2.

 

 

 

Dopo il secondo attacco di Useppe, Ida era tornata affannosamente dalla dottoressa, la quale, di lì a due giorni, le ottenne una visita speciale da parte del Professore neurologo già da lei suggerito a Ida. In questa occasione, non senza impazienza, essa accertò Ida che il temuto E.E.G. (elettroencefalogramma) non era altro che una registrazione, innocua e senza dolore, delle tensioni elettriche cerebrali, tracciata da una macchina su una carta. A Useppe, Ida, da parte sua, dette a intendere che la legge aveva decretato certe analisi obbligatorie per tutti i ragazzini, contro il pericolo delle febbri. Lui non fece nessun commento, contentandosi di una sbuffata, però così lieve da somigliare a un sospiro.

Per l’occasione, Ida gli fece un bagno completo nella tinozza della biancheria, e gli mise il suo vestito più elegante, cioè pantaloni lunghi uso americano, e una maglietta nuova a strisce bianche e rosse. Presero il tram fino alla Stazione Termini, ma da qui, fino a destinazione, Ida si permise il lusso di un tassì. Non solo per non affaticare Useppe, ma perché il Professore aveva dato un indirizzo al quartiere Nomentano, poco distante dal Tiburtino. A Ida non bastava più la volontà per inoltrarsi in quei paraggi con le sue proprie forze.

In passato, Ida era già stata su un tassì un paio di volte almeno (ai tempi di Alfio), ma Useppe ci saliva oggi per la prima volta nella sua vita, e l’improvvisata lo eccitò. Senza incertezza si accomodò pronto accanto al guidatore; e dal sedile di dietro Ida lo udì chiedere all’uomo, in tono di competenza: «Che cilindrata tiene, questa macchina?» «È una millecento Fiat!» gli rispose il tassista con soddisfazione; e ancora Ida lo vide, ingranata la marcia, soddisfare qualche altra domanda imprecisata del suo cliente, accennando col dito al contachilometri: evidentemente, Useppe gli aveva chiesto informazioni sulla velocità… Con ciò, il brevissimo dialogo ebbe fine. Useppe si azzittì, e Ida si accorse che dondolava il capo al modo che usava per accompagnare quella sua cantilena curiosa: pecché pecché pecché pecché? Di lì a poco, volendo sfuggire alla vista delle strade, essa chiuse gli occhi fino all’arrivo.

Furono introdotti nell’ala laterale di un edificio ospedaliero, dove si teneva pure ambulatorio; però, grazie alla raccomandazione della Dottoressa, il Professore aveva fissato il loro appuntamento con qualche anticipo sull’orario comune. Li ricevette in fondo in fondo al corridoio, in una saletta che sull’uscio portava il suo nome: Prof. Dr. G. A. Marchionni. Era un signore di mezza età, alto e pasciuto, con gli occhiali sulle guance spesse, e i baffetti grigi spioventi. Ogni tanto si toglieva le lenti per pulirle, e il suo volto di miope, senza gli occhiali, scadeva dalla gravità e decenza professionale a una pesantezza gonfia e ottusa. Parlava in un tono sempre uguale, fiacco e accademico; però si esprimeva con proprietà e riguardo, e sempre con buone maniere, al contrario della Dottoressa. Non era, insomma, che un distinto signore ordinario; ma Iduzza, al vederlo, ne ebbe sùbito paura.

Sbirciava certi appunti su un foglio, e disse che era in parte a conoscenza dell’anamnesi (certo la Dottoressa doveva averlo informato), però, prima di procedere, desiderava ancora qualche informazione dalla madre: «Frattanto, Giuseppe può dare un’occhiata in giardino… Ti chiami Giuseppe eh già?…»

«No. Useppe».

«Bravo. Dunque, Giuseppe, tu scendi a dare un’occhiata per tuo conto in giardino. C’è là un animaletto che può interessarti». E sospinse Useppe verso una porta-finestra sull’esterno.

Il giardino era piuttosto un’aiola, chiusa fra i muri dell’ospedale, con appena qualche pianticella stenta. Ma in un angolo, dentro una gabbietta, ci si trovava, effettivamente, un animaluccio assai grazioso, che fissò l’attenzione di Useppe al punto da fargli addirittura trattenere i respiri. Somigliava, in piccolo, a uno scoiattolo, però senza coda. Aveva pelliccia marrone, maculata di giallo e arancio, zampette assai corte, e minuscoli orecchi dall’interno rosa. E altro non faceva che correre vertiginosamente intorno a una ruota sospesa dentro la sua gabbia, senza badare a nient’altro. La gabbia era poco più ampia di una scatola da scarpe; e la ruota aveva forse 15 centimetri di diametro: però lui, a furia di rifarne il giro con quell’affanno senza mai fermarsi, forse oramai, con le sue gambucce nane, aveva già coperto in chilometri una distanza pari al circolo dell’Equatore! Tanto era indaffarato nella sua estrema urgenza, da non accorgersi nemmeno dei piccoli richiami di Useppe. E i suoi begli occhiettini color oliva rilucevano fermi come quelli dei matti.

Da principio Useppe rimase lì in piedi davanti alla gabbia, a ruminare delle idee sue proprie. Ma di lì a non molto, il Professore, affacciandosi a richiamarlo dalla porta-finestra, lo sorprese che armeggiava con una mano dentro la gabbia, in pieno reato di effrazione. Aveva deciso invero di portarsi via l’animaluccio, nascondendoselo sotto la maglia; e poi, d’accordo con Bella, condurlo a scorrazzare in un luogo maraviglioso di loro conoscenza, da dove con le sue zampe veloci quello se ne poteva scappare dove gli piaceva, magari fino ai Castelli Romani, e in America, e in tutti i posti.

Il Professore sopravvenne giusto in tempo per evitare il furto: «No… no… vediamo!» ammonì, con la sua voce lenta. Ma siccome il ragazzetto non desisteva, e anzi lo guardava con occhi di sfida, s’obbligò a sforzargli il braccio fuori dalla gabbia, che immediatamente si richiuse con uno scatto. Poi, sempre tenendogli il polso, lo trasse con sé, riluttante, verso l’ingresso della saletta, dove Ida li aspettava.

A questo punto, l’animaluccio, che pareva muto, fece udire una voce, una sorta di grugnito impercettibile. E allora Useppe, girandosi a riguardare indietro, diede uno strattone al Professore, e puntò i piedi sul gradino. Ma il Professore, con uno sforzo minimo, lo ebbe presto risospinto su nell’interno, chiudendo alle loro spalle la porta-finestra.

Useppe s’era messo a tremare in faccia, fino dentro gli occhi: «Non voio! non voio!» esclamò d’un tratto con grande strepito, come chi si strappa da una contingenza inaccettabile. E in una vampa d’ira, che lo bruciò di un rossore cupo, senz’altro tirò un pugno al Professore, all’altezza della pancia. Ida si faceva avanti circospetta… «Niente niente. Incerti della professione», le disse il Professore, ridacchiando nella sua maniera triste, «ora si provvede… si provvede…» e calmo convocò al telefono una signorina, la quale comparve di lì a pochi istanti, porgendo a Useppe, in un cucchiaio, una buona cosa zuccherata. Nel porgerla essa aveva certe maniere insinuanti e soavi, che si sarebbero dette irresistibili; però la buona cosa zuccherata le fu violentemente ributtata addosso - bruttandole il camice bianco - da due manine febbrili che scansavano tutti.

Difatti, Useppe attualmente si voltolava in terra, scalciando contro il Professore, e contro la Signorina, e contro sua madre, in una rivoluzione totale. Nell’acquietarsi un poco, dava delle occhiate sfuggenti alla porta- finestra, quasi che là dietro, nel giardinetto, si nascondesse un punto di tenebra; e Iduzza lo vide, al tempo stesso, fare il gesto di stracciarsi addosso la sua magliettina nuova, al modo che certi febbricitanti si strappano le bende dalle ferite. Essa rammentò di averlo sorpreso nel medesimo gesto una notte d’estate di due anni prima, nella cameretta di Via Mastro Giorgio, quando il suo male aveva dato i primi segni. E tutta l’evoluzione di questo male fino a oggi riapparve alla nostra donnetta in una sorta di cavalcata sanguinaria, che galoppava attraverso i giorni e i mesi per devastare il suo bastarduccio.

Lì per lì, essa temette che una nuova grande crisi lo minacciasse in questo momento. E contro ogni criterio logico, provò una ripugnanza estrema all’idea che proprio un dottore, in particolare, dovesse assistervi! Il cuore le si rovesciò come una tasca vuota alla rapida sensazione che la scienza dei dottori non solo era inservibile per il male di Useppe, ma lo offendeva.

Essa respirò al vedere che per fortuna Useppe si andava calmando; anzi, aveva preso un’aria timida, quasi d’imputato in contumacia, e subì con rassegnazione tutti gli ulteriori esami cui venne sottoposto. Però, fino alla fine della visita, oppose un silenzio caparbio alle domande del Professore; e, invero, è da credere che non le udisse nemmeno. Io suppongo che i suoi pensieri si tendessero ancora esclusivamente verso quell’animaluccio senza coda (ma del suo brevissimo incontro con costui non parlò più a nessuno mai, ch’io sappia).

Usciti finalmente dalla saletta, i due passarono in mezzo a un gruppetto di persone in attesa, quasi tutte in piedi: c’era un ragazzo biondiccio, con le braccia lunghissime e le labbra cascanti, il quale sussultava di continuo; e un vecchietto dalle guance rossastre, assai pulito, che non cessava di grattarsi febbrilmente le spalle, con una espressione stravolta, come fosse assillato da insetti ripugnanti che non si saziavano mai. Da una stanza s’affacciò un infermiere, e per l’uscio semiaperto si scorse un interno con le grate alle finestre, e un ingombro di lettucci senza coperte su cui della gente tutta vestita stava buttata in disordine. Nello spazio fra i lettucci, un uomo in maniche di camicia, dalla barba lunga, passeggiava in fretta e furia con delle risa da ubriaco, e d’un tratto s’era messo a barcollare. Dopo una breve sosta, Ida e Useppe furono chiamati di là da una porta a vetri, che dava su una scala. Il laboratorio dell’E.E.G. si trovava in certi locali sotterranei, muniti di macchinari astrusi sotto luci artificiali; però Useppe, all’entrarvi, non mostrò né curiosità né stupore, e anche quando gli applicarono gli elettrodi sulla testolina, lasciò fare con una sorta di noncuranza disincantata. Pareva attualmente, a guardarlo, che lui, chi sa quando e dove, avesse già percorso questi sotterranei e subìto queste prove medesime; e già sapesse che a lui, tanto, non servivano proprio a nulla.

Tuttavia, rincasando, annunciò alla portinaia, con una certa importanza ma in tono di segretezza: «Ho fatto il fafogramma». Però colei, che fra l’altro andava riducendosi sempre più sorda, non si curò di capire quel discorso.

Di lì a qualche giorno, Ida tornò sola dal Professore, per un giudizio.

Le analisi e gli esami clinici non avevano svelato nulla di allarmante. Anche se gracile, e di crescita stentata, il bambino non denunciava né lesioni, né postumi di infezioni, né malattie organiche di nessuna specie. Quanto al reperto dell’E.E.G., esso equivaleva, agli occhi di Iduzza, a un oracolo di geomanzia imperscrutabile. Era un tracciato multiplo di linee oscillanti, su grandi strisce di carta oblunga. E il Professore le chiarì alla meglio che le oscillazioni attestavano l’attività ritmica delle cellule viventi: nella cessazione dell’attività, le linee inscritte si mostrano piatte. L’incartamento era accompagnato da una relazione di poche righe, le quali concludevano: Il tracciato non risulta significativo. E difatti, spiegò il Professore, non vi si registra nessuna alterazione specifica del cervello. Da questo reperto, come pure dagli esami clinici precedenti, la salute del soggetto risulterebbe normale. Però, aggiunse, data l’anamnesi, il valore pratico di un simile risultato permane incerto, ossia relativo e transitorio. Casi consimili non permettono di formulare né una diagnosi precisa, né una prognosi attendibile. Si tratta di una sindrome morbosa generalmente inspiegata circa alle cause e imprevedibile circa al decorso… La medicina a tutt’oggi può offrire solo rimedi sintomatici (il Professore prescrisse del Gardenal). S’intende che la terapia va seguìta sistematicamente e regolarmente. Il malato va tenuto sotto costante sorveglianza…

Il Professore s’era tolto gli occhiali per asciugarli, e in quel momento Iduzza credette di avere udito, da qualche reparto non lontano dei fabbricati ospedalieri, un grido di bambino. In fretta in fretta, con voce atona, essa domandò se fra le cause potesse darsi una disposizione ereditaria, la nascita prematura… «Non si esclude non si esclude», rispose il Professore in accento neutrale, giocherellando coi propri occhiali sulla tavola. Poi levando gli occhi direttamente su Ida, la apostrofò: «Ma questo ragazzo si nutre a sufficienza?!»

«Sì! Sìì! Io… il meglio!» rispose Ida in tumulto, quasi dovesse difendersi da un’accusa: «Certo», si giustificò, «in tempo di guerra, è stato difficile per tutti…» Temette, con questo tutti, d’avere offeso il Professore, includendolo nel mucchio dei disgraziati. E addirittura le parve di vedergli, nello sguardo, un’ironia… Non era altro, invero, che l’obliquità particolare di certi occhi miopi. Però Iduzza ne ebbe paura. Adesso, era un grido di donna che le si faceva udire, da qualche altro reparto dell’ospedale (forse immaginario) E il volto del Professore, senza gli occhiali, le appariva nudo fino all’indecenza, sordido e minaccioso. Le venne il sospetto che in questo luogo intricato di sotterranei, corridoi, scale e macchine, sotto il comando di costui, si ordisse un complotto contro Useppe!

In realtà, il personaggio che le stava davanti era un Professore senza troppe qualità, che le porgeva le proprie nozioni scientifiche con imparzialità doverosa (e quasi gratuitamente, inoltre, per la raccomandazione della Dottoressa). Ma Ida in quel punto lo vide sotto forma di Autorità terribile, come se tutta quanta la paura che le incuteva, da sempre, la gente adulta, oggi le si condensasse in questa maschera. La Dottoressa, pure con le sue cattive maniere (essa trattava Ida, in verità, come una mezza scema), non le era mai sembrata proprio adulta; e neanche il compare Dottore che le aveva fatto il solletico. Però, da oggi, lei si mise paura di tutti i Dottori. La parola malato usata dal Professore per definire Useppe, all’improvviso la aveva percossa come una calunnia, che essa rifiutava e che la cacciava via di schianto dalle mura dell’Ospedale. Lei non voleva che Useppe fosse un malato: Useppe doveva essere un bambino come gli altri.

Non trascurò, a ogni modo, di recarsi alla farmacia quel giorno stesso per farsi spedire la ricetta del Prof. Marchionni. E per contro le venne in mente, più tardi, che aveva trascurato di chiedergli se al bambino fosse permesso di uscire in libertà, nelle ore di luce, sotto la sorveglianza di una pastora… Ma il fatto è che su tale questione, invero, Ida aveva già deciso. Solo per quell’unica mattina dopo l’attacco la sua mano aveva osato chiudere a doppia mandata l’uscio d’ingresso; poi sùbito, fino dal giorno seguente, Useppe s’era ritrovato libero assieme a Bella.

S’era in Aprile. E poi Maggio Giugno Luglio Agosto tutta una grande estate solare si spalancava ai pupetti ai bambini ai ragazzini ai cani ai gatti. Useppe doveva scorrazzare e pazziare alla luce, come gli altri: lei non poteva incarcerarlo dentro a un muro. (Forse, quella voce non percepita, ma che pure batteva in lei da qualche punto, di là dalle soglie del suono, già la avvertiva che al suo pazzariello non resterebbero più tante altre estati?)