6.
A pochi giorni di distanza dall’arrivo di Vivaldi Carlo (non so ristabilire la data esatta, ma di certo fu prima del 10 ottobre) un nuovo avvenimento segnò quelle serate d’autunno: e fu stavolta una sorpresa sensazionale.
Pioveva a dirotto: la luce era accesa, porta e finestre chiuse, coi vetri schermati di carta nero-grigia, e il grammofono suonava Reginella campagnola. I materassi stavano ancora arrotolati contro le pareti, era l’ora che in tutti gli angoli si preparava la cena. E tutto d’un tratto Useppe, che pretendeva di manovrare il grammofono, abbandonò tale impresa affascinante, e scattò verso l’uscio, gridando, in un rapimento meraviglioso:
«Ino! Ino! Ino!»
Pareva ammattito, quasi che attraverso quell’uscio avesse la visione di un veliero d’oro con gli alberi d’argento, che stava per approdare dentro lo stanzone con tutte le vele spiegate, e illuminato a bordo di centinaia di lampioncini a colori. In quel punto, effettivamente, due voci giovanili si udirono all’esterno, via via più distinte nello scroscio della pioggia. A sua volta Ida sbucò dal proprio cantone, tremante da capo a piedi.
«Mà, c’è Ino! Api, mà, api!» le gridò Useppe, trascinandola all’uscio per la sottana. Qualcuno intanto da fuori picchiava all’uscio con energia. Ida non ebbe esitazioni, pure imbrogliandosi sulla serratura con le dita convulse e bagnate di sugo.
Entrarono Nino e un altro, tutti e due rannicchiati sotto un unico telo impermeabile, di quelli che s’usano per gli automezzi a riparo delle merci. Nino rideva a gola spiegata, come a un’avventura da romanzo poliziesco. Appena messo piede nello stanzone, d’un gesto solo buttò a terra l’impermeabile tutto lustrante d’acqua; e tratto di sotto i panni uno straccio rosso, in aria di sfida gloriosa se lo mise al collo. Sotto l’impermeabile, aveva un maglioncino a righe, tipo ciclista, e una giacca a vento di grosso fustagno ordinario.
«Ino! Ino!! Ino!!!»
«A’ Usè! Sì, so’ io! Me riconosci? E un bacetto me lo dai?»
Se ne dettero almeno dieci. Poi Nino, presentando l’altro, annunciò: «Questo è Quattropunte. E io sono Assodicuori. A’ Quattro, questo è er fratello mio, che te n’ho tanto parlato». «Eh, quanto se n’è parlato!!» confermò l’altro, raggiando in faccia. Era un ragazzo coetaneo circa di Nino, dall’aspetto comune dei contadini laziali, con gli occhi piccoli, bonari e furbi. Ma si vedeva senz’altro che la sua furbizia, la sua bonarietà, ogni muscolo del suo corpo piccolo e robusto, ogni respiro dei suoi polmoni e pulsazione del suo cuore, lui li aveva consacrati, senza discussione, a Nino.
Questo, frattanto, s’era distratto; e già nel punto stesso che l’amico iniziava la sua frase «quanto se n’è parlato!», senza più ascoltare andava frugando intorno con gli occhi, impaziente e soprapensiero. «Ma come hai fatto a trovarci?!» seguitava a ripetergli la madre, che fin dal suo ingresso s’era coperta tutta di rossore, come una innamorata. Ma invece di risponderle lui chiese, con impeto:
«E Blitz? dove sta?»
Useppe era talmente trascinato dalla gioia che quasi non colse questa domanda.
Appena appena, al passaggio della povera ombra di Blitz, il suo sguardo raggiante si velò per un attimo, forse a sua insaputa. Allora Ida, timorosa di richiamargli il ricordo, in disparte mormorò a Nino:
«Blitz non c’è più».
«Ma come?… Remo non me l’ha detto, questo…» (Remo si chiamava il padrone della famosa osteria di San Lorenzo, prossima alla loro casa) «Remo non m’ha detto niente, di questo…» In tono di scusa, Ida si mise a balbettare: «La casa è andata distrutta… niente, c’è rimasto…» Ma Nino proruppe con furore:
«Che me ne frega, a me, della casa!»
Il suo accento proclamava che, per lui, potevano pure essere crollate tutte le case di Roma: lui ci sputava sopra. Quello che voleva, lui, era il suo cagnetto, il caro compagnuccio suo, il pancia-stellata. Di questo, gli importava.
Una tragica pena infantile gli era calata sulla faccia, tale che pareva sul punto di piangere. Per un poco, si azzittò. Sotto i riccetti aggrovigliati che gli coprivano la testa come un elmo, i suoi occhi dialogavano, da una oscurità abbandonata e senza fondo, con un minuscolo fantasma, balzato a riceverlo in questo luogo estraneo, che ballava impazzito di felicità sulle sue quattro gambucce storte. Allora, reagì con l’ira, come se la perdita di Blitz fosse colpa di tutti quanti. Si sedette rabbioso, a gambe lunghe, su un materasso arrotolato, e all’intero assembramento che gli si raccoglieva intorno annunciò, con torva prepotenza:
«Siamo partigiani qui dei Castelli. Buonasera, compagni e compagne. Domattina torniamo alla base. Vogliamo da dormire e da mangiare, e vino».
Salutò col pugno chiuso. Quindi, con una specie di ammicco strafottente, tirò su da un lato il proprio giubbotto, per mostrare che, su un cinturone tenuto alto, quasi all’altezza del petto, nascondeva una pistola.
Si sarebbe detto che la sua intenzione, al mostrarla, fosse: «O ci date da mangiare eccetera oppure pagherete con la vita» Ma il invece subitaneamente s’illuminò di un sorrisetto ingenuo, e, pieno di compiacimento, spiegò:
«È una Walther», considerandola con un’occhiata affettuosa. «È preda de guera», seguitò, «stava addosso a un tedesco… A un fu-tedesco», precisò, facendo una faccia da gangster, «perché adesso non è più né tedesco, né spagnolo, né turco né giudio né… né… È tera de concime».
D’un tratto il suo occhio, sempre così animato, ebbe una strana fissità corrusca, vuota d’immagini come il vetro d’una lente. Da quando era nato, Ida non ricordava d’avergli mai visto quegli occhi. Ma fu appena un attimo. Di nuovo Ninnuzzu splendeva di un fresco umore esilarato, sciorinando i suoi vanti di ragazzino:
«Pure sti scarponi», dichiarò, mostrando il suo gran piede di misura 43, «so’ de la stessa marca: MADE IN GERMANY. E pure l’orologgio de Quattro. A’ Quattro, fàielo véde, sì che orologgio tieni. Se carica da solo, senza caricà, e ce se vede l’ora pure de notte, e senza luna!»
S’alzò, e muovendosi a ritmo, come fosse in una balera, si mise a cantare una canzonetta sulla luna, allora assai famosa.
«…Ahò, ma se s’aprisse un poco la finestra? Qui dentro ce fa caldo. Tanto, se passano le pattuie dell’oscuramento, qua siamo armati. E poi, cor temporale, la Camicia Nera nun s’azzarda. Quelli cianno paura pure dell’acqua piovana».
Pareva divertirsi a provocare tutti: gli Italiani sottoposti, i Tedeschi occupanti, i rinnegati fascisti, le Fortezze Volanti degli Alleati, i manifesti con le requisizioni e la pena di morte. Currado, Peppe Terzo, Impero, e tutta la marmaglia dei ragazzini al completo già gli si mettevano appresso come tanti corteggiatori, mentre Ida lo seguiva con gli occhi tenendosi in disparte, e la bocca palpitante quasi le rideva. Le spine dell’ansia riuscivano appena a scalfire i suoi pensieri, prontamente smussate dalla sua misteriosa fede nell’invulnerabilità teppistica di Nino. Era certa, sotto il fondo della sua coscienza, che lui avrebbe attraversato la guerra, la caccia dei Tedeschi, la guerriglia e le incursioni senza farsi nessun male, come un cavalluccio impunito al galoppo fra uno sciame di mosche.
Quattropunte, che si mostrava più guardingo, lo arrestò in tempo mentre lui sforzava la finestra per aprirla. Nino fece un sorriso dolce e grazioso e lo abbracciò: «Questo qua», disse, «è il più bravo, compagno e l’amico mio. È nominato così: Quattropunte, perché cià la specialità de li chiodi quadripunte, che schioppano le gomme ai Tedeschi. Lui cià la specialità de le punte, e io de la mira. A’ compagno, dijelo te quanti n’abbiamo stesi. Per me, li Tedeschi so’ un gioco de birilli. Se ne vedo una fila in piedi, io la sdraio!»
«Eh, quelli, i Germanesi, tengono carne a tonnellate!» fu il commento entusiastico, ma ambiguo, di Tore fratello di Carulì. Nessuno si curò di sapere se alludesse propriamente alla carne cristiana, oppure a quei famosi quarti di bue. Nello stesso istante, Ida avvertì una trafittura così feroce che per un poco non vide altro, davanti, che delle macchie nerastre. E dapprincipio non capì che cosa le succedeva, quando le trapassò il cervello una voce di ragazzo, straniera e ubriaca, che le diceva: «Carina carina». Era proprio la stessa identica voce che, nel gennaio 1941, le aveva detto quelle stesse parole, allora non percepite da lei nell’incoscienza. Ma, registrata su uno strumento nascosto del suo cervello, all’improvviso essa le ritornava, insieme coi bacetti che allora l’avevano accompagnata, e che adesso, nel posarsi sul suo viso, le dettero un’impressione di dolcezza, non meno feroce della trafittura. Alla coscienza le salì una domanda: nella fila evocata da Nino, avrebbe potuto esserci anche quel biondo?… Essa non sapeva che da quasi tre anni, colui s’era disfatto nel mare Mediterraneo.
Useppe stava sempre appresso al fratello, spostandosi dovunque lui si spostava, e infilandosi fra le gambe della gente per corrergli dietro. Per quanto fosse innamorato di tutto il mondo, ormai si vedeva chiaro che il suo più grande amore era lui. Era capace perfino di scordarsi di tutti gli altri, compresa Carulì, e le gemelline, e i canarini, per questo amore sovrano. Ogni tanto alzava la testa e lo richiamava: «Ino! Ino!» con l’evidente intenzione di fargli sapere: «Sono qua. Te ne ricordi, sì o no, di me? Questa qua è la serata nostra!»
In quel punto, dal fondo dello stanzone, dove s’apriva l’uscio interno, una voce di vecchio gridò con tutto il suo fiato:
«Evviva la Rivoluzione Proletaria!»
Era Giuseppe Secondo, il quale non aveva assistito dal principio all’arrivo di Nino, trovandosi momentaneamente al cesso. Ne era tornato giusto sul punto che Nino proclamava. «siamo partigiani. Buonasera, compagni e compagne!…» e immediatamente gli s’era acceso dentro uno sfavillio straordinario. Tuttavia, discretamente, s’era tenuto in osservazione, come un ordinario spettatore, finché non poté più tenersi. E scattando come una vampa di fuoco, si fece largo, col suo cappello in testa, e si presentò ai due:
«Benvenuti, compagni! Siamo a vostra completa disposizione. Voi stasera ci fate un grande onore!!» E col sorriso gioioso di un ragazzo, rivelò, abbassando un poco la voce, e nella convinzione di dare chi sa quale annuncio importante:
«Anch’io, sono un Compagno!…»
«Salve», gli fece Nino, con serena condiscendenza, però senza strabiliare alla notizia. Allora lui con grande premura andò a frugare dentro il proprio materasso, e in un ammicchio trionfale venne a sottoporre ai visitatori una copia clandestina dell’«Unità».
Riconoscendola subito benché analfabeta, Quattro sorrise di piacere:
«L’Unità», dichiarò gravemente, «è il vero giornale italiano!» Nino guardò l’amico con una specie di rispetto: «Lui», spiegò a tutti, impaziente di fargli onore, è un vecchio militante della Rivoluzione. Io invece so’ nuovo. Io», dichiarò con onestà sincera, ma strafottente, «fino a quest’estate militavo dall’altra parte».
«Perché eri regazzetto», gli ribatté, in sua difesa, Quattro, «da regazzetti, ci si sbaglia. L’idea, si fa col giudizio dell’anzianità. Uno, da regazzetto, non è ancora anziano per la lotta».
«Beh, mò so’ cresciuto!» commentò Ninnuzzu con allegra protervia. E per ischerzo attaccò Quattro con una mossa di boxe. L’altro gli rispose, e i due lottarono, giocando ai colpi e alle parate come due veri pugili. Giuseppe Secondo ci si mise in mezzo a fare l’arbitro, con grande competenza e un tale entusiasmo che il cappello gli scese indietro fin sulla nuca, mentre d’intorno Peppe Terzo e Impero e Carulina e tutta la ragazzaglia zompavano e vociavano da veri tifosi del ring.
Il gioco portò al massimo l’eccitamento di Nino. Il quale da un momento all’altro piantò la partita, e balzò in cima alla catasta di panche gridando con l’impeto di un barricadiero:
«Evviva la Rivoluzione!»
Tutti applaudirono. Useppe gli corse dietro. Gli altri ragazzini pure, arrancando su per la catasta.
«Evviva la bandiera rossa!» gridò a sua volta, fuori di sé, Giuseppe Secondo, «fra poco ci siamo, compagni partigiani! La vittoria è nostra! La commedia è finita!!»
«Fra poco rivoluzzioniamo tutto er mondo!» proclamò Ninnarieddu, «rivoluzzioniamo er Colosseo, e San Pietro, e Manhattan e er Verano e li Svizzeri e li Giudii e san Giuvanni…»
«…e tutte cose!» strillò dal basso, saltando, Carulina.
«E famo un ponte aereo Hollywood-Parigi-Mosca! E ce sbronziamo de whisky e de vodka e li tartufi e er caviale e le sigarette estere. E viaggiamo sulle Alfa da corsa e sul bimotore personale…»
«Viva! viva!» applaudivano, a casaccio, i ragazzini, tuttora affannati nell’impegno di arrampicarsi su per il palco del comizio. Solo Useppe c’era già arrivato, e di lassù, a cavalcioni su un banco gridava anche lui: «Viva!» e batteva le manucce sul legno, per cooperare al rumore. Le stesse gemelline, dimenticate in terra su certi stracci, levarono dei trilli da soprano.
«…e li tacchini, e le cassate, e le sigarette estere… e famo l’orge co l’americane e ce scopiamo le danesi, e ar nemico je lassamo le seghe…
«…ahò, ma qua, quando se magna?!»
Ninnuzzu era saltato in terra. Useppe gli volò dietro.
«Pronti, pronti», s’affrettò a rassicurare Giuseppe Secondo. E le donne ritornarono ai preparativi della cena, con grande movimento di piatti e di stoviglie. In quel punto, nel quarto angolo, di dietro la tenda di stracci, si avvertì un miagolio.
Vivaldi Carlo non s’era fatto vedere, tenendosi per tutto il tempo dentro il suo covo. «Ma là dietro, chi ci sta?» s’informò Nino. E senza storie spalancò la tenda. Rossella soffiò e Carlo si rizzò a mezzo sul pagliericcio.
«E questo, chi è?» disse Nino, manifestando, per la prima volta da quando era entrato, un’ombra di sospetto. «Chi sei?» domandò all’uomo del covo. «Chi sei?» gli ripeté Quattropunte, intervenuto prontamente a rinforzo del suo Capo.
«Sono uno».
«Uno chi?»
Carlo fece una smorfia. «Parla», gli disse Nino, fiero di assumere l’aria propria di un guerrigliero in un interrogatorio. E Quattro sua volta lo sollecitò «Perché non parli?» conficcandogli in faccia gli occhietti come due chiodi.
«Ma insomma, di che avete paura?! Diffidate di me?»
«Noi non ciavemo paura nemmanco der padreterno. E se non vuoi che diffidiamo de te, allora scuci».
«Ma che cazzo volete sapere?!»
«Come ti chiami?»
«Si chiama Carlo! Carlo!» intervennero i ragazzini sopraggiunti, in coro.
«Carlo e poi?»
«Vivaldi! Vivaldi! Vivaldi!» gridarono le donne, dall’opposto cantone.
«Sei dei nostri?» fece Nino, mantenendo il suo piglio austero e minaccioso.
«Sei dei nostri?» ripeté Quattropunte, quasi all’unissono.
Carlo li guardò con un’occhiata tanto trasparente, che pareva divertita. «Sì», rispose con un rossore di bambino.
«Sei comunista?»
«Sono anarchico».
«Beh, a èsse pignoli», interloquì, conciliante, Giuseppe Secondo, che sùbito s’era aggiunto al colloquio, «il nostro grande Maestro Carlo Marx sugli anarchici si dichiarava piuttosto contro che pro. La bandiera rossa è rossa, e la bandiera nera è nera. Questo è pacifico. Però in certe ore storiche tutte le Sinistre marciano unite, nella lotta contro il nemico comune».
Nino per un momento rimase zitto, coi cigli corrugati, a meditare su un proprio dubbio filosofico. Dopo di che, sorrise soddisfatto:
«A me», decise, «l’anarchia mi piace».
Carlo, quasi contento, fece un sorrisetto (il secondo, dal giorno della sua venuta). «E che stai a fa’, qua solo?» lo affrontò Nino, «sei misantropo?»
Carlo alzò una spalla. «Annàmo, compagno anarchico», lo incitò Giuseppe Secondo, «viè a tavola con noi! Stasera, invito io!» annunciò procedendo verso il centro dello stanzone, con un tono grandioso da miliardario.
Carlo s’avanzò, incerto e dinoccolato, senza guardare nessuno, e pronta Rossella gli saltò dietro. Vista la serata eccezionale, la cena fu apprestata in comune nel centro dello stanzone, su un’unica tavola fatta di casse d’imballaggio accostate. Intorno, come sedili, furono posti in terra materassi, cuscini e sacchetti di sabbia. Giuseppe Secondo portò in tavola delle bottiglie di vino speciale, da lui sempre tenuto in serbo per festeggiare la vittoria (cioè la sconfitta dell’Asse). «La vittoria», disse, «se comincia a festeggià da stasera».
Carlo e Nino s’erano sistemati su due materassi quasi di fronte, seduti nella posa dei monaci buddisti. A fianco di Nino stava Quattro, e dietro le loro spalle i ragazzini si azzuffavano, volendo tutti prender posto vicino a loro.
Useppe s’era stretto addosso al fratello, e i suoi occhi, sempre levati al suo viso, parevano due piccole lampade proiettate su di lui per vederlo più in luce. Solo di tanto in tanto la sua attenzione si distraeva per fare: miuuu… miuuuu… alla gatta e offrirle qualche bocconcino.
La lista della cena era: spaghetti all’amatriciana, con pomodori in conserva, e vero pecorino di campagna; bistecche alla pizzaiola; pane di farina autentica, acquistato di contrabbando a Velletri; e marmellata di frutta varie. La pioggia che seguitava a scrosciare dava una sensazione d’isolamento e di sicurezza, come dentro l’Arca del diluvio.
Nino rimase alquanto silenzioso, tanto era preso dall’osservare Carlo Vivaldi: non più insospettito, ma intento, come i ragazzini quando nella loro banda arriva un tipo esotico, o, in qualche modo, problematico. Di momento in momento, i suoi occhi ritornavano sulla faccia di lui che, invece, non guardava nessuno.
«Sei milanese?» gli domandò.
«…No… Sono di Bologna…»
«E allora perché stai qua?»
«E tu perché ci stai?»
«Io! Perché li fascisti me cominciaveno a puzzà, ecco perché! M’ero stufato della puzza delle camicie nere».
«E io pure».
«Eri fascista pure tu?»
«No».
«Eri antifascista pure da prima?»
«Sono stato sempre anarchico».
«Sempre! Pure quando eri pischello?»
«Sì».
«Asso de còri, che me la fai véde, la pistola?» supplicò in questo momento, all’orecchio di Nino, Peppe Terzo, il nipote romano di Carulì, che lo assediava alle spalle, insieme al fratellino più piccolo e al cugino Currado; ma Nino con una scossa li mandò tutti e tre a capitombolare all’indietro sul materasso, ammonendoli, con ferocia:
«Adesso basta, eh! Sgomberate!!!»
«A’ fiacci de… lasciate sta er signore! Ma perché dovete da èsse così incivili!!» li ammonì a sua volta, dal proprio posto, la madre di Peppe Terzo, con lamento dolce da gallinella. Frattanto, la gatta Rossella, risbucata di fra i piedi della gente, andava strusciandosi addosso a Useppe, per chiedergli un altro bocconcino; ma come Nino, avvistandola, allungò una mano per carezzarla di passaggio, lei, secondo il suo solito, scappò via. I tre nipoti di Carulina, allora, rialzandosi dal capitombolo, per darsi sfogo presero a rincorrerla; però lei con un guizzo fu pronta a rifugiarsi sotto una gamba di Carlo; e di là soffiò verso l’intera tavolata.
Giuseppe Secondo, che sedeva accanto a Carlo, d’un tratto le dette un’occhiata compiaciuta e furbesca:
«Compagni», disse, rivolto e a Nino, e a Quattro, «questa gatta è di mia proprietà. E volete sapere, in confidenza, che nome tiene?»
«Rossella!» esclamò trionfante Carulina.
«Eh, grazie tante!…» fece Giuseppe Secondo, alzando una spalla con sufficienza, «Rossella! questo qua sarebbe il nome, diciamo così, governativo… meno compromettente… per intenderci. Ma il vero nome suo, che j’ò messo io quanno l’ho presa, è un artro, che solo io, lo so!»
«Issa nemmeno, ‘o sape?!» chiese incuriosita Carulina.
«No. Nemmanco lei!»
«E che nome sarebbe?» s’informarono le due cognate insieme.
«Ditelo. Ditelo!» affrettò Carulina.
«Beh, stasera, fra de noi, magara a bassa voce, se pò dì», risolvette Giuseppe Secondo. E con un’aria da congiurato, rivelò:
«RUSSIA!»
«Russia! Volete di che la Rossella, de nome se chiama Russia?» fece una delle cognate, poco convinta.
«Sissignora. Russia. Sissignora».
«Beh, Russia sarà un bel nome, mica dico de no», osservò la sora Mercedes, «però che c’entra? Russia è un posto, come se chiama? è ‘na località! la Russia!»
«A me», dichiarò nonna Dinda, «mi piace di più Rossella».
«Beh, tutti li gusti so’ gusti», rispose Giuseppe Secondo.
«La Russia è la Russia, e va buono!» rinforzò nonna Dinda, «però, per una femminella, a me Rossella mi pare più carino».
Giuseppe Secondo si strinse nelle spalle, con un senso di lieve mortificazione, ma anche di superiorità definitiva e incompresa.
«Rossella…» notò a questo punto una delle cognate, «non è pure il nome di quell’attrice, in quel film… com’era?»
«Via col vento!» esclamò Carulina, «Vivia Leik, in Via col vento!»
«Era quella che si sposava con lui, e poi moriva?»
«No, la figlia moriva», precisò la cognata napoletana, «e invece lui s’era spusato a quell’altra…»
Il gruppetto attaccò a discutere sul film; ma un tale argomento annoiava Giuseppe Secondo. Fece una guardata verso i due compagni, per intendere: «Ecco, le donne!…» Quindi si alzò dal suo posto, e venne a affacciarsi fra Nino e Quattro. Era deciso a buttarsi a qualsiasi sbaraglio, pure di dimostrare ai due la propria fede; il suo viso, buffamente infantile, splendeva di contentezza liberatoria.
«E volete saperlo», annunciò con voce gongolante, «perché, a quella coppietta là» (indicando i due canarini) «li ho nominati Peppiniello e Peppiniella?»
«?…»
«Per onorare il compagno Giuseppe Stalin!!»
Quattropunte gli rispose con dei cenni del capo pieni di apprezzamento e di gravità; ma Nino, invece, non gli dette soddisfazione. In verità, per quanto mangiasse e bevesse molto, Ninnarieddu aveva preso un’aria svogliata e si mostrava poco attento alle chiacchiere. Giuseppe Secondo ritornò a sedersi al suo posto. Da parte sua, frattanto, la sora Mercedes, nell’intento di compiacerlo (e senza nemmeno contare gli altri Giuseppi presenti), gli diceva:
«Pure voi, tenete lo stesso nome, sor Giusè…» ma lui, quasi scandalizzato, allargò le braccia, come a dire: «per carità, che c’entro io? non se ne parli!»…
Qua i nominati Peppiniello e Peppiniella, forse credendosi che facesse giorno, intonarono qualche verso. Carulina, per aumentare la festa, andò a mettere il disco del jazz; e a questo le gemelline, che s’erano addormentate su un angolo del materasso, si svegliarono strillando. Carulina in fretta e furia venne a loro, e prese a cantare:
Ninna ò nanna ò
Rusinella e Celesta s’addormentò…
eccetera eccetera.
Ma prima ancora che sulle gemelline, la ninnananna parve avere effetto su Useppe, che di lì a poco piegò le palpebre. Ida allora se lo prese in grembo, e di conseguenza venne a trovarsi vicino a Ninnarieddu:
«Ma come hai fatto, a trovarci?!…» gli ripeté, a bassa voce, ancora una volta.
«A’ mà, te l’ho già detto che so’ passato da Remo! Prima ero andato pe’ passà da casa, e quann’ho visto che ar posto de casa c’era un abbisso, me so’ informato da lui!» le spiegò Nino, con una certa impazienza. E subito richiuse la bocca, prendendo un’espressione imbronciata, forse perché il suo discorso gli aveva richiamato il dolore recente per Blitz.
«Ninna ò nanna ò
Rusi e Celestina s’addormentò
òòòòò…»
Useppe dormiva. Ida si mosse per coricarlo sul proprio materasso dietro la tenda di sacchi. E quando tornò, il suo posto vicino a Nino era stato preso dai soliti nipoti di Carulì, che ci s’erano messi in mucchio, e già andavano esaminando da presso gli scarponi di marca tedesca, studiandone i lacci, la suola eccetera come se ammirassero un monumento.
«…Stavi nell’esercito?» domandò Nino.
Vivaldi Carlo alzò gli occhi, con la malinconia selvatica di un animale che si affaccia dalla tana, incerto se uscire all’attacco. In quella serata, badava più a bere che a mangiare, e già il disagio, che lo aveva inchiodato da principio, andava un poco sciogliendosi nel vino.
«Sì! era soldato! è venuto a piedi dall’Alta Italia!» risposero, per lui, due o tre donne, fra le quali Carulina, contenta di mostrarsi informata. Ma a quest’altra interferenza non richiesta, Nino emise un fischio impaziente; nel suo sguardo, che incontrò quello di Carlo, non c’era più il terrorismo del capobanda, ma solo un’ostinata pretesa di dialogo, scoperta fino al candore.
«Sei scappato dall’esercito?»
Il labbro superiore di Carlo si mise a palpitare: «No», dichiarò con onestà, e quasi mitemente, «a loro, qua, ho detto che ero soldato, così per dirne una… Ma non era vero. Io non appartengo a nessun esercito!» precisò con un senso acerbo, non si capiva se d’onore, o di disonore.
Nino alzò le spalle: «Beh, se vuoi parlà, parla», disse, indifferente. E con protervia subitanea soggiunse: «Io me ne frego, dei fatti tuoi».
Il volto di Carlo, dai sopraccigli riuniti in fronte, s’indurì: «E allora, perché domandi?!» proferì, con un pudore aggressivo.
«E tu, che ciài da nasconne?» replicò Nino.
«Vuoi sapere da dove sono scappato?»
«Sì! Lo vojjo sapé!»
«Sono scappato da un convoglio di deportati, in viaggio su un treno piombato verso la frontiera orientale». Era la verità, ma Carlo la accompagnò con una risata stramba, come se raccontasse una barzelletta.
«Aaaah! manco male! finarmente, pure u Turco ha parato!» levò qua il suo commento nonna Dinda, con un piccolo respiro di sollievo. «Iiiiih! Nonna! statevi zitta!» la rimbrottò piano Carulì. Carlo le guardò, l’una e l’altra, senza vederle, con occhi inespressivi.
«T’avevano preso in una retata?» domandava ancora Ninnarieddu.
Vivaldi Carlo scosse la testa. «Io…» borbottò, «ero clandestino… facevo la propaganda politica! Qualcuno fece la spia… m’hanno denunciato al Comando tedesco». Qua uscì in un’altra risata, quasi oscena, che gli lasciò i tratti corrotti come da un’infezione. Al suo movimento scomposto, Rossella, di sotto la sua gamba, emise una voce sua speciale di protesta lamentosa, che suonava: «Mememiè! Mememiè!» E lui, quasi assurdamente confuso per aver disturbato la gatta, si ricompose, girando all’intorno lo sguardo trasognato di un orfano. Ma in quella poi, con una improvvisa brutalità, e rivolto esclusivamente a Nino, gli fece: «Tu le conosci, le celle di sicurezza tipo bunker, dette anticamera della morte?»
«Ce n’ho un’idea!» Nino aveva cambiato posizione, allungando i piedi sulla tavola e appoggiandosi con le spalle alle ginocchia dell’amico Quattro, che volentieri s’era disposto a fargli da schienale. «A’ compagno», disse quindi a Carlo, dopo avere strizzato fra le dita e buttato via il proprio pacchetto vuoto di Popolari, «offrimi una sigaretta». Ostentava una disinvoltura da gangster americano, rotto a tutte le esperienze. Carlo gli gettò una sigaretta attraverso la tavola. E nel tempo stesso, con un sorrisetto sforzato quasi evasivo, fece sapere: «Mì, ci sono stato». «Io ci sono stato…» «Ci sono stato…» ripeté più volte, straniandosi in una fissità astratta, sotto una sorta d’ispirazione assurda e disgustosa. E lì per lì, assumendo una parlata monotona, scientifica (solo con inframmessa qualche parola dialettale: la lus, la dona o simili, e qualche rara smorfia), s’internò in una descrizione di quel particolare tipo di celle.
Si trattava, secondo la sua descrizione, di certi depositi singoli, del genere bunker, costituiti d’una colata di cemento su un’armatura a cupola: usati attualmente da parte dei Tedeschi nel nord Italia, perché di costruzione rapida e di praticità elementare. L’interno, di circa metri 1,90 per 1,10 e altezza 1,30, era giusto di misura sufficiente per il tavolaccio, e un uomo non ci si poteva tenere in piedi. Nel soffitto era sistemata una lampada di forse trecento candele, la quale restava accesa giorno e notte e bucava pure gli occhi chiusi, come una fiama ossidrica (qua Vivaldi Carlo istintivamente si coprì gli occhi con una mano). E l’unica apertura verso l’esterno, circa a mezza altezza dell’uscio sbarrato, era uno spioncino o sfiatatoio, di diametro poco più che una canna di moschetto. Ci si attaccava sempre con le labbra, carponi sul tavolaccio, a quel foro, per succhiare quel filo d’aria. Di tali bunker, là in quel cortile del Comando S.S. (una specie di rimessa in periferia), ne erano stati costruiti una quindicina, uno accosto all’altro, con annesso forno crematorio.
In genere, nessun bunker rimaneva a lungo vuoto. Ci si veniva rinchiusi, per solito, dopo l’interrogatorio, e in attesa di nuova destinazione. Specie la notte, ne sortivano delle voci, le quali, spesso, non erano più voci ragionanti, ma piuttosto urla incoscienti della materia. Un uomo, ancora cosciente, ripeteva d’essere là dentro da trentacinque giorni, e non faceva che chiedere dell’acqua; ma nessuno gliene dava. Certe volte, a chiedere dell’acqua, in risposta, attraverso lo sfiatatoio, si vedeva penetrare la canna d’un moschetto. Nel prossimo bunker a sinistra, ci stava una dona che durante il giorno pareva muta, ma ogni notte ricadeva in una demenza vociante, e invocava perfino gli S.S. di guardia, chiamandoli figli miei. Ma non appena si avvicinavano i passi della sentinella di ronda, all’improvviso tutte le voci tacevano.
Difatti, a ogni stridore di serratura che veniva aperta, succedeva, di lì a poco, un suono di spari nel cortile. I bunker avevano preso quel nome anticamere della morte perché, specie di notte, di là dentro si usciva soltanto per venire giustiziati nel cortile stesso, con un colpo alla nuca. Non si poteva mai sapere chi sarebbe il prossimo, né il criterio delle scelte o esclusioni quotidiane. A ogni sparo, i cani delle S.S. latravano.
Qua, Vivaldi Carlo, come risvegliandosi dalla sua lunga ispirazione, si mise di nuovo a ridere, nello stile di uno sbronzo che, per fare il bullo e il maledetto, confessa in pubblico una propria azione vergognosa:
«Io, là dentro, ci sono stato 72 ore», fece sapere, senza rivolgersi a nessuno, «le ho contate, dai campanili. Settantadue. Le ho contate. Tre notti. In tre notti dieci spari. Li ho contati».
Nella tavolata, tutti si tenevano zitti, rispettosamente: però i soli che ascoltassero con reale impegno erano Nino e Quattro. I Mille, e con loro lo stesso Giuseppe Secondo, si scambiavano sguardi avviliti, per la delusione di un tale soggetto tetro, che inquinava la loro festa; mentre i ragazzini, e Ida non meno di loro, ciondolavano già dal sonno.
«…là dentro, si conta sempre… si passan le giornate a contar… qualsiasi scemensa, per non pensare… Si conta… l’importante è fissare il cervello su qualche esercissio idiota… elenchi… i pesi e le misure… la lista del bucato…»
(A questa frase, la sora Mercedes dette di gomito a Carulina; e Carulina, per quanto scossa non poco dall’argomento, riuscì a malapena a trattenere un’ilarità compulsiva).
«…sottrazioni, addizioni, frazioni… numeri! Se ti viene da pensare a tua madre, a tuo padre, alla sorela, alla ragazza, buttarsi subito a calcolare la loro età in anni, mesi, giorni, ore… Come una macchina… sensa pensar… Settantadue ore… tre notti dieci spari… Uno sparo per uno e basta… Uno due tre quattro… e dieci… Si diceva che erano tutti partigiani… per la maggioransa… banditi… questa era l’imputazione…»
«Ma che? eri tu pure, partigiano?» chiese Nino, mettendo i piedi in terra in un interesse repentino che lo fece addirittura risplendere.
«Mì no! te l’ho già detto! io non ero soldato!» protestò l’altro, quasi arrabbiandosi. «Io… lavoravo in città… (però la città non la dico)… Manifesti… volantini… propaganda… Imputato politico… per questo mi destinarono al treno! Io, però non sapevo, quale condanna… Alla mattina presto, quando sono venuti a prelevarmi dal bunker, il mio pensiero è stato: Ci siamo! Numero undici! Avevo già il tonfo nel cervello… Caminar… caminar… merda. Caminar… ah màma mia… il mondo fa schifo».
«Il mondo PUZZA!! Adesso lo scopri?» confermò Ninnarieddu, trionfalmente, «eh! io, è da mò, che l’ho capito! È troppo schifoso, e PUZZA! però», soggiunse ripensandoci, e incominciando a muovere i piedi, «a me… questa puzza m’arrazza! Ce so’ certe donne, no, che puzzano, de che? boh! de donna! e co’ ‘sta puzza de donna te fanno arrazzà!… A me», proclamò, «m’arrazza tutta la puzza della vita!!»
Lì per lì i suoi piedi, da soli, nel muoversi avevano preso il ritmo del jazz di poco prima. «E allora? Come hai fatto a scappare?!» s’informò, incuriosito, così ballando.
«Come ho fatto! Ho fatto, che mi sono buttato giù… a una sosta… a Villaco… no, prima. Non lo so, dove… C’erano due morti, sul vagone, da scaricare: un vecio e una vecia… Basta! non ho più voglia di parlarne! Basta!!» E qui Vivaldi Carlo aggrottò le ciglia, con l’espressione nauseata, ma stranamente inerme e nuda, di un ragazzino capriccioso che finalmente ha vuotato il sacco, e dice, esausto: adesso, lasciatemi in pace.
«Bravo. Non ne parliamo più. Beveteci sopra!» lo esortò la sora Mercedes, «tanto, fra poco, è tutto finito. Fra poco, se Dio vuole, arrivano i liberatori!»
«Ma quando arrivano, dunque, questi messia?…» esalò a questo punto, con una vocina lamentosa, l’altra nonna di Carulina, la quale, diversamente da nonna Dinda, per solito stava sempre zitta. «Arrivano, nonna, arrivano, è questione di ore!! Beviamoci sopra!» fu il coro generale dei Mille. E Carulina, che, nonostante l’emozione, aveva tuttavia seguitato a covare la sua ilarità proditoria, ne approfittò per darle via libera, uscendo in una risata, che somigliava a uno strombettio. Carlo allora alzò gli occhi verso di lei, e le fece un sorriso dolce di bambino.
Il suo volto appariva spossato, ma disteso, come nella convalescenza da una malattia delirante. Non c’era più traccia di quella espressione corrotta, che fino a un minuto prima lo stravolgeva. E lo stesso eccitamento del vino, che si vedeva bruciare nei suoi occhi, si era trasmutato, dal fuoco putrido di pocanzi, in un tremolio luminoso, timido e ingenuo. Accovacciato in una posa scomoda, con una gamba mezzo stesa e l’altra più alzata per lasciare posto a Rossella, pareva l’inviato di qualche tribù rotta e dispersa, che domandasse, forse, anche aiuto.
Seguendo l’esempio generale, si versò dell’altro vino, ma con un movimento goffo, tanto da rovesciarne una parte fuori del bicchiere: «Fortuna! fortuna!» gridarono allora tutti quanti, «vino versato porta fortuna!» e a gara accorsero a bagnarsi le dita in quel vino, per umettarsene la pelle dietro gli orecchi. Anche a quelli che non s’erano mossi dal loro posto fu elargito questo piccolo battesimo, per mano specialmente di Carulì, la quale non dimenticò nessuno: né Useppe immerso nel sonno dietro la tenda, né gli altri ragazzini addormentati in giro per la stanza, né Ida, la quale, mezzo assopita, reagì al solletico con un lieve riso inconscio. Unico escluso, era rimasto proprio Vivaldi Carlo; ma da ultimo, vincendo la soggezione, Carulina provvide anche a lui. «Grazie… grazie!» si dette a ripetere lui, «grazie!» E a tale profusione di ringraziamenti, lei, non sapendo come sdebitarsi, e intimidita all’eccesso, rimase là, a dondolarsi sulle gambe, in una specie di balletto cerimonioso.
«Un brindisi ai liberatori! Un brindisi ai compagni partigiani!» gridò Giuseppe Secondo. E dopo aver brindato con questo e con quello, si accostò a Carlo:
«Forza, compagno!» lo incoraggiò, urtando il suo bicchiere, «oramai si tratta di pochi mesi. Fra poco, sfonderemo anche a nord. E al massimo a primavera, tu rivedrai casa tua!»
Vivaldi Carlo rispose con un sorrisetto incerto, che esprimeva una qualche gratitudine, senza voler troppo cedere alla speranza.
Riguardandolo, Giuseppe Secondo avvertì una esigenza immediata e comunicativa di trascinare anche lui, sùbito dentro la festa generale: «A proposito, compagno», gli disse allora, espansivamente, «volevo già domandartelo poco fa: ma perché, intanto, piuttosto che state a aspettare qua con questa rabbia che ti marcisce in corpo, non vai, e ti butti anche tu nella lotta armata, insieme coi compagni partigiani? tu che sei un ragazzo di fede, e gaiardo!»
Forse, Vivaldi Carlo s’era aspettato una domanda simile! Difatti, prima ancora che il vecchio la formulasse, i suoi tratti s’erano tesi in una volontà accanita e cosciente, che scacciava i vapori del vino. Aggrottò severamente i sopraccigli, e, con una amarezza imbronciata, dichiarò: «NON POSSO».
«Perché non puoi?» esclamò Nino, che frattanto era passato da questo lato della tavola.
Vivaldi Carlo arrossì, quasi stesse per confessare qualcosa d’illecito:
«Perché io», proferì, «non posso ammazzare nessuno».
«Non puoi ammazzà! che significa? nemmanco li tedeschi?! e che sarebbe? una specie de voto in chiesa?!»
L’interrogato alzò le spalle: «Mì», dichiarò con un sorrisetto quasi sprezzante, «sono ateo!» Poi puntò gli occhi in faccia a Nino, e, sillabando con forza a dispetto delle labbra impastate dal bere, spiegò, nello stesso tono di riscossa:
«La - mia - idea - RIFIUTA - la violenza. Tutto il male sta nella violenza!»
«Ma allora, che anarchico saresti?»
«La vera anarchia non può ammettere la violenza. L’idea anarchica è la negazione del potere. E il potere e la violenza sono tutt’uno…»
«E senza la violenza, come se pò fa’, lo Stato anarchico?»
«L’Anarchia nega lo Stato… E se il mezzo dev’essere la violenza, basta. Il prezzo non paga. In questo caso, l’Anarchia non si fa».
«Allora, a me, se nun se fa, nun me piace. A me, me piaciono le cose che se fanno».
«Dipende, da come s’intende l’AZIONE», contestò Vivaldi Carlo scontroso, a voce bassa. Poi, riaprendosi, con un ardore intento e persuasivo, dichiarò: «Se il prezzo è tradire l’idea, lo scopo è già fallito in partenza! L’idea… l’idea non è un passato, o un futuro… è presente nell’azione… E la violenza fisica la stronca alla radice… La violensa è peggio di tutto».
Questa difesa risoluta della sua idea parve averlo rinfrancato, ma al tempo stesso intimidito. Quasi vergognandosi del fervore naturale dei suoi occhi, li abbassò, così che non se ne vedeva altro che quei cigli troppo lunghi e folti, da richiamare al pensiero la sua fanciullezza ancora recente. «E dunque», lo perseguì tuttavia Ninnuzzu, «se domani tu rincontri quel tedesco che t’ha ficcato nel bunker, o quell’altro che t’ha buttato sul carro bestiame, che fai? li lasci vivi?!»
«Sì…» disse Vivaldi Carlo, mentre il suo labbro superiore si alzava in una smorfia che tornava a corrompergli i tratti, quasi un brivido di passaggio. E contemporaneamente, negli occhi di Nino riapparve quel nuovo fulgore cieco, da strumento fotografico, che aveva stupito Ida già al principio della serata.
«Anarchici nonviolenti», sentenziava intanto, perplesso, Giuseppe Secondo, «come idea, è contemplata… Però, la violenza, quanno ce vò, ce vò! Senza violenza, non si realizza la rivoluzione socialista».
«A me, me piace la rivoluzione!» esclamò Nino, «io, all’anarchia senza violenza, non ci credo! e sapete che vi dico? LO SAPETE? che i comunisti, e no gli anarchici, porteranno la vera anarchia!»
«La vera libertà è la bandiera rossa!» approvò Quattro con gli occhi contenti.
«Che nel comunismo, tutti saranno compagni!», seguitò Nino, a pieno impeto, «nun ce saranno più né ufficiali, né professori, né commendatori, né baroni né re né regine… e né führer, e né duci!»
«E il compagno Stalin?…» s’informò preoccupato Giuseppe Secondo.
«Lui, è differente!» decise Nino, risoluto, «di lui, non si parla!» E nella voce ebbe, di là dall’enfasi perentoria, una certa nota familiare e confidenziale, quasi andasse parlando di un vecchio parente, che lui, da piccolo, gli era stato sulle ginocchia, e aveva giocato coi suoi baffi.
«Lui, non si tocca!» rinforzò, e stavolta alla nota di prima ne accompagnò un’altra più fiera: da lasciare intendere eventualmente a tutti quanti che un simile privilegio esclusivo, a Stalin, oltre che per i noti meriti personali suoi propri, gli era dovuto pure, e in particolar modo, per la speciale protezione di Assodicuori.
In quel momento, spuntata di sotto la gamba di Vivaldi Carlo, Rossella, con una sortita intraprendente e repentina, saltò sullo stomaco di costui. E guardandolo faccia a faccia in una maniera complimentosa ma anche esigente, lo apostrofò direttamente con la frase: «Nian nian nian nian?!» che tradotta corrisponderebbe a: «Non ti sembra l’ora di andare a letto?!»
Questa minima azione gattesca fuorviò l’interesse di Nino dalla discussione in corso, trasportandolo mentalmente nel campo dei gatti in generale, i quali costituivano, secondo il suo concetto, una razza specialmente umoristica (però ovviamente meno importante di quella dei cani). Al passaggio di tale concetto, si videro dei riflessi futili e ridenti trastullarsi, di sfuggita, dentro i suoi occhi. Poi lì per lì ricordandosi della sua prossima levata all’alba, emise un enorme sbadiglio.
Fu il segnale della ritirata. Vivaldi Carlo si levò per primo, traballando un poco sui ginocchi. «Mama mia, m’è sceso tuto ale gambe, questo vin», brontolava, tenendo dietro a Rossella verso il loro angolo. Giuseppe Secondo stabilì di coricarsi, lui stesso, in terra su una coperta, per cedere agli ospiti il proprio materasso. E Nino accettò l’offerta in tutta semplicità e senza ringraziamenti, come un proprio diritto logico. Secondo un uso acquisito da guerriglieri, lui e Quattropunte, nello stendersi, fianco a fianco, sul materassetto a una piazza, rinunciarono a spogliarsi, solo togliendosi gli scarponi. Quindi deposero in terra, presso il capezzale, il cinturone con la pistola accanto alla lampada portatile. E all’iniziativa di Giuseppe Secondo il quale prudenzialmente caricò la sveglia per loro, asserirono che, al caso, potevano farne anche senza, poiché Quattropunte teneva una sveglia di precisione dentro il cervello.
Ma assai prima del suono della sveglia, forse intorno alle 4, un urgente scalpiccio di piedi scalzi, dopo una traversata fortunosa nella mezza tenebra, pervenne al capezzale di Nino. E una vocetta bassa di tono, ma intrepida e risoluta, prese a ripetergli accosto all’orecchio, quasi dentro al padiglione:
«Ahò! ahò! Ino! Ino!! ahò!»
Un primo effetto istantaneo, che ne conseguì per Nino, fu un certo rivolgimento nella trama del suo sogno. La scena si svolge al cinema, dove lui, che peraltro siede fra gli spettatori in platea, lo stesso è direttamente impegnato nell’azione dentro lo schermo, dove cavalca su una prateria del West, fra altri cavallari in corsa selvaggia. Attualmente il suo cavallo lo prega di grattargli l’orecchio destro, nel quale avverte un solletico. Senonché, sull’atto di grattare l’orecchio al cavallo, lui constata di non essere in groppa a un animale, ma issato a cavalcioni di uno Stuka in volo; e che quel solletico è situato nell’orecchio suo proprio, a motivo di una chiamata telefonica urgente dall’America…
«Passàtela al capomanipolo». Nino si rivolta su un fianco, e séguita a filare con lo Stuka all’altezza di ventimila piedi, nel tranquillo ronzio del motore.
Però intanto quel telefono americano insiste a sfruculiarlo con le sue chiamate, dandogli fra l’altro qualche tirata ai capelli, e allungandogli una zampina sul braccio…
A questo punto, Nino (attraverso un meccanismo nuovo e speciale dei suoi nervi, che gli faceva da segnale nelle sue notti di bandito) si scosse e levò il capo, pur senza svegliarsi del tutto; e istintivamente dette di piglio alla propria lanterna a pila. Nel tempo di un lampeggio, percepì il colore celeste di due occhietti che sbattevano incontro a lui, sorpresi dalla luce, ma pure complici e festanti come fosse la notte della Befana; e allora immediatamente, rassicurato, si ributtò giù a dormire.
«Chi è?!» gli borbottava accanto, in allarme, la voce addormentata di Quattro.
«Nessuno».
«Ino… Ino… so’ io!»
Prima di rimettersi a russare, Nino dette in risposta un brontolio d’intesa, che poteva corrispondere a un Vabbè ovvero Okay, come pure al loro contrario, o a niente del tutto. Nel suo dormiveglia transitorio s’era insinuata appena l’impressione buffa e curiosa di una presenza quasi impercettibile, della misura di uno gnomo, che lui riconosceva a una specie di divertimento, anche se la sua identità gli si confondeva. Forse un animale fantastico, più vispo e carino ancora degli altri animali, che notoriamente frequentava i suoi stessi paraggi, e in qualche modo apparteneva a lui. E lo faceva ridere, saltandogli incontro a salutarlo dai quattro punti cardinali dell’universo. E non se ne andava, e presentemente gli camminava sopra.
E invero suo fratello Useppe, dopo essere rimasto ancora un momento a rimuginare accanto al materasso, risolutamente ci era montato su, e ci si fece strada, intrufolandosi fra il ginocchio di Nino e la gamba di Quattropunte. Data la sua misura, non gli fu difficile accomodarsi in quella minima strettoia disponibile. Fece una risatina gloriosa, e s’addormentò.
E così, per il rimanente di quella grande notte, Useppe dormì nudo in mezzo ai due guerrieri armati.
* * *
Quando, alla loro pronta levata all’alba, essi scoprirono dentro il letto quell’ospite non invitato, ne furono esilarati e sorpresi, come da una trovata di film comico. Subito Quattropunte si fece premura di riconsegnarlo alla madre; e mentre Assodicuori, primo di turno, si assentava nel camerino sul pianerottolo, s’incaricò lui stesso di riportarlo a domicilio, reggendolo sulle braccia con riguardo estremo. Timidamente, poi, sull’atto di oltrepassare la tenda, domandò: «È permesso?» per rispetto della Signora; sebbene costei, riscossa dal suono della sveglia, già si affacciasse all’esterno, con una copertina sulle spalle, di contro al chiarore d’una candelina giusto accesa, che trapelava di fra i buchi dei sacchi.
«Scusate tanto, Signora, ecco il pupo», mormorò Quattro, senz’altre spiegazioni, adagiando il suo carico sul letto con la delicatezza di una balia. Però, nonostante questa delicatezza, Useppe già teneva gli occhi semiaperti e frastornati. E, al vedersi comparire il fratello ormai pronto per la partenza, li spalancò.
Quattro si allontanò a sua volta, per approfittare del proprio turno nel camerino. E Nino, il quale aveva antipatia per le candele, chiamandole luci da morto, frattanto soffiò sulla fiammella, mettendo in terra, al suo posto, la propria pila accesa. Poi chiese a Ida se poteva dargli qualche soldo, almeno per il tabacco, dato che si trovava senza una lira. E dopo che Ida ebbe racimolato per lui, nella sua solita borsa, qualche biglietto da dieci, quasi a riconoscerle, per doverosa ricompensa, un certo credito, s’indugiò un poco a conversare con lei.
L’oggetto della conversazione fu Vivaldi Carlo, che presentemente dormiva e che lui indicò senza nominarlo, accennando alla sua tenda col gomito. A voce bassa, palesò a sua madre che, secondo lui, dopo averci pensato, quello non era vero che fosse di Bologna: «Io d’accento bolognese me ne intendo. Ciavevo una ragazza bolognese che parlando faceva sempre sc… sc… sc… E lui mica fa sc…» Quello poteva essere, casomai, friulano… o milanese… infine, secondo il giudizio di Ninnuzzu, che lui fosse settentrionale sì, era vero. Ma, che fosse di Bologna, invece, era una balla. Così pure, che fosse anarchico, era la verità. Però, oltre all’anarchia, Nino intuiva qualche altra questione che colui aveva nascosto. Forse, anche il nome Carlo Vivaldi era un falso nome: «Io ci ho pensato, e lo sai che te dico, a’ mà… Che quello, secondo me, magari potrebbe pure èsse un…» Qui Nino parve addirittura sul punto di ammettere Ida a sua propria complice segreta. Ma, ripensandoci, dovette scegliere invece, a preferenza, una propria eventuale complicità col solo (preteso) Vivaldi Carlo. E lasciò il discorso inconcluso.
Ida era stata sul punto di sussurrargli da parte sua: «È anarchico, come tuo nonno…» ma la timidezza la trattenne. Fino dalla sera avanti, la notizia che Vivaldi Carlo era anarchico, e dunque dalla stessa parte di suo padre, aveva mosso immediatamente i suoi affetti. E a cena, poi, all’udirlo (sia pure mezza morta di sonno com’era) raccontare le proprie vicende, si era detta, sempre ricordando i dispiaceri di suo padre, che gli anarchici, evidentemente, incontravano poca simpatia nel mondo. Inoltre, la parlata settentrionale di lui, per qualche tratto, le richiamava sua madre Nora… E di conseguenza, la sua simpatia andava istintivamente a Vivaldi Carlo, più che a tutti gli altri occupanti dello stanzone, quasi che un legame di solidarietà e di parentela la unisse a quel moro scontroso. Ma, di fronte alla reticenza di Nino, non insisté per saperne di più sul suo conto.
Fuori albeggiava, ma lo stanzone, protetto dalle finestre schermate, stagnava nel buio della notte. E tutti all’intorno seguitavano a dormire, indisturbati dal segnale anticipato della sveglia, che non li riguardava. Solo dalla parte di Giuseppe Secondo si notava già, dal primo suono della sveglia, un certo movimento affaccendato. E vi si vedeva ballare la fiammella fantomatica di un qualche stoppino di emergenza (difatti in quell’ora mancava la corrente elettrica; e non meno delle candele, i comuni generi d’uso illuminante o combustibile si facevano ogni giorno più scarsi).
Era ricomparso Quattro, e Nino raccolse da terra la propria lanterna, mentre Ida si rilasciava seduta nel letto, risparmiandosi di riaccendere il suo avanzo di candela. A questo punto Useppe, vedendo il fratello avviarsi all’uscita, si portò d’urgenza sull’orlo del materasso, e prese a vestirsi precipitosamente.
In pochi attimi ebbe raggiunto la soglia esterna, da dove i due partenti già s’allontanavano. Era pronto, coi calzoncini, la camiciola, le cioce ai piedi, e perfino il mantello impermeabile su un braccio: quasi fosse inteso che partiva lui pure. Ancora per qualche attimo stette fermo a guardare verso i due, avviati, a una distanza di forse dieci metri dalla soglia, lungo il praticello stento di là dallo sterrato. Poi senza dir niente prese la rincorsa verso di loro.
Però dall’interno frattanto sopravveniva, in fretta e furia, Giuseppe Secondo, vestito al completo secondo il solito, con la giacca abbottonata e il cappello in testa: «Un momento!!» esclamò con agitazione, correndo verso i due, e bloccandoli a metà del viottolo, «ve ne andate senza pigliare il caffè?!»
«Vi stavo preparando il caffè, un VERO caffè!» si scusò, con l’aria di chi promette una delizia paradisiaca. E, in realtà, non era poco importante, in quei tempi, la proposta di un autentico Moka. Però i due, dopo essersi consultati con lo sguardo, risposero che non c’era più tempo. Un amico li aspettava, in una località designata, per tornare insieme alla base. Dovevano affrettarsi, spiegò Ninnuzzu, non senza rammarico.
«Allora non insisto. Però dovrei parlarti qua, subito, di una cosa riservata. Mi basta mezzo minuto: di tutta urgenza!» E Giuseppe Secondo febbrilmente trasse un po’ da parte Ninnuzzu, pur seguitando a rivolgersi, nel discorso, sia a lui che a Quattropunte: «Sentite compagni», disse, gesticolando all’uno e all’altro, «senza troppe chiacchiere, voglio comunicarvi questo: IL POSTO MIO È CON VOI! Me lo dicevo già da iersera, ma stanotte ho preso la decisione!! che ci sto a fare, io, qua? la decisione mia è de entrà drento ar core de la lotta! Io me offro da venì con voi, ne le file!!»
Sebbene a voce bassa e affrettata, aveva parlato con una certa solennità; e nello sguardo gli si leggeva quasi la certezza che i compagni plaudissero all’offerta. Ma Nino, senza fare commenti, gli dette un’occhiata che diceva chiaro: «E che partigiano vuoi fare, tu, scòrfano vecchiarello?» sogguardando, nel contempo, Quattro, con una specie di ammicchio mezzo divertito. Mentre Quattro (che, pure udendo, si teneva, per discrezione, un poco discosto) da parte sua non batteva ciglio, serio e compreso della gravità dell’argomento.
«Non guardate all’apparenza! io, a resistenza, sono un toro! Pure il braccio ormai sta a posto e funziona!» Qui Giuseppe Secondo, in una pronta manifestazione atletica si dette a ruotare il braccio destro, già infortunato dal bombardamento di luglio: «E di scienze militari me ne intendo», seguitò a raccomandarsi, di fronte allo scetticismo di Nino, «ho fatto la Prima Mondiale. Mica so’ stato sempre a fa’ le statue». Quindi s’affrettò a informare, con premura estrema: «Tengo pure da parte un capitaluccio liquido, e sarò onorato di mettere tutto il mio avere al servizio della Causa!»
Quest’ultima informazione dovette sembrare a Nino più persuasiva e attendibile. Considerò Giuseppe Secondo con un’aria di maggiore condiscendenza; e poi (dopo avere interrogato con gli occhi Quattropunte, per esser certo della sua approvazione) tagliando corto gli disse con vivacità:
«Sai per caso Remo, quello che tiene la trattoria in Via degli Equi?»
«Eh! È un Compagno!» lo accertò Giuseppe Secondo, palpitando per la contentezza.
«Beh, rivolgiti a lui, a nome nostro. Lui ti darà tutte le indicazioni».
«Grazie, compagno! Dunque, a presto! a prestissimo!!!» proruppe Giuseppe Secondo, raggiando di tripudio e d’impazienza. Poi, col gesto di chi agita, in via di arrivederci, una bandierina trionfale, concluse: «Per l’Idea, non basta de campà! È venuta l’ora di vivere!!»
Salutò col pugno chiuso. Quattropunte gli rispose con lo stesso saluto, e in viso un’espressione di profonda responsabilità. Ma Ninnuzzu, frettoloso e distratto, ormai voltava le spalle per andarsene. Allora si avvide di Useppe, che lo aveva raggiunto di corsa già da prima, e adesso, strascicando in terra l’impermeabile foderato di rosso, levava gli occhi verso di lui, nel modo degli uccelli quando bevono.
«A’ Usè», disse, «ciao!… Che me vòi dì?» soggiunse, a un’occhiata, «me lo dai, un bacetto?» E il bacetto fu dato; però Useppe, come vide il fratello allontanarsi, prese un’altra rincorsa dietro a lui.
L’alba era umida e scura: caddero le prime gocce di pioggia. Avvertendo i passetti di Useppe che lo inseguivano, Ninnarieddu si voltò:
«Rientra», gli disse, «che ricomincia a piòve…» E sostò un attimo alla distanza di due passi, a fargli con la mano il cenno dell’addio. Incerto, dopo essersi arrestato a sua volta, Useppe lasciò cadere in terra l’impermebile e così da avere la mano libera a restituire il saluto. Ma, pendendo giù dal braccio abbandonato, il suo piccolo pugno si schiuse e si rilasciò appena appena, contrariato e di malavoglia.
«Useppeece!» si udì chiamare dall’interno la voce di Ida.
«A’ Usè! Beh? che fai là? non t’accorgi che sta a piòve?» Qua, nel vederlo quasi paralizzato e ammutolito in mezzo al sentiero, Nino spensieratamente fece una piccola corsa indietro, per un ultimo bacetto.
«Che fai? Che? Vuoi venire assieme a noi?» domandò scherzando.
Useppe lo guardò, senza rispondere. Si riudì da dentro casa la voce di Ida. D’un tratto gli occhi di Ninnuzzu risero, alzati al cielo di piombo, come se rispecchiassero il sereno.
«A’ Usè», principiò, chinandosi sul fratello, «stamme a sentì. Oggi nun te posso portà assieme a noi: lo vedi, che brutto tempo fa?»…
…«Useppeeee!»…
…«Però dimme una cosa», seguitò Nino, guardandosi intorno e bisbigliando all’orecchio del fratello come per un complotto, «mamma va sempre fuori, no? la mattina presto?»
«Tì».
«E allora, ascolta. Ci credi tu alla parola mia d’onore?»
«Tì».
«Beh. Tu non dì niente a mamma e a nessun altro. E io te do la parola mia
d’onore che una di queste mattine, appena fa bel tempo, dopo che mamma è uscita ti vengo a prendere, con un mezzo de certi amichi mia, e ti portiamo con noi a vedere la Base partigiana. Poi, a tempo, prima che mamma sia tornata, ti riportiamo indietro qua».