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Papà ci disse di non muoverci e di aspettarlo vicino alla scaletta di metallo del ponte mentre lui scendeva a parlare delle nostre cabine con uno degli assistenti di bordo. Io rimasi immobile e ascoltai i rumori.
«Sst!», dissi a Fleur mentre ci protendevamo sulla ringhiera umida e guardavamo giù per la tromba della scala. «Non li senti?».
Fleur fece una smorfia. «No».
Io mi accigliai. Non era difficile sentire i passi che echeggiavano sulle passerelle di sotto.
«La nave è infestata», sussurrai facendo una faccia spaventosa. Mia sorella fece roteare gli occhi e si scostò.
«Scusa. Su, Verme farinoso, corriamo».
Il nome preferito della mamma era Emma. I suoi orecchini a lucertola avevano le lettere E e M incise sul retro. Era il mio nome, ma anche il secondo nome di Fleur era Emilia, talvolta nota come Floury Millie, «Millie farinosa», o, per me, Verme farinoso.
Ci mettemmo a correre avanti e indietro per il ponte chiamandoci a vicenda e quando rimanemmo senza fiato ci piegammo tenendoci i fianchi. Poi ci mettemmo a guardare l’oceano mentre il sole rosso si tuffava nel mare e il giorno veniva ingoiato. Chiazze rosa e gialle galleggiavano su e giù nell’acqua scura come liquirizia e le grida degli uccelli marini si sentivano dal porto fino al ponte dove ci trovavamo noi.
«Guarda i commercianti che veleggiano sui sampan».
«Cosa sono i sampan?», chiese Fleur.
«Piccole imbarcazioni, sciocchina. Non le vedi?».
Strillammo mentre schivavano la scia delle navi più grandi per accostarsi alla nostra, le luci delle loro lanterne che si riflettevano tremolanti nell’acqua. Gli uomini si alzarono e gridarono, quindi mandarono su della roba in grossi panieri. I marinai ci spedirono via, ma non prima che fossimo riuscite a vedere vivaci pantofole orientali e collane di perline luccicanti. Per me e Fleur, che correvamo su e giù, la nave era come il paese delle fate… finché non vedemmo nostro padre.
«Non voglio guastarvi il divertimento, ma qui fuori non potete correre liberamente», disse mentre ci raggiungeva a passo di marcia.
«Ma papà!».
«Niente ma, Emma».
«Non ci avvicineremo troppo», implorò Fleur.
«Bel tentativo, tesorino, ma niente da fare. Qui fuori solo con un adulto, soprattutto la sera. Mai da sole. E mi sembrava di avervi detto di aspettare vicino alle scale».
«Non è giusto», borbottai sottovoce.
«Dico sul serio, Emma. Può succedere di tutto».
Io non dissi una parola, ma prestai orecchio alle voci spettrali dietro le sdraio e immaginai una figura irreale strisciare verso di me per farmi cadere. Oppure il mare mi avrebbe strappato dal ponte per gettarmi nel posto in cui Orfeo danza con i folletti dell’acqua, come avevo imparato a scuola.
«Emma?»
«Okay».
Entrammo con lui, ma io incrociai le dita dietro la schiena. Non l’avevo potuto evitare. Amavo l’oceano mentre il mondo diventava purpureo e poi di un nero inchiostro più scuro.
Di nascosto, finsi che fosse un’avventura e aspettai finché Fleur non si addormentò. Poi scivolai fuori dalla cabina, strisciai furtiva su per la stretta scala di metallo che conduceva al ponte e attesi che non ci fosse in giro nessuno, quindi corsi a una delle scialuppe di salvataggio. Era sospesa parecchio in alto, ma trovai una cassetta che qualcuno aveva dimenticato, ci montai e mi issai nell’imbarcazione a testa in avanti. Quindi mi girai sulla schiena e guardai in alto. L’aria era ancora calda e il cielo era tutto stellato. La piccola imbarcazione ballava se mi muovevo, così rimasi completamente immobile, proprio come il mare.
Mi ricordò di quando stavo distesa sull’erba nel nostro giardino e guardavo le nuvole volare come sbuffi di sorbetto al limone. Dovevo ricordare più cose che potevo perché non sapevo quando saremmo tornati. Una vocina nella mia testa disse «se tornerete», allora mi tirai su a sedere e fissai il mare. Stringendomi tra le braccia, inalai una profonda boccata di aria salmastra. Avrei voluto saltare in acqua e tornare a nuoto nel posto in cui c’era la mamma. Ma il mare tranquillo mi calmò e rimasi nella scialuppa di salvataggio finché non ebbi troppo freddo.
Condividemmo il tavolo con Mr Oliver e sua sorella. Lei si chiamava Veronica e lui era Sidney. Veronica era alta e magra, alta quasi come papà, con morbide gonne fruscianti, ricci biondi appuntati stretti e una voce bassa. Si picchiettava i capelli per tenerli ordinati. Entrambi avevano la pelle chiara, come se avessero vissuto nascosti dal sole malese, anche se le guance di lei erano rosa, rosa come le minuscole perline di vetro che aveva intorno al collo. Sembrava che le piacessimo, soprattutto papà, da come gli sorrideva con i suoi begli occhi azzurri e ridacchiava alle sue battute.
Mr Oliver e Veronica erano in ritardo per il pranzo, e noi eravamo soli al tavolo. Mentre aspettavamo, papà ci raccontò che Veronica aveva un appartamento a Londra ma era solita vivere in un posto chiamato Cheltenham, non distante da dove stavamo andando noi. Ci disse che la sua era una storia infelice, e che dovevamo essere gentili con lei. Non aveva figli e suo marito era stato un insegnante, morto per una malattia che si chiama colera.
«Cos’è il colera? Ti fa schizzare fuori gli occhi dalle orbite?», chiesi al papà.
Lui fece un sospirone. «No, Emma, non lo fa. Ti fa solo diventare molto stanco e triste finché non peggiori».
«E poi muori».
Lui annuì. «Molto probabile».
In sottofondo, Doris Day stava cantando una delle canzoni preferite della mamma, Secret Love. Pensando al bel viso ovale della mamma e ai suoi occhi lucenti, mi sentii triste. Il nocciola dei suoi occhi era screziato di verde e azzurro come la coda di uno speroniere, e una delle sopracciglia era un po’ più alta dell’altra. A me piaceva sedermi a guardarla mentre cercava di pareggiarle. Non ci riusciva mai.
Il pranzo fu un pasto malese con il dolce profumo delle foglie di combava, che io adoravo. Il tavolo dei budini non era granché, ma io mangiai comunque troppa pesca melba e mi venne mal di pancia. Chiesi a papà se potevo alzarmi e andare in cabina a distendermi.
Veronica gli sorrise. Abbronzato per le numerose ore trascorse all’aperto, papà era rugoso e come secco, e indossava occhiali rotondi di tartaruga. Notai che si era dato da fare più del solito per apparire elegante.
«Baderò io a Fleur, se vuoi», disse Veronica con una voce spumeggiante. «Così Emma può farsi un bel sonno indisturbato e svegliarsi in forma».
In cabina, mi distesi sopra il copriletto blu di ciniglia, le orecchie che mi ronzavano. Ero nella cuccetta di sotto, quella di Fleur, perché non volevo salire una scala con il mal di stomaco. La minuscola cabina odorava di urina e sale. Si sentivano il rumore sordo e continuo della nave e le onde che le sbattevano contro le fiancate. Chiusi gli occhi e il suono del motore mi fece addormentare in fretta.
Un po’ più tardi mi svegliò un colpo alla porta ed entrò Mr Oliver. Immaginai che papà l’avesse mandato a vedere come stavo, anche se ero sorpresa che fosse venuto lui e non sua sorella.
Mr Oliver si sedette sul bordo del mio letto, senza fiato e ansimante.
«Spostati un po’, tesorino», mi disse con un ghigno.
La sua faccia era talmente vicina che riuscivo a vedergli i capillari rotti sul naso.
«Chiudi gli occhi, mia cara», disse, e iniziò ad accarezzarmi pianissimo la fronte. Scordai che era lui e all’inizio fu piacevole. Mi ricordava la mamma. Scivolai in una specie di sogno malsano. La mamma mi mancava tantissimo e papà non diceva quando sarebbe arrivata. Ma poi avvertii una strana sensazione nella pancia e nelle gambe. Qualcosa non sembrava del tutto giusto, e quando Mr Oliver mi lasciò da sola tirai il fiato.
Quando entrammo nella baia di Biscaglia, nuvole argentee correvano nel cielo, e all’ora di pranzo la nave stava ballando. Mr Oliver si strizzò accanto a me e sotto il tavolo mise una mano sudaticcia sulla mia coscia nuda. Non mi piacque. Mi allontanai da lui, schiacciandomi addosso al sedile. Lui mi fece l’occhiolino e la mia faccia andò in fiamme. Tutti erano occupati a parlare del tempo, così nessuno la vide.
Dopo pranzo restai sul ponte a guardare il mondo diventare nero. Fortunatamente per me, Mr Oliver non era un buon marinaio e fu il primo a scomparire in cabina. Poi Fleur si sentì male e allora papà e Veronica portarono giù anche lei. Papà mi disse di seguirli ma stare fuori da sola mi faceva sentire meglio, così mi fermai. Fu il massimo. Le onde saltavano sempre più in alto, il ponte vibrava e tremava e persino alcuni dei marinai si sentirono male.
Io trovai il mio piede marino e urlai mentre onde enormi finivano sulla coperta, sbatacchiandomi da una parte all’altra. Gli uccelli stridevano, il vento ruggiva e io mi scordai della mano calda di Mr Oliver, scordai persino che avevamo lasciato indietro la mamma. Rimasi fuori a inspirare profonde boccate di aria salmastra e dopo passai la mano sui parapetti incrostati di sale e mi leccai i cristalli dalle punte delle dita. Sapevano di pesce e di sale, proprio come l’odore che avevano.
Il resto del viaggio trascorse in fretta e l’ultimo giorno mi svegliai prima che facesse chiaro. Arrampicata su una sedia guardai fuori dall’oblò e feci appena in tempo a scorgere una lunga sagoma scura in lontananza. La mia prima visione dell’Inghilterra. Quando, in tarda mattinata, la nave attraccò, mi affrettai su per le scale e lungo il ponte scivoloso. Per un momento guardai il cielo smorto, quindi chiusi gli occhi, dissi una preghiera per la mia bellissima mamma, le soffiai un bacio sopra il mare e le chiesi di raggiungerci presto.
Al porto di Liverpool, frotte di persone intasavano la strada e nell’aria c’era odore di petrolio. Uomini con indosso berretti di panno con la visiera attorcigliavano funi intorno a fermi di metallo massiccio sulla banchina e l’aria era piena dei suoni irritanti di campanelli, veicoli, strilloni di giornali e casse sospese che sbatacchiavano e cadevano a terra con dei tonfi. Soprattutto, la gente gridava. Dovevi toglierti di mezzo con un salto perché nessuno ti vedeva, attraverso la nebbia. Smog, la chiamò papà.
Io mi sentii molto piccola e feci un respiro profondo mentre aspettavo, come se il brillante futuro che papà aveva promesso fosse lì per incontrarmi. Non c’era. Era puzzolente, freddo e grigio. Prima d’allora non avevo mai saputo cosa fosse il grigio e desiderai far scivolare la mano in quella della mamma, vederla sorridermi e sentirle dire: «Andrà tutto bene. Vedrai».
Quando vide che ero sconvolta me lo disse papà, ma non era la stessa cosa.
Dovemmo salutare Veronica e un verde Mr Oliver con un bacio. Io storsi il viso e non appena fu finita corsi via lungo il pontile. Era una gelida giornata di febbraio e la corsa mi scaldò.
«Non avvicinarti troppo al bordo», urlò papà.
Non andai lontano. Mi facevano male i piedi. Io e Fleur eravamo abituate a giocare in infradito o a piedi nudi, con il papà che rideva e ci chiamava selvagge. Ora eravamo state costrette a indossare scarpe marroni con un cinturino e un bottone. E lunghe calze che prudevano. Ci lamentavamo un sacco entrambe, anche se facevamo sfoggio delle giacche rosse che la mamma ci aveva sferruzzato per il prossimo viaggio a casa. Ce n’era stato solo uno prima, a mia memoria, che mi aveva lasciata con un’idea confusa di quel posto chiamato Inghilterra.
Pensare alla mamma mi faceva malissimo al cuore.
Fino a quel momento, papà non aveva fornito alcuna motivazione per il suo ritardo, ma al molo glielo chiesi di nuovo.
Lui si tolse gli occhiali, se li pulì sulla manica, gonfiò le guance e disse semplicemente: «Al momento non è qui. Temo sia tutto quello che posso dirvi».
«Ma quando verrà?»
«Emma, non lo so».
«Le hai lasciato la lettera che le ho scritto?»
«Certo».
“Probabilmente è stata trattenuta”, pensai. “Forse papà non vuole dircelo perché non vuole fare una promessa per poi rischiare di deluderci se avesse capito male”. Ma questo non fermò la mia fantasia, e vidi mia madre ovunque andassimo. Persino nella grande sala d’attesa piena di spifferi dove aspettammo un facchino, e dove la puzza di fuliggine e fumo ti faceva bruciare gli occhi. E anche se la mamma non era davvero lì, io immaginai una linea sottile che si snodava più o meno per mezzo mondo. Era il filo invisibile che si allungava da ovest a est e viceversa. Un capo era attaccato al cuore della mamma e l’altro al mio. E sapevo che, qualunque cosa fosse successa, quel filo non si sarebbe mai spezzato.