2.
Giuseppe, come era stato precoce nella nascita, così fino da principio si rivelò precoce in tutto. Alle solite tappe naturali, che segnano l’avanzata di ogni lattante sull’itinerario delle esperienze, lui arrivava sempre in anticipo, ma talmente in anticipo (almeno per quei tempi di allora) che io stessa stenterei a crederci, se non avessi diviso, in qualche modo, il suo destino. Pareva che le sue piccole forze si tendessero tutte insieme, in un grande fervore urgente, verso lo spettacolo del mondo sul quale s’era appena affacciato.
Pochi giorni dopo avere scoperto la sua esistenza, Ninnuzzu non resisté alla tentazione di rivelarla a due o tre amici più cari, vantandosi con loro di avere a casa un fratello piccolo che era un record: tutto di una piccolezza tale da riuscire comica, però invece gli occhi grandissimi, che già ragionavano con la gente. E la mattina stessa, approfittando dell’assenza di Ida, portò quegli amici su in casa per farglielo conoscere. Salivano in cinque, comprendendo Blitz, il quale adesso seguiva Nino dappertutto, come fosse metà della sua anima.
Lungo la scala, uno degli amici, ragazzetto borghese, avanzò la sua perplessità per via di questo fratello che Nino annunciava, mentre si sapeva che sua madre da molti anni era vedova. Ma, con disdegno per la di lui mente scarsa, Nino gli replicò: «Beh?! che forse i figli si fanno solo coi mariti?!» in una tale naturalezza assolutistica, che tutti in coro risero di quel principiante (o maligno?) lasciandolo svergognato.
A ogni modo, ancora sulla scala, Nino abbassando la voce li avvisò che questo fratello era un clandestino, di cui non si doveva parlare a nessuno, altrimenti sua madre baccaiava: perché essa aveva paura che la gente la credesse una mignotta. Al che gli amici, come dei cospiratori, promisero il segreto.
Entrati appena nella stanza da letto, rimasero piuttosto delusi: poiché Giuseppe in quel momento dormiva, e, così addormentato, se si toglie la sua piccolezza autentica da pigmeo, non presentava niente di straordinario; anzi, aveva le palpebre, come i neonati in generale, ancora rugose. Ma d’improvviso le aprì; e al solo vedere, nella sua faccia piccola come un pugno, quegli occhi grandi e spalancati, che si rivolgevano ai cinque visitatori come a un’unica meraviglia, tutti si esilararono. Finché, rallegrato dalla compagnia, Giuseppe, per la prima volta nella sua vita, fece un sorrisetto.
Di lì a poco, i visitatori se ne scapparono, nel timore di venir sorpresi dalla madre. Ma Nino aspettò impaziente il suo ritorno, apposta per annunciarle strepitosamente la novità: «Lo sai? Giuseppe ha fatto un sorriso!» Lei rimaneva scettica: Giuseppe, disse, non ha ancora l’anzianità per sorridere: le creature non imparano a sorridere prima di un mese e mezzo, quaranta giorni, almeno.
«Vieni con me, e vedi!» insisté Nino, e la trascinò nella stanza da letto, meditando qualche trovata elettrizzante che inducesse il fratello a replicare la sua bravura. Ma non ne ebbe bisogno, perché Giuseppe, solo a vederlo, come a un appuntamento, sorrise per la seconda volta. E da allora appena vedeva Nino, anche se fino a un momento prima piangeva, sùbito gli rifaceva quel sorrisetto fraterno, che poi non tardò a trasmutarsi in una vera risata di accoglienza e di soddisfazione.
Oramai, le scuole si erano riaperte da un pezzo, e fino dalla mattina presto la casa rimaneva deserta. Lo stesso Blitz, difatti, follemente innamorato, com’era, di Nino, non si contentava di andare sempre dietro a lui, e alle sue carovane, dovunque andasse; ma perfino lo aspettava fuori dei cancelli, mentre lui era a scuola o agli esercizi premilitari. Tanto che Nino lo fornì anche di una museruola, nel timore che l’acchiappacani, trovandosi a passare di là, lo arrestasse come un cane di nessuno. E gli fece incidere sul collare: BLITZ - Proprietario Nino Mancuso, con l’indirizzo completo.
A volte, le mattine (piuttosto frequenti) che marinava la scuola, Nino, trovandosi a passare vicino a casa, (anche per il gusto di infrangere i divieti materni) capitava di nuovo, con qualche compagno, su da Giuseppe. Erano visite rapide, giacché quei ragazzi, e Nino in ispecie, avevano troppa fretta di correre verso le diverse attrazioni della loro vacanza abusiva; ma erano sempre delle feste, rese quanto mai affascinanti dall’infrazione e dal mistero. La stagione era ancora mite, e Giuseppe, nel suo lettuccio, stava tutto nudo; però la vergogna non esisteva per lui. L’unico suo sentimento era la brama di esprimere ai visitatori la propria contentezza di riceverli: la quale era infinita, come se ogni volta, per lui, si rinnovasse l’illusione che quella brevissima festa durasse eterna. E nella pretesa, quasi matta, di esprimere coi suoi mezzi miserrimi quella contentezza infinita, Giuseppe moltiplicava tutti in una volta i suoi timidi scalpitii, i suoi sguardi incantati, i suoi vagiti, sorrisi e risatine; ricambiato da una giostra indiavolata di saluti, spiritosaggini, e qualche complimento o bacetto. In queste occasioni, Nino non mancava di sbandierare, con onore e vanto, le diverse specialità di suo fratello: facendo notare per esempio che, sebbene piccolo, era già un vero maschio, col suo uccelletto perfetto al completo. E che non piangeva quasi mai, però già faceva delle voci speciali, diverse una dall’altra, e capite benissimo da Blitz. E che sulle mani e sui piedi aveva tutte e venti le unghie, per quanto impercettibili, regolari, che la madre già gliele tagliava, eccetera eccetera.
Quand’ecco, improvvisi com’erano arrivati, i visitatori si affrettavano via tutti insieme, inutilmente invocati dal pianto eccezionale di Giuseppe, che li seguiva fin sulle scale e si spegneva solitario e inconsolato.
I primi tempi Ida, appena finita la lezione, doveva correre trafelata a casa per allattarlo, sempre in ritardo. Ma presto imparò ad arrangiarsi da solo, con un poppatoio pieno di latte artificiale, che essa gli lasciava durante le sue assenze più lunghe. E lui, fedele alla propria intenzione di non morire, ne succhiava quanto poteva. Non cresceva molto; però s’era abbastanza arrotondato, al punto da fare qualche anelluccio di grasso sulle braccia e sulle cosce. E nonostante la sua segregazione, aveva preso un colorito rosa che illuminava meglio i suoi occhi. Questi, nell’interno dell’iride, erano di un turchino più fondo, come di notte stellata; e tutto all’intorno invece, erano di un colore d’aria celeste chiaro. Il suo sguardo sempre intento e parlante, come in un dialogo universale, era un divertimento a vederlo. La sua bocca sdentata, dai labbri sporgenti, cercava i bacetti con la stessa domanda ansiosa con cui cercava il latte. E la sua testa era nera, però non riccia come quella di Nino; ma a ciuffetti lisci, umidi e lustri, come quelli di certe anatre migratrici note col nome di morette. Fra i suoi tanti ciuffetti, poi, già fino da allora, ce n’era uno più spavaldo, proprio in centro alla testa, che gli stava sempre ritto, come un punto esclamativo, né si lasciava pettinare in giù.
Prestissimo imparò i nomi della famiglia: Ida era mà; Nino era ino oppure aiè (Ninnarieddu) e Blitz era i.
Per Blitz, intanto, era incominciato un dilemma quasi tragico. Siccome col passar del tempo Giuseppe e lui si capivano sempre meglio, dialogando e giocando insieme sul pavimento con immenso spasso, gli accadde di trovarsi innamorato cotto anche di Giuseppe, oltre che di Nino. Ma Nino stava sempre in giro, e Giuseppe sempre a casa: per cui gli era impossibile vivere perennemente in compagnia di entrambi i suoi amori, come avrebbe voluto. E in conseguenza, sia con l’uno che con l’altro, era di continuo straziato da un rimpianto: e se si trovava con l’uno, gli bastava la citazione dell’altro nome, o un odore che gli ricordasse l’altro, che sùbito la sua nostalgia, come una bandierina controvento, si protendeva indietro. A volte, mentre faceva la sentinella fuori della scuola nelle sue lunghissime attese di Nino, d’improvviso, come a un messaggio portàtogli da una nuvola, incominciava a fiutare verso il cielo, con un guaito lamentoso, nel ricordo dell’incarcerato Giuseppe. Per qualche minuto, un dissidio lo dilaniava, tirandolo contemporaneamente da due parti contrarie; ma infine, superata l’incertezza, scattava verso la casa di San Lorenzo, con la sua lunga museruola che fendeva il vento come una prua. Ma alla mèta, purtroppo, trovava l’uscio sbarrato; e per quanto, con le sue voci mortificate dalla museruola, chiamasse appassionatamente Giuseppe, tutto era inutile: poiché Giuseppe, pure udendolo e spasimando dalla sua stanza solinga per la volontà di farlo entrare, non ne aveva la capacità. Allora, rassegnandosi al suo destino di aspettare fuori delle porte, Blitz si stendeva là fuori, in terra: dove, a volte, per la troppa pazienza, si appisolava. E forse aveva un sogno d’amore, che gli portava una reminiscenza di Nino: è un fatto che, di lì a poco, si scuoteva dal sonno; e rimbalzando giù per le scale con guaiti disperati, rifaceva la strada di prima verso la scuola.
Nino non era geloso di quel doppio amore: non considerandolo un tradimento, ma piuttosto una lusinga, per via che il valore da lui dato quasi alla pari e a Giuseppe e a Blitz, era asserito anche da loro due con entusiasmo autentico. Grandiosamente, anzi, lui stesso (se per esempio doveva andare al cinema o a un’adunata, o dovunque il cane in qualche modo gli fosse d’impiccio) certi giorni incitava Blitz a restare in casa con Giuseppe per tenergli compagnia.
Quelle erano fortune indimenticabili, per Giuseppe: e forse fu in quei suoi duetti primitivi con Blitz, che imparò il linguaggio dei cani. Il quale, insieme con altri idiomi di animali, doveva restargli un acquisto valido finché fu vivo. Però, tolte queste fortune eventuali, Giuseppe non aveva mai nessuna compagnia. Dopo i primi tempi, passata la novità, Nino diradò le visite coi suoi amici e complici, fino a smetterle definitivamente. E altra gente in casa non ne veniva.
Ida non aveva né parenti né amici, non aveva mai ricevuto visite; né tanto meno ne riceveva adesso, che doveva nascondere lo scandalo.
Quelli che incontrava nel vicinato e nel quartiere, per lei erano tutti degli estranei; e fra costoro, come fra gli altri suoi conoscenti di Roma, nessuno ancora pareva avesse scoperto il suo segreto. A sua insaputa, invero, per l’intemperanza di Nino, dentro il caseggiato stesso c’erano almeno un paio di ragazzetti che ne erano a conoscenza; ma costoro, fedeli alla promessa fatta a lui, lo avevano taciuto anche in famiglia (tanto più volentieri perché così, non condivisa dagli adulti, la custodia di un tale mistero dava un gusto doppio).
È certo, poi, che nell’intera cerchia degli amici di Nino, la notizia del segreto, com’era fatale, s’andava spargendo anche troppo; ma tardava, per il momento, a oltrepassare quella cerchia o banda. Bisogna dire che in realtà la gente, col progredire della guerra, aveva pure altro da pensare e s’era fatta meno curiosa. E d’altra parte a Roma, e nel quartiere di San Lorenzo, la nascita di un povero piccolo bastardo (per quanto figlio di una maestra) nemmeno a quei tempi antichi non sarebbe poi stata una notizia così strepitosa da affiggerla sui manifesti; o da propagarla coi tamburi!
In conclusione, Giuseppe seguitava a crescere (per modo di dire) sempre uguale a un bandito il cui nascondiglio era noto soltanto a svariati ragazzetti d’ogni risma e di quartieri diversi, in una rete di complicità che stendeva le sue maglie attraverso la città di Roma, in lungo e in largo. Forse, anche fra i cani di Roma il segreto incominciava a diffondersi, giacché Blitz, durante le sue attese di Nino, spesso s’intratteneva con cani di passaggio e randagi; e una volta, in una di quelle sue corse nostalgiche alla casa di San Lorenzo, vi giunse in compagnia d’un altro cane, bastardo come lui ma molto più secco e d’aspetto ascetico, il quale somigliava al Mahatma Gandhi. Tuttavia, come al solito, anche quella volta nessuno poté aprire l’uscio, e i due se ne tornarono indietro insieme, però verso direzioni diverse: perdendosi poi di vista, dopo quell’unico incontro, per sempre.