15
Mi stesi sul letto e cercai di leggere, sperando che Mr Oliver stesse facendo un pisolino e non si muovesse finché gli altri non fossero tornati. Avevo già letto Heidi e Black Beauty. Ora toccava a L’isola del tesoro, uno dei pochi libri della casa. Ero rimasta scioccata quando la nonna mi aveva raccontato che avevano donato gli altri a una raccolta di libri durante la guerra. La carta serviva per le tessere annonarie. Papà promise che al loro posto ci saremmo abbonate a dei fumetti. Io chiesi «Eagle» ma lui disse che era per i maschi, e così sullo zerbino atterrò «Girls».
Che noia!
Però qualcosa di davvero eccitante era successo. Venerdì sul tavolo dell’ingresso c’era una lettera per papà con il timbro postale della Malesia. “La mamma dev’essere arrivata a casa e deve aver letto la mia lettera”, avevo pensato, augurandomi che avesse scritto anche a me. Lui era fuori in quel momento, ma io avevo continuato a tornare alla lettera per tutto il giorno, a raccoglierla, a portarmela alle labbra, sicura che fosse di mamma che ci diceva quando sarebbe arrivata. Era scritta a macchina, quindi non potevo dedurlo dalla calligrafia, ma chi altri avrebbe dovuto scrivere a papà? Volevo scoprirlo, ma ora che ero di nuovo nei guai non era il momento di chiederglielo.
Nella scialba luce estiva dell’Inghilterra, morivo dalla voglia di giocare sotto il caldo sole malese finché non si tuffava nel mare la sera. La mamma mi era mancata terribilmente e, mentre pensavo a tutti i posti in cui saremmo andate, ero eccitatissima. Il fienile, il piccolo viottolo dietro la chiesa dove vivevano tutti quei gatti, la passeggiata intorno al paese.
Cercai di non pensare a Mr Oliver e passai secoli a contare le rose sbiadite sul tappeto e il numero di ghirigori sulla carta da parati. Pezzi avanzati di entrambi erano andati a decorare la casa delle bambole che stavamo preparando per Fleur. La nonna aveva persino confezionato qualche fiore finto e un piccolo alberello da incollare sul fianco della casa.
Guardai il campo di fronte, ora punteggiato di mucche nere e bianche, e la solita lunga fila di alberi neri proprio in fondo. Pensai di fare una corsa fin lì mentre il sole illuminava il giardino e i tetti del paese diventavano d’argento. Avrei potuto buttare un occhio da là e stare nascosta finché non avessi visto tornare l’auto.
Ma, nonostante fosse estate, il sole scomparve e la giornata divenne di colpo grigia e offuscata. Morivo di fame. In pratica non avevo pranzato e avrei dato qualunque cosa per un panino con la marmellata. Per il tè c’erano le girandole e i dolcetti di panna montata e noci e la nonna aveva fatto un dolce di frutta secca, ma non osavo scendere le scale nemmeno in punta di piedi. Se Mr Oliver era addormentato, non volevo rischiare di svegliarlo. Sbirciai di nuovo fuori dalla finestra, in caso fossi riuscita a intravedere l’auto di ritorno prima del previsto, ma vidi solo il furgoncino del fish’n’chips del Worcestershire, sul cui fianco era stampato “Pasti in pista”.
Tirando fuori il quaderno, mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento e mi concentrai sulla mia ultima storia. Parlava di una morte in Spagna ed era ambientata in un monastero del XVII secolo. Non vedevo l’ora di mostrarla a mamma. L’abate era morto in una bellissima cripta, dopo aver preso del veleno. Tutti avrebbero saputo cosa aveva fatto, perché aveva lasciato un biglietto in cui diceva che si sarebbe tolto la vita in quanto non poteva più convivere con se stesso. Anche se ancora non avevo deciso la causa, doveva essere qualcosa di drammatico. Il suicidio era un peccato terribile e il giovane monaco che trovava il biglietto decideva di distruggerlo per proteggere il suo superiore.
Stavo cercando di capire come potesse sbarazzarsene ma l’odore di pesce e patatine dal furgoncino mi distraeva. Mi alzai e andai di nuovo a guardare e vidi l’uomo del pesce nel suo completo da cuoco con un alto cappello bianco. Mi venne l’acquolina in bocca. Fu solo per caso che lo sguardo mi guizzò all’interno della camera e vidi Mr Oliver che ostruiva la porta. Non l’avevo sentito salire le scale, ma, trattenendo il respiro, corsi al mio letto, schiacciai il sedere contro la parete, quindi mi strinsi un cuscino sul grembo. Lui si avvicinò, il volto liscio e bianco. Lo stomaco mi si rivoltò e sentii il bisogno di fare pipì.
«Ciao», disse, e chiuse la porta.
Dissi a me stessa di scappare finché ne avevo la possibilità, ma il mio corpo non obbediva. Non so perché, ma non riuscivo a muovermi.
Lui inarcò il sopracciglio sinistro e mi rivolse un’occhiata strana. Quando si sedette sul mio letto, gli vidi la forfora sul bavero. Mi prese il mento in una mano, lo strinse e riuscì a tirare la mia faccia leggermente più verso di sé.
«Per favore, se ne vada», gli dissi.
«Ma non vedevo l’ora di stare con te», disse lui prendendo ad accarezzarmi la fronte. «Ti piaceva questo, non è vero?».
Io mi contorsi per scostarmi.
«Su, via, non c’è nulla di cui essere spaventate, giusto?». Socchiudendo gli occhi, mi mollò il mento.
Per un attimo, pensai che stesse per andarsene. Ma poi mi afferrò per le braccia. «Sarà più semplice, tesoro, se stai brava e ferma».
Mi spinse giù per le spalle.
Volevo urlare, ma tutto quello che uscì fu uno squittio. Lottai, cercai di rotolare via sul lato del letto, ma lui mi tenne saldamente e con una mano scagliò via il cuscino. Con l’altra, mi teneva stretta.
«Mi lasci andare. La prego. Prometto di non dirlo», lo implorai.
«Non essere sciocca, cara. Certo che non lo dirai».
Mi alzò un po’ la gonna e mise la mano appena sopra il ginocchio sinistro, all’interno della mia coscia. Ero talmente spaventata che pensai che avrei bagnato il letto. La stessa paura che avevo avuto prima, ma peggio, molto peggio. Cercai di nuovo di respingerlo.
E, nonostante le lacrime che mi riempirono gli occhi, lui scosse il capo e sorrise.
Volevo mia madre. Riuscivo a vederla con tanta chiarezza che faceva male. “Mamma. Mamma. Mamma. Dove sei?”. Il battito mi rimbombava nelle orecchie. Nella mia mente, uscivo dalla porta e correvo da lei. Sapevo di gente che lasciava il proprio corpo e sapevo che se ci si concentrava abbastanza intensamente si poteva fare. Ci provai, ma non funzionò.
Guardai la carta da parati e iniziai a contare i fiori che c’erano lì, ma tutto ciò a cui riuscivo a pensare era la mamma. Mentre le dita di Mr Oliver mi frugavano la pelle, la testa mi si colmò di un rombo e il petto prese a farmi così male che non riuscivo a respirare. Era difficile, ma se aspettavo quando iniziava a divertirsi e allentava la presa… Magari allora. Mentre un alito di vento fischiava sotto la porta, un’idea si fece strada. Era l’unico modo. In quel momento non mi importava della punizione. Nel mio comodino, ecco dov’erano. Ci stavamo giocando il giorno prima, io e Fleur. Mi spostai verso il bordo del letto.
«Allora hai deciso che ti piace, dopo tutto», disse Mr Oliver scambiando il mio movimento verso lui per sottomissione, le sue dita che passavano appena dentro l’elastico delle mie mutandine.
Un’ondata di nausea mi salì in gola, ma mi costrinsi ad aspettare.
Aveva chiuso gli occhi e iniziò a respirare ansimando. Tolse la mano che mi tratteneva giù, la sinistra, e si asciugò la fronte con il dorso. “Ora”, pensai. “Fallo adesso”. Feci scivolare un braccio all’esterno con estrema attenzione, così da non metterlo in allarme, quindi aprii di colpo il cassetto. Afferrai la freccetta e gliela conficcai nel collo con tutta la forza che avevo.
La sua mano si immobilizzò sul bordo delle mie mutandine, senza più muoversi, ma gli occhi gli si sgranarono e divenne scarlatto. Per un attimo pensai che gli occhi gli sarebbero schizzati fuori dalle orbite.
Poi la testa gli ricadde di lato. Togliendo la mano da me, se la portò al collo. La freccetta era bloccata. Sollevò le dita insanguinate per guardarle, gonfiò le guance e cominciò a tossire e farfugliare. Sputava le parole a denti stretti: «Tu… piccola… puttana».
Quindi prese a menar colpi alla cieca.
Non ero spaventata dal sangue e schivai la botta. Lui mi indirizzò un altro fendente. Mi tuffai fuori dal letto, mi precipitai giù per le scale e corsi.
Corsi oltre i capannoni abbandonati della fattoria dove i ragazzi giocavano alla guerra e alle navi dei pirati: troppo spaventoso quando faceva buio. Oltre i boschi dove Robin Hood complottava con Lady Marian: troppo inquietante. Continuai a correre e, quando una fitta mi piegò in due, mi tenni il fianco, il respiro che mi usciva in rantoli. Quando raggiunsi il fienile, la luce era quasi sparita.
Mi arrampicai sulla scala e sedetti sulle tavole di legno, abbassando la testa tra le ginocchia. Passata la nausea, mi nascosi sotto il fieno, rimboccandomelo tutto intorno per tenere fuori il mondo. Non mi importava nemmeno dei ratti. Immaginai quello che stava succedendo a casa. Lo shock di Veronica. Il sangue. La rabbia di papà. Mr Oliver avrebbe mentito, avrebbe detto di non aver fatto niente, avrebbe detto che l’avevo attaccato senza alcun motivo. E, se io avessi raccontato la verità, avrebbero creduto a lui, non a me. Ero io quella con il carattere collerico. E se era morto? Cosa sarebbe successo se l’avevo ucciso? Tremai al solo pensiero.
“Domattina verrà Billy”, pensai, “mi aiuterà a scappare. Prima a nascondermi e poi a scappare. Andrò a Liverpool, mi imbarcherò come clandestina, troverò la mamma”. Ero orgogliosa di non essere svenuta alla vista del sangue, come invece avrebbe fatto mamma.
“Oh, mamma”.
Quando la solitudine arrivò a inondarmi, mi sentii come se fossi caduta in un burrone profondo da cui non sarei mai riuscita a venir fuori e piansi per la mamma come non avevo mai fatto prima.