Epilogo
Inghilterra, tre mesi dopo
Ho vissuto senza mia madre per tre anni. Quando parliamo degli anni perduti, con espressioni coraggiose ci diciamo che perlomeno ci hanno rese più forti.
Mamma ci controlla in continuazione, non si permette un attimo di negligenza. Nel medaglione che porta al collo ha una fotografia mia e una di Fleur. Non se lo toglie mai, tranne che per fare il bagno. Quando guardo la mia fotografia, vedo una bambina con un volto attento, un sorriso sghembo e una macchia sulla punta del naso. Difficile ricordare com’ero allora, ma a volte ho l’impressione di poter vedere la me stessa del passato, di poterla far rivivere. E lì ci siamo noi, la mamma, Fleur e io, ed è ancora il 1955 e niente di tutto questo è mai successo.
Quando eravamo entrati in casa, quel primo giorno che la mamma era tornata, l’avevo vista arrabbiata come non mai. Davanti a tutti noi, aveva minacciato papà di denunciarlo alla polizia. Per i crimini di frode e rapimento, aveva detto. Fleur era scoppiata a piangere e Veronica, pallidissima, era riuscita a calmarla. Papà aveva detto che non aveva prove, ma la mamma si era rifiutata di lasciarci passare la notte con lui. Secondo me lui stava bluffando sulla faccenda delle prove perché, in cambio del fatto che la mamma non andasse alla polizia, le ha permesso di portarci in un albergo con lei. Fleur ha avuto bisogno di un po’ di persuasione, soprattutto da parte di Veronica, ma io e il bambino eravamo entusiasti. Adesso la mamma ha la custodia permanente mia e di Fleur, e Maz ha scelto di vivere con noi. La verità è che la mamma non voleva un’indagine di polizia. «Ne abbiamo passate abbastanza», mi ha detto dopo, «e per Fleur sarebbe terribile se suo padre andasse in prigione».
Non lasciamo che Fleur o Maz percepiscano la rabbia che entrambe ancora proviamo quando vanno a trascorrere qualche fine settimana con papà. Io non posso perdonare papà per quel che ha fatto, e non ci riesce nemmeno la mamma. Quando riporta Fleur e Maz, la mamma lo tratta con educata freddezza. Ho la sensazione che lui voglia parlare, ma lei non vuole. La cosa più triste è che Veronica se ne è andata il giorno in cui siamo tornati tutti insieme. Sono passati tre mesi e nessuno l’ha più vista. Forse Maz è stato la goccia finale. In ogni caso, papà è solo, e forse questa è una punizione sufficiente.
Dopo aver incontrato la nonna per la prima volta, la mamma è tornata in albergo con gli occhi cerchiati di rosso ma anche con un sorriso enorme e le chiavi di Kingsland Hall in mano.
La guardo preparare il fuoco nell’ampio salotto della nonna. Attorciglia i giornali, aggiunge le pigne e la legna minuta. È sempre bellissima, in un certo senso anche più di prima, ma meno luccicante, e i capelli, racchiusi in un grosso fermaglio di tartaruga, non sfuggono più. È già maggio, ma la mamma ha freddo.
Si alza da dove era inginocchiata accanto al fuoco, le guance rosse, e ci vede che la aspettiamo.
«Mamma, questo è Billy. L’hai visto da papà».
«Mi ricordo. Ciao Billy. Eviterei di stringerti la mano», dice sfregandosi le mani sporche su uno straccio.
«Il gruppo di Billy suona al Mecca Ballroom, a Birmingham. Sabato».
«Ah sì?»
«Siamo soltanto il gruppo di apertura, ma è una grande occasione», spiega Billy.
«Ne sono certa».
«Comunque, mamma, ecco, Billy mi ha chiesto di andare con lui».
«Non in motocicletta, Mrs Cartwright. Verrebbe con me sul furgoncino».
«Oh, non credo proprio. È decisamente troppo giovane», replica la mamma iniziando a dirigersi verso la cucina, dove Fleur sta cucinando una torta.
«Mamma!».
«Emma?».
Ci fissiamo, immobili. Non è la prima volta che se ne dimentica. Faccio una smorfia. «Mamma, ho quindici anni».
Lei mi guarda con occhi inespressivi, come cercando di ricordare qualcosa, quindi annuisce e gli occhi le diventano lucidi. «Già, è vero».
«Allora posso andare?»
«Be’, anche quindici anni sono pochi».
«Il furgoncino lo guida mio papà», aggiunge Billy.
«D’accordo, andate. Purché non faccia troppo tardi».
Io e Billy ci sorridiamo e la mamma va ad aiutare Fleur. Sono così eccitata che saltello su e giù come una bambina di dieci anni.
«Mi pareva avessi detto di avere quindici anni», mi prende in giro Billy scimmiottando il mio tono e guardandomi dritta negli occhi.
Gli do un pugno.
Niente riesce a smorzare questi giorni di speranza. È bellissimo essere giovane, in procinto di andare al Mecca Ballroom con Billy e riavere con me la mamma. Quel filo invisibile, quello con un capo legato al cuore della mamma e l’altro al mio, non si è mai spezzato. Ho sempre saputo che non l’avrebbe fatto. E, più di qualunque altra cosa, più del ritrovamento della nonna, più che vivere a Kingsland Hall, è questo ciò che conta.
Sdraiata a gambe e braccia divaricate sul pavimento, torno a quando avevo undici anni. Chiudo gli occhi e sono di nuovo stesa sulla pancia a contare i buchi nel pavimento di legno della nostra camera da letto di Malacca. La Malesia è molto lontana, nel tempo e nello spazio, ma ricorderò per sempre le nuvole che sembravano sbuffi di sorbetto al limone e le scie di profumo che si avvolgevano intorno agli alberi in fondo al giardino.
Non importa dove mi porterà la vita, e nemmeno se un giorno non sentirò più i suoni, la Malesia sarà sempre lì, a pulsare in fondo alla mia anima. È il luogo in cui sono stata bambina, prima di sapere che la vita potesse andare così terribilmente male. Ed è dove la fragranza della citronella rimarrà con me per sempre, quella e il suono di mia mamma che canta la mattina, un fiore di uccello del paradiso nei capelli biondo rame.