5.

 

 

 

Durante tutta la trascorsa estate del 1946, pure fra le sue molte gite e partenze, e traffici misteriosi, Ninnuzzu era stato insolitamente assiduo, in Via Bodoni.

Adesso, non gli occorreva più chiamare, né fischiare motivi, per annunciare la propria venuta a Useppe: bastava la tromba del suo clacson, o il frastuono del suo motore, per annunciargliela! Useppe avrebbe riconosciuto il suono particolare di quel motore e di quella tromba pure fra un immenso raduno di motociclisti in marcia!

Ma un giorno, sulla metà di luglio, invece di questi suoni abituali si udì dal basso del cortile la voce di Nino chiamare: «Useppee! Useppeee!» accompagnata da un grande abbaio espansivo. Invaso dal presentimento di una sorpresa ineguagliabile, Useppe dette un’occhiata dalla finestra di cucina; e sgranando le pupille, senza nemmeno affibbiarsi i sandali infilò le scale in una discesa febbrile. Fatti i primi scalini, perse un sandalo; e invece di sprecare tempo a raccattarlo si sfilò anche l’altro e li lasciò là tutti e due. Per far più presto, anzi, fece parte della discesa a scivolo sulla ringhiera; ma all’altezza del terzo pianerottolo si scontrò in un gigante bianco, il quale, come se lo conoscesse già da secoli, lo rapiva in una festa enorme. A quel punto Nino accorreva dal basso tutto ridente e frattanto Useppe si sentì leccare i piedi nudi. «Beh, e le scarpe, te le sei scordate?» notò da parte sua Nino, arrivando. E alle spiegazioni irrequiete di Useppe, senz’altro disse al cane: «Va’, e pigliale, su, su!»

Immediatamente, il cane volò su per la scala, e ne riportò giù un sandalo; poi rivolò, e ne riportò giù l’altro, con l’aria contenta di chi capisce tutto. Tale fu il primo incontro di Useppe con Bella.

Quel cane, difatti, era, in realtà, una femmina; e portava già il suo nome di Bella, da prima ancora d’incontrarsi con Nino: chi glielo avesse messo da principio, non si sa. Ninnuzzu l’aveva veduta la prima volta, appena cucciola, a Napoli, nel ‘44, in braccio a un suo socio d’affari col quale aveva un appuntamento al porto. Il socio, che faceva il contrabbandiere di sigarette americane, l’aveva acquistata poco prima per caso da un ragazzetto di passaggio, in cambio di alcuni pacchetti sfusi di Camel e Chesterfield (dette da colui, nel suo linguaggio, le Camelle e le Cesso o fieto, e garantiva di aver fatto un affare, trattandosi di una canuccia di razza, che valeva almeno quattro o cinquemila lire! Ma per quanto Nino, invidiandogli l’acquisto, gliene offrisse subito di più per proprio conto, quello non aveva voluto cederla a nessun prezzo, dichiarando che, in quei dieci minuti da che la teneva in braccio, le si era già affezionato come a una parente. Ora, all’atto dell’acquisto, già essa si chiamava Bella: con questo nome, infatti, il venditore l’aveva presentata all’acquirente, e già essa rispondeva pronta al nome.

Ninnarieddu, da quel giorno, non se l’era più levata dal cuore; e quando gli capitava d’incontrarsi con quel tale (che di nome faceva Antonio) ogni volta gli rinnovava la proposta di rivendergliela a lui; ma Antonio, regolarmente, per quanto Nino aumentasse le offerte, gliela negava. E Nino aveva meditato perfino di rubarsela; ma ci aveva rinunciato per un sentimento d’onore, dato che Antonio gli era stato socio, e all’occasione lavoravano in società ancora adesso.

Finché, in questo luglio del 1946, Antonio fu sorpreso in una rapina a mano armata e messo dentro. E immediatamente, tormentato dal pensiero di Bella, trovò modo di far sapere a Ninnuzzu che da oggi Bella era sua: purché lui si affrettasse a recuperarla dovunque stava, per evitarle una probabile orrenda fine al Canile dei cani spersi.

Nino accorse, ma non trovando Bella alla casa di Antonio, intuì che il prossimo luogo dove cercarla era d’intorno agli edifici delle Carceri. E difatti, arrivato a Poggioreale, già a distanza di una ventina di metri vide, nel buio che scendeva, una specie d’orso bianco che vagolava d’intorno a quei muri esterni, e ogni tanto s’accucciava, e aspettava non si sa che, e mugolava ininterrottamente. Né a chiamarla, né a insistere, né a tirarla, essa non voleva staccarsi di là. E nemmeno dava risposta, seguitando il suo mugolio sconsolato e sempre uguale, nel quale un orecchio più sensibile dell’umano comune poteva intendere la parola: «Antonio… Antonio… Antonio…»

Finalmente Nino fu capace di persuaderla con un ragionamento di questo genere:

«Pure io mi chiamo Antonio (detto Antonino e Antonuzzo e ridetto Nino, Ninuzzo e Ninarieddu) e mò, l’unico Antonio, nella vita tua, sono io, perché quell’altro Antonio si prevede che da là dentro a questi muri, non uscirà prima che tu sei vecchia. E intanto a te, se resti qua vagante, verranno quelli del Canile per ammazzarti coi gassacci loro. Io tu lo sai t’ho amata a prima vista. Dopo l’unico cane mio che ho avuto, non volevo più nessun altro cane; ma nel momento stesso che t’ho vista ho pensato: o questa, o nessuno. Così mò se tu non vieni via con me lascerai soli senza cane due Antonii. E ti faccio sapere che pure mio nonno di Messina si chiamava Antonio. Annàmo, viè’. È il destino, che ci ha uniti».

Ecco dunque spiegato chi fosse l’ignoto cane visto da Davide in compagnia di Useppe. Subito, al primo incontro con lei sul pianerottolo, Useppe le riconobbe una straordinaria parentela con Blitz, per quanto invero, a guardarli, sembrassero due contrarii. Eppure, anche lei, come Blitz salutando, ballava; e, per baciare, leccava con la sua lingua rasposa; e rideva con la faccia e con la coda, allo stesso modo di Blitz. Una differenza, invece, si notava fin da principio nei loro sguardi. Infatti, Bella aveva a volte, nei suoi occhi di color nocciòla, una dolcezza e malinconia speciale, forse perché era femmina.

La sua stirpe, detta dei pastori maremmani o abruzzesi è venuta dall’Asia, dove gli antenati di Bella, fino dalla preistoria, seguirono le greggi dei primi pecorai terrestri. Dunque Bella era, come pastora, quasi una sorella delle pecore, che doveva però anche difendere con bravura dai lupi. E difatti la sua natura, sempre paziente e sottomessa, in certe occasioni sviluppava una ferocia di belva.

Essa aveva un aspetto campagnolo pieno di maestà; il pelo tutto bianco, folto, e a volte un po’ arruffato; e una faccia buona e allegra, dal naso moro. Attualmente, essendo in età di due anni, corrispondeva, secondo la specie umana, a una ragazzetta di quindici anni circa. Però, a momenti pareva una cucciola di pochi mesi, tanto che bastava una palletta, della misura di una mela, per farla ammattire in un divertimento fantastico; e a momenti, pareva una vecchia di migliaia d’anni, di memorie antiche e sapienza superiore.

Nella sua convivenza col precedente Antonio, essa, per quanto tenesse un padrone, aveva fatto vita di strada, e s’era accoppiata due volte con cani ignoti. La prima volta, evidentemente, s’era messa con un cane nero o mezzo nero, perché, dei sette cagnolini che aveva partorito, certi erano neri a macchie bianche, certi bianchi a macchie nere, e uno tutto nero con un orecchiuccio bianco. Un ultimo infine, pure lui tutto nero, aveva un ciuffo bianco in cima alla coda e un collaretto bianco. Essa li aveva accuditi e allattati con passione in un sottoscala; ma dopo alcuni giorni Antonio, non sapendo che fare di quei sette miseri bastardi, benché con rimorso glieli aveva sottratti e mandati segretamente a morire.

Tuttavia, passato qualche mese, di nuovo essa era rimasta incinta, chi sa con quale cane. Ma stavolta il parto le era andato a male, lei stessa era stata in punto di morte, e aveva dovuto subire una operazione per cui d’ora in avanti non potrebbe essere madre mai più.

Forse anche a tali suoi ricordi si doveva quella mestizia, che a volte si vedeva nel suo sguardo.

Da quando possedeva Bella, Nino, per non lasciarla, rinunciava ai cinema, spettacoli, balere, dancings e a tutti quei posti dove i cani non potevano entrare. Se poi gli capitava, in qualche caso dubbio, di vedersi respinto assieme a Bella, con la frase: «Spiacenti, tante scuse, non si ammettono cani…» si rivoltava, pronto, con una grinta torva e sprezzante, e a volte rispondeva con parolacce d’inferno e litigava. Un giorno, entrati in un bar, Bella non soltanto leccò certe paste là tenute in mostra; ma in un boccone ne inghiottì una, e avendoci trovato dentro del pistacchio o altro ingrediente che non le andava, disgustata vomitò per terra tutto quello che teneva dentro lo stomaco. Allora, il barista protestò per il locale lordato, eccetera e il suo protestare urtò i nervi a Nino: «Il vomito del cane mio», dichiarò arrabbiato, «è meglio assai delle tue paste e del tuo caffè!» «Uh, che schifo!» soggiunse ostentatamente, appena bagnati i labbri nella tazza (stava consumando un espresso). E rifiutò la bevanda con una smorfia di nausea, come se pure lui volesse vomitare. Quindi, buttate sul banco grandiosamente cinquecento lire per pagare i danni, disse: «Viè, Bella!» e uscì di là per sempre, avendo l’aria di uno che scuote via dalle proprie suole la polvere del luogo. Né Bella, da parte sua, dava segno di disonore o di rimorso: al contrario, essa seguiva Nino a un piccolo trotto allegro e festivo, tendendo come uno stendardo la propria coda pelosa (invero degna di un destriero per la magnificenza).

Ma il massimo sacrificio di Ninnuzzu in onore di Bella fu che dovette rinunciare all’uso della moto. Anzi, dopo un po’ si decise a vendere la Triumph, meditando di acquistare in sua vece, alla prima occasione, un’auto da poterci viaggiare assieme a lei. Siccome, però, il prezzo della moto gli venne pagato in tre rate, e ogni rata, invece di mettersela da parte, lui se la spendeva, per quell’estate la nuova macchina rimaneva un’utopia. E frattanto, si poteva spesso vedere Nino piantarsi affascinato e intento davanti a qualche autovettura, in compagnia di Bella e talora anche di Useppe, tutti a consulto in previsione dell’acquisto, discutendo di sprint, chilometri e cilindrate…

Tanto era fanatico Nino della compagnia di Bella, che in certi casi la anteponeva perfino alle ragazze! E Bella, da parte sua, lo ricambiava al massimo, pur senza scordarsi, tuttavia, di quell’altro Antonio di Poggioreale.

Se appena le succedeva di udire, anche per caso in un discorso fra estranei, la comune parola «Antonio», subito essa alzava i suoi bianchi orecchi pendenti, con uno sguardo consapevole e ansioso. Per proprio conto, essa aveva capito che quell’Antonio, benché vivente a Napoli, oramai, purtroppo, s’era fatto irraggiungibile. E Nino, che con lei si mostrava molto riguardoso, evitava di nominare Antonio in sua presenza per non riaprirle la ferita in cuore.

Su Bella, come in genere sulle creature primordiali, i nomi avevano un’azione pronta e concreta. Per esempio, a pronunciarle la parola gatto, essa muoveva un poco la coda, con gli orecchi mezzo su e mezzo giù, e gli occhi accesi da un’intenzione provocatoria, però quasi esilarata (difatti, a somiglianza dello stesso Nino, essa non pareva prendere molto sul serio il popolo dei gatti in generale. Quando accadeva che uno di loro, all’incontrarla, la minacciasse biecamente, lei da principio accettava la sfida, forse per non offenderlo. Ma dopo uno o due balzi animosi verso di lui, se ne andava ridendo, con l’idea sottintesa: che pretendi, tu! ti credi forse un lupo?!)

E adesso, da quando aveva fatto la conoscenza di Useppe, subito a dirgliene il nome essa si scatenava in salti festanti e smaniosi: tanto che Nino, divertito dal gioco, allorquando capitavano assieme a Roma, non resisteva al gusto di tentarla proponendo: «Annamo da Useppe?» e poi, per non deluderla, spesso finiva col portarcela veramente. In tale modo, Bella era intervenuta fra gli altri possibili motivi, anche inconsci, che spiegano i ritorni di Nino verso la famiglia, in quei due mesi di luglio e agosto.

Eppure, le tentazioni dell’estate più che mai lo chiamavano. E lui non faceva che correre, a ogni occasione, da una marina all’altra, tornandone sempre più nero, con gli occhi radiosi, lievemente arrossati dal sole e dall’acqua, e i capelli intrisi di salino. Pure Bella odorava di salsedine, e si grattava spesso, per la sabbia che le restava fra il pelo. Ma Nino aveva cura di condurla, ogni tanto, a farsi il bagno a una toletta pubblica per cani da dove essa usciva alquanto stranita, però candida, pettinata e nuova, come una signora dal salone di bellezza.

Ogni tanto, Nino prometteva a Useppe di portare in gita lui pure, uno di quei giorni, al mare, e insegnargli il nuoto. Ma le sue giornate romane si inseguivano così febbrili, da non lasciare nessuno spazio per la gita famosa. E anche le loro passeggiate a tre (Nino Useppe e Bella), per quanto abbastanza frequenti, si riducevano, fatalmente, a brevi scappate. Non arrivarono mai più in là della Piramide, o dell’Aventino.

Ninnuzzu, quell’estate, portava delle camicie con disegni a fiorami e a molti colori, venute dall’America, e acquistate a Livorno. E tre camicettine simili le portò in regalo pure a Useppe. Non si scordò nemmeno di Ida, recandole in dono degli asciugamani con sopra stampato R.A.F. e delle pantofole di paglia africane. Inoltre, le regalò un portacenere-réclame, di metallo che pareva oro, rubato da un albergo.

Fu verso la fine d’agosto che Nino, tornato a Roma per fermarvisi alcuni giorni, a causa di Bella ebbe un grave diverbio con le innominate persone che lo ospitavano. E lì per lì, nella furia, senza starci a pensare, arrivò con la valigia e il cane a Via Bodoni, dove Ida si affrettò a sistemargli alla meglio la stanzetta del sommier piccolo.

Bella non era un cagnetto da città, al pari di Blitz; e al suo ingresso nel minuscolo appartamento, questo parve rimpicciolirsi ancora, come a un’invasione smisurata. Ma Ida presentemente avrebbe accolto volentieri perfino un vero orso polare, tanto era contenta che Ninnuzzu fosse di nuovo a casa, sia pure soltanto di passaggio. Bella dormiva con lui nella stanzuccia, ai piedi del letto, aspettando quieta e paziente, alla mattina, che lui si destasse. Però, stava pronta a cogliere il primo segno, anche minimo, del suo risveglio: così che appena lui cominciava un poco a stirarsi, o dava uno sbadiglio, o semplicemente socchiudeva le palpebre, immediatamente essa balzava in un fracasso entusiasmato, all’uso di certe tribù quando sorge il sole. E così, la casa era avvertita del risveglio di Nino.

Ciò succedeva in genere verso l’ora di mezzogiorno. Fino a quell’ora Ida, nel suo solito affaccendarsi per la cucina, badava a far piano per non disturbare il suo primogenito di cui poteva udire il fresco russare da dietro l’uscio. Questo suono le dava un senso di orgoglio. E se Useppe, svegliandosi per primo, chiassava un poco, lo ammoniva a far piano, proprio come se là dietro quell’uscio dormisse il Capo di casa, e un gran lavoratore. Di fatto, che Nino lavorasse, era cosa certa, poiché guadagnava soldi (non molti, invero); ma quale fosse esattamente il suo lavoro, restava un punto confuso (che si trattasse di contrabbando o borsa nera di merci, lo si sapeva più o meno; ma un tale genere di lavoro significava solo un altro enigma allarmante, per Ida).

Due minuti dopo lo sfrenarsi di Bella, Nino stesso erompeva dalla cameruccia, coperto solo da uno slip, e si lavava in cucina con una spugna, allagando tutto il pavimento. Poco dopo mezzogiorno, qualcuno lo chiamava a gran voce giù dal cortile (per lo più era un giovanotto in tuta da meccanico) e lui si scagliava giù insieme a Bella, ricomparendo solo casualmente, a intervalli, nel corso della giornata. Il massimo sacrificio, da parte di Ida, era stato di cedergli le chiavi di casa, per le quali essa, al solito, provava una enorme gelosia, nemmeno fossero state le chiavi di San Pietro. La notte, lui rincasava assai tardi: e non solo Ida si svegliava al suo ritorno, ma anche Useppe, il quale subito mormorava, mezzo sognando: «Nino… Nino…» Un paio di volte Bella, tornata assieme a lui nel dopopranzo, era rimasta in casa la sera a aspettarlo; e quelle due volte si sentì lei che lo festeggiava al suo ritorno, e lui che le brontolava: «Scc… scc…»

Tutto ciò ebbe appena la durata di cinque giorni; ma tanto bastò a Ida per caricarsi la fantasia. Specie al mattino, quando lei stava in cucina a pulire le verdure, e di qua dormiva Ninnarieddu, e di là Useppe, le pareva di avere ricostituito una vera famiglia: come se la guerra non ci fosse mai stata, e il mondo fosse di nuovo una abitazione normale. Il terzo giorno, poiché Nino, sveglio prima del solito, si attardava nella stanzetta, essa andò là a trovarlo.

E in fine si indusse, benché peritosamente, a proporgli addirittura di riprendere gli studii, così da «assicurarsi un avvenire». Lei stessa poteva sforzarsi a mantenere tutti e tre loro, ancora per il tempo necessario: magari avrebbe cercato nuove lezioni private… Difatti l’attuale occupazione di Nino a lei pareva senz’altro provvisoria, non tale, certo, da offrirgli una carriera sicura e di fiducia! Da parecchio, invero, nella sua semplicità, essa covava la sua proposta odierna.

Però Nino, invece di rivoltarsi, come avrebbe fatto in passato, oggi la stava a sentire con una specie di tolleranza umoristica, quasi impietosito di lei. Siccome, al suo ingresso, si trovava nudo, per non darle scandalo fu sollecito a coprirsi il bassoventre con la propria camicia tutta a fiori colorati. A quell’orario antelucano per lui (non erano ancora le dieci) stava lì impigrito a stirarsi e a sbadigliare; ma ogni tanto rispondeva alle turbolenze festose di Bella con una pari turbolenza, così che gli capitava, nonostante la sua buona volontà riguardosa, di rimettere in mostra allegramente i nudi che si era coperto, ora davanti, ora di dietro. E fra tutta questa cagnara, tuttavia prestava un orecchio alla madre, con l’aria di chi sente per la millesima volta una barzelletta buffa, ma anche scema, che oggi poi gli viene rifilata da un burino. «A’ mà, te rendi conto?!» emise finalmente «…Bella, piàntala… A’ mà! a’ mà!! che me stai a dì?! mò ciarisemo con le lauree!!! Io…» (sbadigliò) «io sono plurilaureato, a’ mà!!»

«Non dico la laurea, ma almeno il diploma… Un diploma conta sempre, nella vita… volevo dire… la licenza liceale… il diploma di maturità… quello… come base…»

«Io so’ maturo! a’ mà! So’ maturo!!»

«…Ma ti costerebbe poco o niente… Oramai stavi quasi al punto dell’arrivo… al liceo, quando smettesti… Basterebbe un piccolo sforzo… l’intelligenza non ti manca… e dopo tanti sacrifici… eh! adesso che la guerra è finita!»

D’un tratto Nino si accigliò: «Bella, fuori! stànate!» gridò, rabbioso perfino contro Bella. E levandosi a sedere sul materasso, noncurante che, ormai, mostrava all’aperto tutti i suoi nudi, esclamò:

«La guerra è stata una commedia, a’ mà!» E si alzò in piedi. Così denudato, moro, dentro la stanzuccia accaldata e misera, pareva un eroe: «Ma la commedia non è finita!» aggiunse, minacciosamente.

Pareva gli fosse tornata la sua faccia di bambino, proterva e quasi tragica nei propri capricci. E intanto, s’andava infilando lo slip, per cui, simile a un ballerino, saltava su un piede.

«…Questi se credono de ricomincià tutto come prima, nun te n’accorgi? Embè, se sbaieno a’ mà! Ci hanno messo in mano le armi vere, quann’eravamo pischelli! E mò noi ce divertimo a faie la pace! Noi, mà, JE SFASCIAMO TUTTO!»

D’un tratto si esilarò. Quest’idea di sfasciare pareva mettergli addosso un’allegria straordinaria: «E vi credete pure di farci tornare alla scuola!» riprese, parlando italiano civile apposta con l’intenzione di sfottere sua madre, «il latino scritto il latino orale la storia e la matematica… la geografia… La geografia, io me la vado a studià sur posto. La Storia, è una commedia loro, che ha da finì! NOI gliela famo finì! E la matematica… Lo sai qual è il numero che più mi piace a’ mà? È lo ZERO!…

…«Bella, stà buona là fuori… mò vengo…

«Noi siamo la generazione della violenza! Quanno s’è imparato er gioco delle armi, ce se rigioca! Loro s’illudono de fregacce un’artra vorta… I soliti trucchi, il lavoro, i trattati,… le direttive… i piani centenari… le scuole… le galere… il regio esercito… E tutto ricomincia come prima! Sìììì…?! Pum! pum! pum!» A questo punto, Ida gli rivide negli occhi quello sguardo di lampo fotografico che gli aveva veduto per la prima volta la notte famosa della sua visita con Quattro allo stanzone. E nel dire pum pum pum l’intero suo corpo faceva mostra di puntare a un bersaglio il quale in sostanza era il pianeta Terra, tondo al completo coi suoi regni imperi e repubbliche nazionali. «Noi siamo la prima generazione dell’inizio!» ripigliò, al colmo dell’enfasi, «noi siamo la rivoluzione atomica! Noi le armi non le deponiamo a’ mà! LORO… loro… loro…

«LORO nun lo sanno, a’ mà, quant’è bella la vita!»

Aveva alzato un braccio, per asciugarsi con la sua camicia a fiori il sudore che gli gocciolava fra i riccetti neri delle ascelle. Tutt’a un botto, rise felice, e corse in cucina. E di lì a un attimo la cucina, nell’allegro rumore degli scrosci, s’è già tutta allagata.

«Beuh! beuh! beeeehuh!» Dalla camera, si sente Bella che fa la matta, correndo intorno al sommier doppio.

«Nino! ahò! Nino!! Ninooo!» Svegliato alla buon’ora dall’impaziente Bella, che lo segue in un tripudio supremo, ecco dalla camera è arrivato Useppe.

 

* * *

 

Di tutta la grande invettiva di Nino, un punto aveva spaventato Ida: là dove si era parlato di armi. Invero, di fronte a Ninnuzzu, da tempo Ida ormai si teneva per una subalterna o un’inferiore, al modo di una povera provinciale davanti a una superstar. E alle ragioni di lui si rimetteva quasi con fiducia, rassegnata a un’abdicazione totale, come davanti a una macchina di fantascienza. Fra tutte le ipotesi possibili, poteva anche darsi che l’attuale professione di Ninnarieddu fosse quella del brigante! Però nessuna ipotesi può variare i moti delle costellazioni! e Iduzza non si permetteva neppure di tentare certe ipotesi. Quello, che essa aveva sotto gli occhi a Via Bodoni, era un figlio pieno di salute, il quale non aveva bisogno di nessuno, e tanto meno di lei. Quand’ecco, nel discorso odierno di Ninnuzzu, le si era dato un punto di preoccupazione assai preciso. Difatti, dopo la liberazione di Roma, era stato emanato l’ordine di consegna delle armi alle autorità; e di quest’ordine, Ida era a conoscenza, fino dai giorni che dava lezione al sudafricano. Il sospetto di una illegalità flagrante la assalì e la invase, tanto che, più tardi nella giornata, mentre Nino era fuori, essa, tremando per la propria azione inaudita, chiuso l’uscio della stanzetta si mise a frugare nel bagaglio dell’assente, se non ci si trovassero delle armi nascoste… Ma per fortuna non c’erano che le note camicie, alcune sporche e altre pulite, degli slip, alcuni sporchi e altri puliti, un paio di sandali e uno di pantaloni di ricambio, e qua e là della sabbia. C’erano poi due o tre cartoline illustrate, e una lettera su carta violacea, della quale Ida scorse solo la firma (Lydia) e l’inizio (Oh indimenticabile mio sogno d’amore) rimettendo in fretta il foglio al suo posto per guardarsi dall’indiscrezione di leggerlo. Inoltre c’era un libro: Come allevare il mio cane.

Unica arma (se così può chiamarsi) era, in fondo alla valigia, un coltelluccio a scatto un po’ arrugginito (era servito a Nino per cacciare i ricci di scoglio). Ida respirò.

Il quinto giorno, Nino annunciò che l’indomani doveva partire; e siccome viaggerebbe in aereo, dove i cani non venivano ammessi, durante l’assenza lasciava Bella a pensione in Via Bodoni. Per il suo vitto, consegnò a Ida un mucchio di soldi, dandole in proposito delle disposizioni totalitarie, con tono importante e precisione scientifica: era obbligatorio che Bella mangiasse ogni giorno tanto di latte, tanto di riso, una mela grattugiata, non meno di mezzo chilo di carne scelta! Ida era sbigottita dai lussi di quella sua pensionante carnivora, che spendeva, da sola, nella bottega del macellaio, assai più di lei stessa con Useppe insieme. Ricordava le sbobbie fetenti di cui si contentava il misero Blitz, e ne avvertiva un risentimento d’ingiustizia contro questa gigantessa delle praterie. Però in compenso, imitandone l’esempio, Useppe s’induceva adesso a mangiare, lui pure, qualche pietanza di carne senza la solita ripugnanza morbosa; e questo bastava perché Ida perdonasse a Bella i suoi banchetti da milionaria.

Dopo quasi due settimane, Nino tornò a riprenderla. Annunciò che disponeva, sia pure provvisoriamente, di un alloggio periferico quasi campestre dove Bella poteva abitare assieme a lui: però secondo il solito ne tenne segreto l’indirizzo. Alla notizia che, l’indomani della sua partenza, Davide era passato a cercarlo, disse che lo sapeva, Davide gli aveva scritto e si erano già incontrati. Quindi comunicò a Useppe d’essere in trattative per l’acquisto di una jeep d’occasione, di cui gli mostrò la foto, illustrandone i meriti e i demeriti. Come velocità, purtroppo, la jeep andava scarsa; ma in compenso, trattandosi di una macchina militare, essa era brava a traversare gli avvallamenti, i terreni impervi, i corsi d’acqua e le sabbie marittime e desertiche. Al caso, poi, ci si potevano pure sistemare delle cuccette per la notte.

Questa visita di Ninnuzzu fu una delle sue più brevi, anzi non si potrebbe, invero, nemmeno chiamare una visita. Qualcuno infatti (forse Remo) lo aspettava in istrada con un camioncino, per accompagnarlo assieme a Bella al suo nuovo alloggio, e lui, per la fretta, non volle nemmeno sedersi. Ai suoi primi passi di corsa giù per la scala, tuttavia, dovette rivoltarsi indietro. Nella camiciolina a fiori che lui stesso gli aveva regalato, le mani aggrappate alla ringhiera, là in alto c’era Useppe, con un’aria impavida, ma tutto tremante nei muscoli, come un coniglio:

«Nino! Ninoo! Ninooo!»

Subito Bella rivolò su incontro a Useppe, ma senza nemmeno fermarsi ribalzò giù verso Nino, quasi non sapesse più da che parte andare.

Ninnuzzu, pur senza fermarsi, aveva levato il capo, rallentando. Sulla bocca di Useppe c’era già la tensione di una domanda, e intanto lo si vedeva impallidire all’estremo, come se in tale domanda si concentrasse tutta l’energia del suo corpo:

«Pecché» (ma serio si corresse) «perché ve ne andate via?!»

«Ci rivedremo presto», garantì il fratello, arrestandosi un istante sullo scalino, e tenendo fermo per il collare il cane smanioso. «E quest’altra volta», promise, «ti vengo a pigliare con la Gip». Poi fece con la mano il cenno dell’addio, ma Useppe restò con le dita aggrappate alla ringhiera, nell’evidente rifiuto di salutare a sua volta. Allora Ninnuzzu rifece in su due o tre passi di corsa, per salutarlo meglio da vicino:

«Me lo dài un bacetto?»

Era il 22, o 23, di settembre.