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Un’intensa zaffata di odori di cucina, sudore e patchouli la raggiunse nel punto in cui si era fermata a riprender fiato su una soglia della strada dei Tre dragoni. La vernice verde dell’edificio si stava sempre scrostando e il posto sembrava più malandato di prima. Lydia tenne gli occhi sulla porta. Prima di lasciare Singapore si era infilata un cheongsam di seta con uno spacco profondo sul fianco. Troppo ammiccante. Se l’era tolto. Aveva provato una semplice camicetta di cotone con una gonna inamidata. Troppo noioso. Alla fine aveva optato per un abito a sottoveste verde mare: sobrio e attillato, le faceva risaltare al massimo i capelli e gli occhi. Aveva attinto all’eye-liner come una ragazza cinese e si era passata un rossetto vivace, quindi si era fatta forza e aveva messo da parte i sentimenti.
Non voleva ciondolare come una passeggiatrice, per cui decise di mostrarsi solo se l’avesse visto alla porta. Sarebbe stato come se il destino avesse teso una mano. Se non compariva, sarebbe salita sul primo bus di ritorno e lui non l’avrebbe mai saputo.
Una donna era appostata nell’ombra di un vicolo vicino, un ragazzino scarno accovacciato accanto. Cullava in braccio un neonato e con occhi profondi e tristi chiedeva cibo in malese. «Makan, makan», ripeté con il palmo teso indicando la bocca del ragazzino.
Lydia si sentì impotente. Cosa poteva fare, a parte darle del denaro e sperare che lo spendesse per il cibo? Ma un’occhiata furtiva al neonato le tolse il fiato: il volto grigio e rigido del piccolo indicava che era troppo tardi per il cibo.
Frugò nella borsa in cerca di qualche moneta e, mentre lo faceva, per poco non si perse Adil. Spaventata sentì chiamare il proprio nome e, mentre l’uomo iniziava a scendere lungo la strada, si rese conto che era stato lui a vedere lei.
Adil attraversò la via gremita e le sorrise, gli occhi scuri pieni di curiosità. «Suppongo stessi venendo da me», le disse. «Sono passati un bel po’ di mesi, non è vero?»
«Mi stavi controllando?».
Lui scrollò le spalle e le tese la mano.
Una folata d’aria piena di polvere le gettò della sabbia negli occhi, che presero a lacrimarle violentemente. «Odio il vento», proclamò.
«Ah. Quindi hai avuto a che fare anche con il demone del vento».
Lydia si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta.
Lui la guardò e rise. «Oh, povero me. Di solito non faccio piangere le donne».
«Così mi hanno detto».
Adil inarcò le sopracciglia. «Immagino che tu abbia parlato con Cicely».
Lydia si morse una pellicina sull’unghia del pollice e si sentì avvampare.
«Hai degli sbaffi neri. Lascia, faccio io». Adil le prese il fazzoletto di carta e lei abbassò lo sguardo mentre la ripuliva.
Biascicò un ringraziamento.
«Sembra che ti debba qualche spiegazione. Che ne dici se entriamo, prima? Hai l’aria di aver bisogno di una bibita fresca».
Di sopra, le veneziane erano abbassate. Adil le lasciò così e accese un paio di lampade. Un ventilatore da soffitto iniziò a muoversi a scossoni, spostando l’aria appiccicosa. Era un’altra giornata umida, di quelle in cui si sentiva il disperato bisogno di un acquazzone rinfrescante.
«Mi dispiace di essere venuta senza preavviso. Non vorrei disturbarti».
«È così inglese da parte tua, Lydia! Ma, dal momento che me lo chiedi, no, non mi disturbi affatto». Adil le sorrise e, con aria interrogativa, le mostrò una grossa arancia.
«Te ne sei ricordato».
L’uomo affettò l’arancia, quindi la spremette insieme a della limetta in un bicchiere alto. L’aroma degli agrumi pervase la stanza.
«Mi hai mentito».
«Possiamo chiamarla un’omissione?».
Non era andata lì per litigare. «Chiamala come preferisci. Perché non me l’hai detto?»
«Di Cicely?». Adil scosse il capo. «Mi dispiace. Volevo. L’ho quasi fatto, il giorno che siamo andati da Lili, ma la verità è che… be’, è complicato».
Lydia si fissò i piedi, contenta di essersi smaltata le unghie ma evitando di pensare a cosa significasse esattamente.
«Anche io ho una domanda per te. Perché te ne sei andata senza una parola?».
La donna sospirò. «Anche questo è complicato».
Mentre Adil aggiungeva nel bicchiere acqua di selz e ghiaccio calò il silenzio.
«George ti ha pagato per non farmi arrivare troppo in fretta a Ipoh?»
«Ah».
«Non lo neghi?».
Adil allargò le mani in un gesto di resa, quindi le porse il bicchiere. «George era il mio capo e la triste verità è che allora non ti conoscevo».
«E quando mi hai conosciuta?»
«A quel punto te ne sei andata», rispose lui guardandola negli occhi e rivolgendole un sorriso pigro.
Lydia svuotò il bicchiere. Era andata lì in cerca di risposte ma non poteva negare il fatto che, ora che c’era, si sentiva più viva di quanto fosse stata in tutto il tempo trascorso a Singapore dove, per quanto avesse cercato di negarlo, i suoi pensieri continuavano a tornare a lui.
«Ascolta, George mi ha chiesto di seguirti e farti ritardare come potevo. Come farlo dipendeva da me».
«Ma perché?».
Adil si strinse nelle spalle.
«Cosa mi dici dell’autobus? Non ha senso».
«Sapevo che avrebbe fatto la tua stessa strada. Era solo questione di tempo prima che finissi la benzina».
«Ma la benzina c’era».
Adil piegò il capo. «È stato semplice levarla e rabboccare il livello con l’acqua mentre Suyin ti portava Maz».
«Non ci credo! Avevo pensato che fossero i gatti a fare rumore!». Lydia rifletté un attimo. «E se l’autista non mi avesse lasciato salire sull’autobus?»
«L’avrei convinto».
«E l’imboscata?»
«No. Nemmeno io posso controllare i terroristi, anche se conoscevo uno degli esecutori. Era stato fermato un po’ di tempo prima e ci passava delle informazioni».
«Ma non ve ne ha date sull’imboscata».
Adil scosse il capo.
«Tutto questo è folle». Lydia tacque per un po’. «Non mi hai detto perché George ti ha chiesto di rallentarmi».
«Non lo so. È la verità».
Lydia osservò gli zigomi alti e larghi dell’uomo, i profondi occhi a mandorla infossati, il naso lungo e le labbra piene e notò un lampo di vulnerabilità. Non era così che doveva andare. Voleva essere seccata con lui, ma pensava che stesse dicendo la verità.
Adil le prese la mano. «Ascolta, dopo averti seguita nel viaggio verso Ipoh e averti consegnata a Jack, sono tornato indietro e ho fatto qualche indagine. Non ero soddisfatto. Come ti ho detto, George non mi aveva spiegato perché voleva che ti facessi ritardare e avevo già qualche sospetto che fosse coinvolto in qualcosa di brutto. C’era stato un accenno a una frode e forse anche al traffico d’armi. Mi sono chiesto se avesse bisogno che Alec portasse a termine qualche faccenda prima che tu lo raggiungessi a Ipoh e se fosse per quello che voleva che ti facessi ritardare. Era solo un’ipotesi, ovviamente. George un tempo aveva forti legami con la malavita di Singapore, i contrabbandieri, la mafia cinese e tutto quel genere di cose. Soprattutto prima della guerra».
Lydia scosse il capo e ritrasse la mano.
«Mi sei mancata. Dico davvero, Lydia».
I pensieri di Lydia vorticavano. Anche a lei era mancato, ma sembrava tutto privo di senso e c’era ancora una domanda che doveva fare.
«Perché tu e Cicely avete rotto?».
Lo sguardo di Adil si fece torbido. «Si vergognava di me, del mio passato. Quando mio padre è morto non avevamo denaro. Non solo io non sono bianco, ma mia madre si è data alla professione più antica del mondo. Cicely è una snob. L’ha scoperto».
Calò il silenzio.
Adil si voltò verso la finestra, volgendole le spalle. «Può essere difficile da capire adesso, ma allora ero giovane. Mi sono lasciato influenzare. È successo lentamente, come un veleno, finché alla fine mi vergognavo troppo di mia madre per andare a trovarla. L’ho lasciata morire da sola».
«Mi dispiace», disse Lydia.
«Ha chiesto di me, ma io ho temporeggiato. Quando sono arrivato, era morta. Adesso la vergogna…». Adil si fissò i piedi.
Lydia osservò il suo petto alzarsi e abbassarsi e avvertì immediatamente l’impossibilità di dire qualcosa che non fosse scontata.
Adil alzò lo sguardo. «…è qualcosa con cui devo convivere».
Mentre sprofondavano nel silenzio, Lydia si chiese come reagire. Non voleva sficcanasare, o causargli ulteriore dolore.
«Come sei arrivato dove ti trovi adesso?», gli chiese alla fine, sentendo che era meglio cambiare argomento.
«Lo devo a George Parrott».
Lei inarcò le sopracciglia con aria interrogativa.
«Era uno dei clienti di mia madre quando vivevamo nella baraccopoli vicino al porto. Mi ha offerto una via d’uscita. Il lavoro come cameriere è stato solo l’inizio. Dopo ho lavorato per lui. Mi ha preso sotto la sua ala».
«Capisco».
Adil andò a sedersi accanto a lei. «Mi dispiace di non essere stato sincero con te riguardo al mio passato. E adesso eccolo che torna di soppiatto a guastare il presente».
«Non è il rimorso ad agire così?», replicò lei, ma quel discorso la metteva a disagio.
L’uomo le rivolse un sorriso cupo. «O la paura. Non c’è niente che vorresti rinnegare nel tuo passato?»
«Non è così semplice», rispose Lydia pensando ai propri errori e rivedendo nella mente lo zoo in cui era solita portare le bambine e talvolta incontrare Jack.
«Allora, dove siamo adesso noi, Lydia?». La voce di Adil era tranquilla.
Lydia chinò il capo. Lo stato d’animo di Adil l’aveva colta alla sprovvista.
«Tutto torna sempre a George Parrott. Lo odio. Nessuno è quello che sembra».
«Il giorno che sei andata a trovarlo, il giorno in cui mi hai visto, ero nella stanza accanto, in attesa. Dopo tutto quello che aveva fatto per me, non è stato facile dirgli che avevo trovato qualcosa contro di lui. Abbiamo litigato».
«Non mi starai dicendo che è questo il motivo per cui si è sparato?».
Adil fece un sorriso sghembo. «Non mentre ero lì io».
Lydia sentì uno spasmo al petto. Come aveva fatto a finire coinvolta in quella faccenda? Si alzò. «Quindi, per chi lavori adesso?».
Lo sguardo di Adil si offuscò. «Per la polizia. Pensavo lo sapessi».
«Okay. Un’ultima domanda».
«Spara».
«La amavi?», gli domandò con il tono di voce più indifferente che riuscì a racimolare.
Adil si schiarì la gola. «Era difficile da amare».
«Ma tu la amavi?».
Lui annuì.
Quando uscirono, quella sera, il cielo era rosa. Pochi istanti più tardi, la notte calò un sipario nero. Privo di stelle, privo di luna. Immediato. Presto sarebbero apparse le stelle. Dai vicoli, Lydia sentì urla, risate, l’ululato solitario di un dingo e il fetore delle latrine, mai molto lontane. Continuava a sembrarle un luogo profondamente estraneo. Un gemito basso uscì da un edificio alle sue spalle, più un lamento che un pianto. Cercò di ricordare la formula magica che il giardiniere aveva insegnato alle bambine per tenere a bada i demoni della notte e l’oscurità. In momenti come quello, la Malesia sembrava impossibile. Un mondo impenetrabile di mito e magia, un luogo dove la burocrazia coloniale combatteva la ribellione cinese, dove la falsità era diffusa e avere la pelle bianca ti rendeva un diavolo dai capelli rossi.
Lydia rimase ferma ma, sotto quella coltre buia, il calore si andava addensando. Si avviarono verso il porto nella speranza di trovare un po’ di brezza, ma le imbarcazioni erano immobili. Più in là, gli sparsi puntini luminosi dei pescherecci fendevano il buio. Non c’era un alito di vento. Sul collo le apparvero chiazze irritate. Lydia si sfregò la pelle e vide un guaritore cinese che vendeva unguenti e rimedi erboristici su una bancarella improvvisata. Lydia guardò Adil in cerca di conferma, ma il suo accompagnatore scosse il capo.
«Un’altra bibita fredda», le suggerì e la guidò attraverso un passaggio ad arco.
Raggiunsero un tavolino d’angolo sul fondo di un bar fumoso dove una radio trasmetteva un lento e due o tre coppie danzavano sotto un ventilatore a soffitto. Lydia guardò alcune lucertoline sfrecciare sulle pareti di un grigio uniforme. Una lampadina elettrica scoperta attirava enormi falene ronzanti che continuavano a sbatterle contro finché non si raggrinzivano e cadevano a terra. Adil ordinò per lei una birra fredda aromatizzata al cardamomo.
«Ti va di ballare, Lydia?».
Lei spalancò la bocca, quindi la richiuse senza rispondere.
L’uomo le tese la mano. «Vieni».
Arrivarono le loro bevande. Lydia sorseggiò la sua per un attimo, poi gli prese la mano.
«Cicely mi ha riferito che volevi dirmi qualcosa», gli disse mentre Adil le posava una mano sull’incavo della schiena e iniziavano a muoversi insieme.
«No».
«Ha detto che mi stavi cercando».
«Di sicuro speravo che tornassi, questo dovresti saperlo, ma non ti stavo cercando. Se volevi tornare doveva essere una tua decisione. Non ho detto niente a lei. Non l’ho nemmeno vista».
Lydia sentì il solletico del suo fiato sulla nuca, si sforzò di concentrarsi sulle sue parole e decise di credergli. Prima di tornare a parlare, chiuse gli occhi per un istante.
«Sei sicuro di non sapere perché George ti ha pagato per farmi arrivare tardi a Ipoh?»
«Non lo so davvero. Perlomeno, non ancora».
Lei lo guardò negli occhi. «C’è qualche ragione per cui dovrei fidarmi di te?»
«Penso di poter trovare un modo per convincerti», replicò Adil con un sorriso tenero, riconducendola al tavolo. Lydia osservò le sue mani, forti, ben modellate, con radi peli neri che gli si arricciavano appena sopra i polsi.
Dall’altra parte del bar, un uomo li guardò con occhi gonfi e minacciosi. Adil lo raggiunse. Mentre gli parlava, gesticolava. Aveva il vantaggio di saper parlare la maggior parte dei dialetti malesi, tuttavia Lydia percepì solo un gergo strano. Adil allungò all’altro un paio di dollari. Le tornò in mente un’immagine di Jack, chino sul tavolo, che leggeva alla luce di una lampada. Strizzando gli occhi si sforzò di escludere il passato e tornò a guardare Adil.
Mentre tornava da lei, l’uomo sorrideva. «Domani avremo l’informazione che ci serve».
Lydia era disorientata. Le sembrava un estraneo, imperscrutabile.
Di nuovo nella notte. Una strisciante distesa di nuvole si stava muovendo in fretta.
«Adesso rinfrescherà», disse Adil.
Aveva ragione. Tutto intorno a loro le insegne delle botteghe sbatacchiavano, le cartacce si sollevavano da terra e volteggiavano e le imbarcazioni avevano iniziato a sobbalzare su e giù nell’acqua. Con il vento arrivò il fiato ma, nonostante potesse respirare più liberamente, Lydia si sentiva soffocare da emozioni inquietanti. Si affrettarono a tornare mentre un cielo sempre più livido rovesciava le prime gocce di pioggia calda.