48
1957. Erano le vacanze del trimestre autunnale. Ripensai al nostro primo febbraio in Inghilterra, quando eravamo appena arrivati. Iniziai a scrivere dello stupore per la massa di ghiaccioli che ci gelava le finestre della camera e della novità del fumo di carbone che aleggiava nell’aria quando tornavamo da scuola, ma mi riportava alla mente troppi ricordi di quando avevamo lasciato la mamma.
Veronica fece capolino dietro la porta. Per via del suo viaggio in Africa, lei e papà non si erano ancora sposati.
Raggiungendomi, mi cinse con un braccio e mi sbirciò da dietro le spalle. «Una nuova storia?»
«Non è niente, in realtà».
«Senti, Emma, sono terribilmente di corsa ma ho voluto fare un salto per fartelo sapere: c’è una notiziona».
Alzai il capo, con la pelle d’oca. «Qualcuno ha trovato la mamma?».
Sedendosi sul letto, Veronica si rabbuiò un po’. «No, mi dispiace, tesoro. Ne abbiamo già parlato. Dovresti sapere che non succederà. Ma ti assicuro che ne sarai felice».
Mentre concludeva la frase, Fleur entrò rumorosamente in camera mia sbattendosi la porta alle spalle.
Voltandomi verso di lei le rivolsi un’occhiata truce, irritata per l’interruzione. «Stavamo parlando, Fleur».
«Indovina un po’?», replicò lei ignorandomi. Non riusciva a stare ferma, gli occhi che le brillavano e le guance arrossate. «Non l’hai visto, vero?»
«Visto cosa?».
Anche Fleur sedette sul mio letto, accanto a Veronica, e si mise a saltellare. «Ho visto il ragazzo che lo consegnava. È sempre elegantissimo. Ha un’uniforme blu con i profili rossi e anche un berretto tondo. Mi ha fischiato».
«Fleur, cosa diamine stai blaterando?», le domandò Veronica raccogliendo la borsetta.
«Il telegramma. Aveva il nome di Em. L’ha preso papà».
«È successo adesso?», chiesi io.
«Qualche minuto fa. Aveva l’aria di venire dall’estero. Papà l’ha portato di sopra».
Nonostante tutto, la lealtà di mia sorella continuava ad andare a mio padre, quindi era strano che me lo stesse raccontando. Fleur aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo. «Pensavo che fosse venuto a dartelo, ma poi tu non hai detto niente… volevo sapere cos’era. Sicura che non te l’abbia dato?».
Scossi la testa. Dal giorno in cui mi aveva abbracciato, io e mio padre eravamo rimasti lontani, entrambi troppo imbarazzati per parlare dell’accaduto.
«Non dirgli che te l’ho detto», mi implorò mia sorella sgranando gli occhi.
«Be’, e come faccio a chiederglielo?».
Lei fece una smorfia.
Veronica mi fece un cenno d’assenso. «Penso che faresti bene a domandarglielo. Ma ascolta, adesso devo proprio andare. Ci vediamo domani, va bene?».
Annuii, ma ero furiosa con Fleur. Adesso avrei dovuto aspettare fino al giorno successivo per sapere qual era la novità di Veronica.
«Non pranzi?», le chiese mia sorella.
Veronica scosse il capo.
Dopo che se ne fu andata, io e Fleur scendemmo di sotto.
Papà era in cucina a scaldare una zuppa di pollo in scatola. Era la preferita di mia sorella, mentre io preferivo quella casalinga di piselli spezzati che faceva la nonna. Ricacciai indietro il groppo che mi veniva sempre quando pensavo alla nonna e incrociai le braccia.
«Posso avere il telegramma, per favore?», chiesi sforzandomi di usare un tono calmo.
Lui mi guardò con un’espressione severa, ma io non cedetti.
«Quello indirizzato a me».
Le spalle di papà si incurvarono. «Volevo solo proteggerti».
«Ma papà, era indirizzato a me. Fleur l’ha visto».
Mia sorella sedette con gli occhi incollati al ripiano di formica del tavolo, come se le immagini di tegami, carote e piatti in casseruola fossero assolutamente avvincenti.
Ricordai un’altra cosa. «Perché non ci hai detto che avevi in programma di vendere la casa? Me l’ha riferito Billy».
«Sapevi che era molto probabile», replicò lui volgendomi le spalle per mescolare la zuppa.
Mi sentii prudere la pelle ma mi sforzai di controllare la rabbia. «No, papà, non lo sapevo. Non so niente perché tu non mi racconti niente».
Nella stanza scese il silenzio, a parte la minestra che sobbolliva sul fuoco e il cucchiaio di legno che la mescolava e grattava il fondo della pentola.
«E comunque io non voglio trasferirmi».
Lui si voltò ad affrontarmi. «Non spetta a te decidere».
Allungai la mano. «Per favore, posso avere il telegramma?»
«Fleur si è sbagliata. Il telegramma non era per te».
Mia sorella spalancò la bocca, sorpresa. Per lei, papà non poteva fare nulla di sbagliato.
«Bene, allora di cosa si trattava?»
«Hai passato il segno, Emma. Non sono affari tuoi».
All’improvviso sembrò come sgonfiarsi. Abbassò lo sguardo. «Servitevi la zuppa. Torno tra un minuto».
Le veneziane nuove erano abbassate e la cucina tetra era illuminata solo da strisce di luce. Distribuii la zuppa e la mangiammo in silenzio.
Quando vedemmo che non tornava, mia sorella uscì a fare la ruota e io mi recai nella stanza di papà in punta di piedi. Non era lì. Non c’era neanche nessuna traccia del telegramma. Non riuscivo a capire perché non me l’avesse mostrato, anche solo per dimostrare che non era mio. Doveva aver a che fare con mamma. Doveva. Vidi il mio riflesso nello specchio della toeletta, un volto pallido dalle occhiaie scure. All’esterno un gruppo di storni fischiò mentre cambiava direzione e si precipitava verso il paese.
Ero agitata. Sentivo il sibilo dei serpenti della giungla. I serpenti arrivano in silenzio attraverso l’erba alta. Mi riscossi. Quella era l’Inghilterra. Niente serpenti. Niente giungla.
In camera mia, Veronica mi aveva scribacchiato un messaggio sul taccuino.
Municipio, domani, dieci in punto. Ci vediamo lì. E porta la lettera di Johnson, Price & Co. Baci.