella. Anche stavolta, Nino andava di prescia. E sul punto di accomiatarsi da Useppe, gli ficcò nella tasca della tuta una saccocciata di cartemonete che, a occhio, secondo Useppe, costituivano senz’altro un milione: «Te li regalo tutti», gli disse, già con un piede sulla scala, «così ti ci compri la bicicletta». Ma Useppe restò addirittura sordo sul fatto della bicicletta, l’unico suo senso o pensiero in quell’istante era che Nino stava andandosene via. E poco dopo lui stesso, coi suoi ditini, aiutò Ida a cavare il «milione» fuori dalla saccoccia della sua tuta, per impossessarsene lei. Nel concetto di Useppe, i milioni - o anche miliardi - spettavano di competenza alle madri. In mano sua, non avevano altro valore che di carta qualunque.
* * *
Negli ultimi giorni di quell’aprile, dai vari punti d’Europa dove ancora i Tedeschi si dibattevano, le sorti della guerra tutte insieme presero una corsa precipitosa verso la chiusa finale. Le famose armi segrete del Reich avevano fallito; di qua, la linea gotica aveva ceduto, così come, di là, tutte le altre linee, i valli e i fronti. In Italia, l’esercito tedesco, dopo la ritirata da Milano, capitolava; e nella rovina di Berlino, accerchiata da tutti i punti cardinali, già entravano i primi soldati russi. A distanza di poche ore uno dall’altro, Mussolini, che tentava di salvarsi scappando camuffato da tedesco, veniva preso e fucilato verso il confino d’Italia; e Hitler si ammazzava con un colpo di pistola (di sua propria mano o di mano altrui), nell’ultimo domicilio dove già viveva interrato, il proprio bunker antiaereo sotto la Cancelleria di Berlino…
Circa una settimana più tardi, la resa totale della Germania concludeva, dopo sei anni di strage, la guerra-lampo in Europa.
La visione del sognatore Mussolini (se stesso incoronato trionfatore supremo in groppa a un cavallo bianco) era svanita in fumo; ma quella del sognatore Hitler, invece, s’era avverata su un grandissimo spazio. Territori, città e paesi del Nuovo Ordine ridotti a campo di scheletri, maceria e carnaio. E più di cinquanta milioni di morti contronatura: fra i quali lui stesso, il führer, e il duce italiano che s’era appaiato a lui, come, nei circhi, il clown s’appaia con l’augusto. I loro piccoli corpi erano mangiati dalla terra come quelli dei giudei, dei comunisti e dei banditi; e di Mosca e Quattropunte e di Esterina e Angelino e della levatrice Ezechiele.
Di là dall’Europa, in oriente, la Seconda Guerra Mondiale seguitava tuttavia a sfogarsi; mentre, di qua, restavano da fare i bilanci e i processi, come succede dopo una truffa o un assassinio in famiglia. Si denudano anche le estreme intimità scandalose, che finora s’era cercato di camuffare, almeno in parte.
Si riaprivano le galere e si riscoprivano le fosse e le foibe. Si tornava sui luoghi, si faceva giustizia. Si ricuperavano i documenti occultati. Si compilavano liste e si segnavano nomi.
Già fino dall’estate avanti, sui manifesti e sui giornali erano apparse a Roma delle strane fotografie: le quali naturalmente circolavano già, coi primi notiziari, anche nel nostro quartiere Testaccio e a Via Mastro Giorgio. Però il piccolo Useppe, a quel tempo, era ancora «protetto da Santa Pupa» come si dice a Roma dei bambinelli: e in questo si vedeva forse un primo esempio di certi suoi ritardi, che contraddicevano le sue altre precocità. Quasi a somiglianza dei lattanti, o addirittura dei cani e dei gatti, lui stentava a riconoscere, nell’unidimensionale della stampa, le forme concrete. E del resto, invero, nei suoi fortuiti giretti per il quartiere Testaccio, sempre tenuto per mano da qualche adulto, era troppo occupato e tirato dalle tante varietà del mondo, per badare a quelle immagini piatte. A casa, i libri della stanzetta gli erano vietati come intoccabili, essendo proprietà personale di Giovannino; e dei pochi giornali che capitavano in famiglia, lui non se ne interessava, essendo analfabeta del tutto.
Le sole figure dipinte o stampate che frequentasse, oltre alle carte da gioco (tenute peraltro sotto chiave) erano quelle di certi fumetti di casa, e di un sillabario, che Ida gli aveva messo a disposizione. Però, sebbene ogni tanto si divertisse a comunicare ai presenti, con l’aria di un grande indovino, i segni da lui decifrati («casa!» «fiori!» «signori!»), simili svaghi cartacei lo annoiavano presto.
Ma in quella primavera del ’45, un giorno sua madre, dopo averlo lasciato in attesa per pochi momenti fuori d’una bottega, lo ritrovò che osservava certe riviste illustrate, appese sul fianco di un’edicola, a una certa altezza da lui. Su quella più bassa, spiegata a doppio, il foglio era occupato quasi per intero da due fotografie d’attualità, entrambe di gente impiccata. Sulla prima si vedeva un viale alberato di città, lungo la spalletta di un ponte semidistrutto. Da ogni albero del viale pendeva un corpo, tutti in fila, nella stessa identica posizione, con la testa inchinata su un orecchio, i piedi un poco divaricati e le due mani legate dietro la schiena. Erano tutti giovani, e tutti malvestiti, dall’aria povera. Su ognuno di loro stava appeso un cartello con la scritta: PARTIGIANO. E tutti erano maschi, salvo un’unica donna, all’inizio della fila, la quale non portava nessuna scritta, e a differenza degli altri non era impiccata con una corda, ma appesa per la gola a un gancio di macelleria. Nella foto, la si vedeva di schiena, però dalle forme, ancora in fiore, pareva giovanissima, sotto i vent’anni. Era ben fatta, in pantaloni scuri, e sul torso insanguinato, biancastro nella foto, da sembrare nudo, le pendevano dei lunghi capelli neri, non si capiva bene se intrecciati, o sciolti. Presso la spalletta del ponte, si vedeva la figura di un uomo, forse una sentinella, in pantaloni da militare chiusi alla caviglia. E sull’altro lato del viale, stava radunato a guardare un gruppetto di persone, dall’aria casuale di passanti, fra le quali due ragazzini più o meno coetanei di Useppe.
Nella seconda fotografia dello stesso foglio, si vedeva un uomo vecchio, dalla testa grassa e calva, appiccato per i piedi con le braccia spalancate, sopra una folla fitta e imprecisa.
La rivista più in alto, in copertina, mostrava un’altra fotografia recente, senza impiccati né morti, però misteriosamente atroce. Una donna giovane, dalla testa rasa a nudo come quella di un pupazzo, con in braccio un bambino avvolto in un panno, procedeva in mezzo a una folla di gente d’ogni età, che sghignazzando la segnavano a dito e ridevano sconciamente su di lei. La donna, dai tratti regolari, pareva spaventata, e affrettava il passo, faticando su certe scarpacce da uomo scalcagnate, preceduta e incalzata dalla folla. Tutti all’intorno erano, come lei, gente malmessa e povera. Il bambino, di pochi mesi, con una testina di ricci chiari, teneva un dito in bocca e dormiva tranquillo. Useppe, con la testa in su, stava lì a scrutare queste scene, in uno stupore titubante, e ancora confuso. Pareva interrogasse un enigma, di natura ambigua e deforme, eppure oscuramente familiare. «Useppe!» lo chiamò Ida; e lui, dopo averle pòrto docilmente la manina, la seguì perplesso, tuttavia senza chiederle nulla. Di lì a poco, attratto da qualche nuova curiosità, s’era già dimenticato dell’edicola.
E nei giorni seguenti, parve che quella sua nuova scoperta della fotografia, tardiva e vagamente percepita, non avesse agito su di lui se non come impressione sfuggente, senza neanche lasciar traccia nella sua memoria. In istrada, Useppe era tornato lo stesso ignorante di prima, che passava in mezzo alle scritte e alle stampe senza vederle, troppo preso dalle altre dimensioni dell’universo, anche minuscolo, che lo attorniava. E in casa, non accennò mai con nessuno allo spettacolo astruso di quell’edicola; solo, se in una pagina sciorinata di giornale gli capitava di intravvedere delle foto, i suoi occhi s’allungavano, per una reminiscenza indefinita, verso quelle che, a distanza, gli si presentavano come macchie d’ombra: così che la sua reminiscenza se ne scioglieva, nello stesso istante, senza richiamo.
Una volta, poi, lo strillone di giornali (il quale, invero, da parte sua, definiva se stesso giornalista) trovando là sulla tavola un quotidiano, per divertire Useppe ne fabbricò in un momento un cappello tipo carabiniere, e se lo mise in capo. Al vedere il «giornalista», con la sua faccia rotonda e il mento a scucchia come i nani, che si dimenava sotto quella lucerna, Useppe rise rumorosamente. Poi, saltato sulla sedia, fu pronto a togliere il cappello dalla testa dello strillone per provarlo sulla piccinina; quindi volle provarlo su Ida, e infine su se stesso. Ora, la sua testolina era così piccola da sparire interamente sotto il cappello; e lui, fra tutto questo, rideva e strarideva, come gli fosse entrato in gola uno stornello matto.
Purtroppo, Filomena di lì a poco intervenne a recuperare il giornale, che ripiegò debitamente e mise da parte. Però in quello stesso pomeriggio, più tardi, vedendo il padrone di casa intento a sfogliare certe sue gazzette antiche (fra cui certune di un bel colore rosa) Useppe senz’altro lo invitò a fargliene, con una, un cappello. Forse, sull’esempio del giornalista, aveva inteso che questo fosse l’impiego logico, e il più interessante per lui, dei fogli stampati. Si rassegnò tuttavia docilmente al rifiuto di Tommaso; il quale poi, vedendo il suo interesse odierno per il giornalismo, ne approfittò per vantargli che questa era una collezione di cronache sportive, con partite storiche di quando ancora la guerra non aveva interrotto i grandi campionati. E in questa figura ci si vedeva un passaggio della famosa partita Italia-Spagna; e questo era Ferraris Secondo, e questo Piola…
Ricordo che quel giorno era domenica; e il mese, mi pare fosse giugno. Seguì, la mattina dopo, un caso, simile a quello antecedente dell’edicola, e che parve, lì per lì, altrettanto insignificante e labile.
Rincasando rapidamente dal mercato fra una commissione e l’altra, Ida aveva lasciato in cucina un cartoccio di frutta mezzo aperto. E di lì a poco Useppe, tentato dalla frutta, si trovò in mano il foglio di carta che la involgeva: già meditava, forse, di farcisi un cappello da carabiniere?
Era una pagina di settimanale illustrato, male stampato in una tinta violacea: di quelli a buon mercato, che per solito sono pieni di novellucce sentimentali e di pettegolezzi sulle attrici e sui regnanti; però attualmente, com’era inevitabile, il massimo posto, anche lì, era occupato dalle testimonianze della guerra. La pagina riproduceva qualche scena dei lager nazisti, dei quali, fino all’invasione alleata, si avevano solo notizie sommesse e confuse. Appena adesso s’incominciavano a svelare questi segreti del Reich, e a pubblicarne fotografie che, in parte, erano state riprese dagli Alleati all’apertura dei campi; in parte, erano state recuperate da archivi che i vinti non avevano fatto in tempo a distruggere; e in parte erano state trovate addosso a prigionieri o morti S.S. i quali le serbavano come prova o ricordo della loro azione personale.
A causa del carattere divulgativo e poco scientifico della rivista le foto stampate in quella pagina erano nemmeno delle più terribili fra quante se ne vedevano allora. Esse ritraevano: 1) un cumulo di prigionieri assassinati, nudi e scomposti, e già in parte disfatti - 2) una grossa quantità di scarpe ammonticchiate, appartenute a quelli o altri prigionieri - 3) un gruppo di internati, ancora vivi, ritratti dietro una rete metallica - 4) la «scala della morte» di 186 gradini altissimi e irregolari, che i forzati erano costretti a percorrere sotto carichi enormi fino alla cima, donde poi spesso venivano precipitati giù nella voragine sottostante per dare spettacolo ai capi del lager - 5) un condannato in ginocchio davanti alla fossa che lui stesso ha dovuto scavarsi, guardato da numerosi soldati tedeschi, uno dei quali è sull’atto di sparargli alla nuca - 6) e una piccola serie di fotogrammi (quattro in tutto) che presentano fasi successive di un esperimento in camera di decompressione, eseguito su una cavia umana. Questo genere di prova (una fra le tante e diverse attuate dai medici nei lager) consisteva nel sottoporre un prigioniero a variazioni subitanee della pressione atmosferica; e si concludeva comunemente nel deliquio e nella morte per emorragia polmonare.
Tutto ciò era spiegato, a quanto io ricordo ancora oggi, da brevi didascalie poste al basso di ciascuna foto. Però a un ignorante che non sapeva nemmeno leggere, lo spettacolo abnorme di quella pagina doveva apparire un’astrusità senza risposta, tanto più che la cattiva stampa della rivistucola ne rendeva certe immagini ambigue e indistinte. Ci si vede un cumulo caotico di materie biancastre stecchite, di cui non si discernono le forme, e, altrove, un enorme sfasciume di scarpacce ammonticchiate che, a vista, si lascerebbe scambiare per un cumulo di morti. Una scalinata lunga lunga lunga, che si perde nel quadro, con in basso certe minuscole sagome accartocciate, fra macchie brunastre. Un giovane ossuto, dagli occhi grandi, accosciato sull’orlo di una buca, con a lato una specie di mastello e intorno tanti militari che hanno l’aria di divertirsi (uno di loro fa un gesto confuso col braccio). E dall’altra parte della pagina, delle figure di ometti scheletrici, occhieggianti dietro una rete, con addosso certe casacche a strisce, flosce e cascanti, che li fanno somigliare a burattini. Alcuni di costoro hanno la testa nuda e rapata, altri portano una scopoletta, e le loro facce si atteggiano a un sorrisetto agonizzante, misero come una depravazione definitiva.
Da ultimo, nel basso della pagina, ci si vede, in quattro foto successive, uno stesso uomo dalla faccia inebetita, tutto stretto in grosse cinghie, sotto un soffitto basso. Nel centro del soffitto pare di scorgere una sorta d’apparecchio, somigliante a un imbuto; e l’uomo rovescia in alto gli occhi a quell’oggetto indefinito, come pregasse dio. Si direbbe che le sue diverse espressioni, nelle quattro foto, dipendono dagli atti incomprensibili di quella specie di dio. Da una viltà stuporosa, la faccia ebete trapassa a un’ambascia orrenda; poi, a una gratitudine estatica; e poi di nuovo alla viltà stuporosa. Resterà per sempre impossibile sapere che cosa il povero analfabeta Useppe avrà potuto capire in quelle fotografie senza senso. Rientrando, pochi secondi appresso, Ida lo trovò che le fissava tutte insieme, come fossero una immagine sola; e credette di riconoscergli nelle pupille lo stesso orrore che gli aveva visto in quel mezzogiorno alla Stazione Tiburtina, circa venti mesi innanzi. All’accostarsi della madre, i suoi occhi si levarono a lei, vuoti e scolorati, come quelli di un ciecolino. E Ida ne risentì un tremito per il corpo, quasi che una grossa mano la scuotesse. Ma con una voce sottile e dolce per non inquietarlo, gli disse, al modo che si usa coi pupi ancora più piccoli di lui:
«Gettala via, quella cartaccia. È brutta!»
«È bbutta», lui ripeté (certe combinazioni di consonanti non ancora imparava a pronunciarle). E senz’altro ubbidì alle parole di Ida; anzi, quasi impaziente, la aiutò a stracciare come cartaccia quel pezzo di giornale.
Di lì a un minuto, si udì sotto le finestre la cantilena di un ambulante che passava in istrada col suo carrettino. E tanto bastò a distrarlo. Corse verso la finestra dell’ingresso, curioso di vedere l’ambulante. «Cipolle! ajo! la rughettaaa!» gridava costui nella sua cantilena. E Annita, per risparmiarsi le scale, gli fece arrivare giù dalla finestra un canestrello appeso a un filo. In piedi su un panchetto, alla finestra, Useppe seguiva il viaggio del canestrello con lo stesso interessamento che se fosse un’aeronave Terra-Luna e ritorno, o, quanto meno, la prima esperienza di Galileo dalla Torre di Pisa. Anche l’incidente odierno, secondo il solito, pareva trascorso senza lasciare traccia nella sua capoccetta.
Tuttavia, sui primi giorni che seguirono, alla vista di certi giornali o riviste illustrate lui se ne teneva a distanza, come i cuccioli dopo una percossa. E in istrada si mostrava un poco inquieto, tirando via Ida per la vesta in prossimità di qualche affisso murale o della famosa edicola. Ci fu una visita di Nino, il quale stavolta lo invitò fuori a comperare il gelato. E rientrando ne approfittò per fare un salto all’edicola, di là dal marciapiede, dicendo al piccolo: «Tu aspettami qua». Ma Useppe, come lo vide accostarsi all’edicola, incominciò a gridargli di sul marciapiede:
«Viè’! Viè’! Vièèèè’!» con un accento di allarme disperato, quasi a difendere il fratello da chi sa quali minacce stradali. «Tu», lo canzonò allora Ninnuzzu, tornandogli vicino, «più creschi, e più me fai ride! Che ciài, mica scappo via!» Poi, con la bocca ridarella, concluse: «Me lo dài, un bacetto?»
…Durante quell’estate, ci furono ancora altre due visite di Ninnuzzu. Alla prima, adocchiò sua madre notando: «Hai fatto li capelli tutti bianchi, a’ mà, che pari nonna!!» quasi non l’avesse già vista bianca le altre volte precedenti, e si accorgesse della novità soltanto adesso.
E alla seconda visita, annunciò che presto sarebbe diventato proprietario di una moto di marca estera, come nuova, un’occasione grandiosa!, e che la prossima volta sarebbe venuto a Roma su quella!
Così fu che la piccinina (la quale attualmente, alla presenza di Assodicuori, si teneva sempre contegnosa da una parte) la stessa notte sognò di venire rincorsa a precipizio da una motocicletta che marciava da sola, senza nessuno in sella. E lei scappava a destra e a sinistra, a tal punto impaurita che lì d’un tratto, per la paura, imparava a volare.
* * *
Frattanto, nel mese di Agosto, in séguito al lancio della bomba atomica sulle città di Hiroshima e di Nagasaki, anche il Giappone aveva firmato la resa totale.
Le notizie dello scoppio atomico erano tali che se ne parlava malvolentieri, come di astrazioni ripugnanti. Non si poteva parlare di tempo, giacché la durata (se così può dirsi) del fenomeno era di una misura minima al punto da rendersi incalcolabile (si tentava di computarla a ventimillesimi di secondo). Dentro questa durata, le due città designate, coi loro abitanti, avevano cessato di esistere fino nelle molecole della loro materia. Non si poteva parlare né distruzione né di morte. Si parlava di un fungo di luce, tale che dei ciechi nati, a distanza, ne avevano percepito il bagliore irreale. E di tutto quanto esisteva prima nel suo circuito, il fungo aveva lasciato solo, qua e là, sul terreno, certe ombre, come immagini di spettri stampate su una lastra. Di là dal circuito del fungo si scatena il primo tornado, e poi il secondo tornado, e poi una pioggia putrida di strani veleni o braci. Impossibile contare le vittime: perché le conseguenze fisiche del fungo, e dei tornadi e delle piogge atomiche non si valutano solo col numero degli annientati e dei morti (a Hiroshima questi, a un primo calcolo, erano ottantamila). Esse continuano a lavorare sui sopravvissuti, attraverso gli anni e le generazioni. Le bombe dirompenti e incendiarie e i loro schianti, incendi e polveroni sembravano ancora fenomeni terrestri; mentre Hiroshima e Nagasaki non sembravano più luoghi di questo mondo. Non si poteva nemmeno sentire compassione, per i Giapponesi. Così, la Seconda Guerra Mondiale era conclusa. Nello stesso mese d’agosto i Tre Grandi (Signori Churchill e Truman, e Compagno Stalin) si ritrovavano a Potsdam per definire la pace, ossia per segnare i confini reciproci dei loro Imperi. L’Asse Roma-Berlino e il Tripartito erano scomparsi. Appariva la Cortina di Ferro.