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Mi svegliai in una giungla gelata, i vetri delle finestre coperti da giganteschi fiori di loto bianchi fatti di ghiaccio. Il freddo filtrava intorno al telaio e da sotto la porta. Battei i denti e il fiato mi uscì in nuvolette. Che la finestra fosse chiusa o meno non faceva differenza, quindi la aprii. Sentendo i colombi tubare nel giardino dei vicini, allungai il collo per riuscire a vederli sul bordo della piccionaia.
Dirimpetto, un campo rigato da dorsali marroni portava fino alla chiesa, che aveva una fila di alberi neri alle spalle. Si vedeva la guglia spuntare sopra gli altri edifici. Chiamai Fleur perché venisse a vedere, ma era già andata a cercare papà.
A pianterreno, nonno Cartwright ci diede delle pacche sulla schiena e la nonna si asciugò le lacrime. La nonna era piccola e rotondetta. Annuiva e sorrideva un sacco, gli occhi blu scuro dalle pupille piccole come uva passa e circondati dalle rughe, e indossava un affare complicato sopra alla camicetta e alla gonna. Le girava sopra le spalle e intorno ai fianchi e terminava con dei lacci. Lo chiamava “grembiule” e la faceva sembrare come gonfia. Portava le ciabatte e aveva dei bei capelli grigi, con le forcine che sparavano ad angoli strani. Per niente elegante come mamma.
Anche il nonno era anziano, con una zazzera di capelli bianchi. Mentre si muoveva faceva un sibilo che sembrava doloroso e aveva peli neri che gli spuntavano dalle narici e grosse macchie marroni sulle mani.
Ci fecero fare il giro della casa. Aveva una carta da parati marrone a fiori, tappeti di un colore disgustoso e così tanti mobili che non c’era spazio per giocare. La cucina era il regno della nonna, l’unica stanza allegra, e lei era raggiante mentre ci indicava i disegni a colori vivaci di galline e maiali sulla carta da parati. La nonna era orgogliosa della casa, nonostante non ci fosse molto da vedere. Era solo una sgraziata bifamiliare, in una stradina di campagna a Bewdley, Worcestershire. Quello che aveva era un enorme giardino, che la circondava sui tre lati su cui non era unita all’altra abitazione. Sul retro, una rete metallica di recinzione separava il giardino dal campo.
Nell’unica stanza con un camino acceso, chiesi alla nonna dove fossero i quartieri della servitù. Lei batté insieme le mani, si asciugò gli occhi con il grembiule e diede una ditata sul petto del nonno.
«Bontà divina, paperelle, qui l’unica serva che troverete sono io. Non è così, Eric?». Eric era il nonno, che annuì e sedette in poltrona a fumare la pipa.
Fleur mi diede una gomitata e, parlando dietro la mano, mi sussurrò: «Noi non siamo papere, vero, Em? Perché ci chiama così?».
Io la zittii e i miei occhi si appuntarono su una scatola di caramelle dure sulla mensola. La nonna mi vide guardare e ce ne diede alcune, e continuò a darcene altre, scordando quante ne avevamo già mangiate.
«Vi fanno un mondo di bene», disse.
«Cosa stai facendo, mamma?», chiese papà.
«Bah!», replicò lei dolcemente.
«Troppo zucchero rovina loro l’appetito». Papà si allentò la cravatta. «E qui dentro fa troppo caldo. Lo sai che a Fleur il fumo di carbone fa male. Ha bisogno d’aria pulita. Guarda, sta già tossendo».
Fleur fece un doveroso colpo di tosse.
«Non è necessario arieggiare», protestò il nonno.
Papà gli si rivoltò contro. «Tu non hai diritto di parola».
«Su, su», disse la nonna. «Non vorrai rivangare di nuovo tutto. Meno si parla, meglio è».
Il nonno distolse lo sguardo, ma io notai che papà aveva le labbra tirate, e poi si allontanò a grandi passi.
Una volta che se ne fu andato, noi sedemmo sul gradino davanti a casa giocando con un vecchio gioco delle pulci di papà e mangiando sigarette dolci. Intanto tenevamo d’occhio la strada. Io finsi di fumare sigarette vere finché non ne ebbi abbastanza e dovetti masticare. Guardammo un ragazzino che risaliva la strada in bicicletta. La bici era troppo alta per lui e così doveva stare in piedi sui pedali per montarla. Traballava parecchio a causa delle grosse ceste che aveva attaccate su entrambi i lati, e mentre si fermava a ogni casa lo seguiva un delizioso profumo di prodotti da forno. Quando frenò davanti alla nostra, Fleur chiamò la nonna.
Io lo fissai intensamente, desiderando tantissimo assomigliargli. Era pelle e ossa, aveva un berretto in testa e denti troppo grandi per la sua bocca, ma aveva anche occhi castani sorridenti e un naso punteggiato di lentiggini. Quando sorrideva ti dimenticavi dei denti, perché ci stavano bene.
Il giorno successivo iniziammo la scuola. Non lo chiesi di nuovo a papà, ma desideravo che la mamma fosse lì con noi e non vedevo l’ora che arrivasse. Mi domandavo se fosse tornata nella nostra casa di Malacca e se avesse già trovato la mia lettera. Era sempre stata la mamma quella che faceva andare tutto per il verso giusto. Nella casa dei nonni, lei sarebbe stata il sorriso che ci salutava nell’ingresso. E a scuola la immaginai che ci aspettava di fuori e ci salutava con la mano mentre noi mangiavamo focaccine glassate ed eravamo costrette a mandare giù latte gelido da bottigliette in miniatura.
Durante la ricreazione girarono delle voci quando qualcuno della mia classe mi sentì dire a mia sorella che le focaccine glassate erano stantie. Il figlio del fornaio si voltò con un viso furibondo, e senza berretto. Notai che i suoi capelli erano tagliati male, con dei ciuffi dimenticati in cima alla testa.
«Sono buonissime, sono. Altro che stantie», affermò.
«Eccome se lo sono! In Malesia ne abbiamo di migliori. Dolci nyonya e gustosissimi kueh cinesi». Pensai alle dolci tortine di riso e mi venne l’acquolina in bocca.
«E dove starebbe la Malesia? In culo alla luna?».
Mani sui fianchi, restai salda anche se dentro stavo tremando. «È nell’Est, se proprio vuoi saperlo. E non abbiamo neanche dell’orrendo latte ghiacciato. Beviamo succo di canna da zucchero appena spremuto, o latte di cocco».
«Perché non ci torni, allora? Non ti vogliamo qui. Una montata, ecco cosa sei. Non sei nemmeno inglese. Sei un’immigrata».
Un gruppetto di bambini gli si radunò intorno e iniziò a cantilenare: «Immigrata, immigrata, torna da dove sei venuta».
Fleur scoppiò a piangere, ma io afferrai una manciata di ciuffi del ragazzo e tirai mentre gli urlavo in faccia: «Sono un’inglese della malora quanto te, ciuffo del cavolo!».
Finimmo a terra, a darci calci e strattonarci a vicenda. Gli altri bambini fischiavano e ridevano e si spintonavano per vedere meglio. Io riuscii ad afferrargli il maglione e lo tirai. Lui prese il mio grembiule e sentii che si lacerava sulla schiena. “Oh no”, pensai, “la nonna mi ucciderà!”.
«Botte! Botte!», urlavano gli altri. «Forza, Billy. Fagliela vedere!».
Ci rotolammo per un po’, ma le incitazioni scemarono quando arrivò il preside. Incombendo su di noi, ci oscurò la luce. Guardai la sua faccia rosa da maiale mentre la sua voce scoppiava nel silenzio.
«Emma Cartwright, qui non puoi comportarti come una selvaggia. Questa è l’Inghilterra».
Mi venne così vicino che gli vidi le vene rosse nel bianco degli occhi.
Il ragazzo rimediò uno scappellotto e una faccia da barbabietola, e io cinque colpi di righello sul palmo della mano. Non piansi. Non ero spaventata. Ero arrabbiata.
Le ragazze fecero di peggio. Ridacchiavano dietro le mani, saltavano a corda scandendo coretti, oppure si lanciavano la palla, e non mi lasciavano partecipare. Mi rivolgevano occhiate cattive, poi si voltavano e parlavano a voce alta. Io battei le palpebre per cacciare indietro le lacrime e feci la superiore, ma ammetto che con la mia pelle abbronzata e i capelli schiariti dal sole ero diversa. In ogni caso mi odiavano per quello, sparlarono di me in classe, mi spinsero in fondo alla coda all’ora di pranzo e alla fine della giornata mi bloccarono la strada, le mani sui fianchi. Furono più gentili con Fleur, perché lei era davvero brava a saltare la corda.
A casa, papà annunciò di aver ricevuto una lettera da Veronica, che voleva venire a prendere il tè un sabato. Non sapevo cosa ne avrebbe pensato la mamma. Veronica mi piaceva abbastanza, ma se avesse portato anche il fratello? Lo domandai a mio padre, ma lui mi disse di non fare la ficcanaso. «Lei e il papà sono amici», disse la nonna. Veronica aveva un appartamento a Londra, ma aveva affittato un cottage in un paese che si chiamava Drake Broughton, a circa trenta chilometri da Cheltenham. Cheltenham le piaceva e stava pensando di vendere l’appartamento di Londra per acquistarne uno lì. Quando ci disse che Veronica aveva “mezzi personali”, la nonna sembrava impressionata.
Quando fui a letto, quella sera, non più protetta da una zanzariera, pensai alla mamma. La immaginai seduta accanto a me come faceva sempre, a cantarmi Piccola, fuori fa freddo. Mi faceva sempre venire il singhiozzo dal tanto ridere, perché in Malesia faceva caldissimo. Lì aveva più senso.
Anche se non avevo pianto in cortile, piansi a letto dopo che Fleur si fu addormentata. La nonna mi sentì ed entrò in punta di piedi. Quando le raccontai che ero stata esclusa, mi abbracciò.
«Accoglienza fredda, eh?». Strizzò gli occhi e le sue guance paffute divennero ancor più rotonde. «Capisco, paperella», disse annuendo e sollevando i miei capelli arruffati. «Ti faremo assomigliare a loro. Eccome! Vedrai. Ora fatti una bella dormita».
«Al tè viene anche Mr Oliver?», le chiesi prima che se ne andasse.
«Può darsi. Vive da Veronica, intanto che aspetta di trovare un nuovo impiego all’estero».
Io incrociai le dita sperando che lo trovasse in fretta, prima di avere l’occasione di venire a prendere il tè.