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Ero giù di corda per via della nonna e, nonostante fosse una bella giornata, faceva ancora freddo. Ormai era aprile e la prima persona che vidi, dopo un fine settimana a casa, fu sorella Ruth. Sembrava si stesse aggirando nell’atrio in attesa. Gettandosi un’occhiata furtiva alle spalle, mi afferrò il braccio e mi riportò fuori.

«Ho delle informazioni», mi disse strizzando gli occhi alla luce del sole e scrutando i terreni crepati e pieni di zolle agglomerate a causa dell’inverno. «Giura di non dire che le hai avute da me».

Colta di sorpresa, annuii.

Lei si fece di brace. «Troviamoci nel giardino dopo pranzo, dietro ai rododendri, giù verso i boschi».

La faccenda mi rallegrò. Sorella Ruth era dritta come un fuso. Tutta quella storia tipo “incontriamoci in biblioteca e porta un candeliere” non era affatto da lei. Ma in compenso era proprio il genere di cose che io adoravo.

Dopo pranzo, trovai il posto e attesi la monaca, domandandomi la ragione di tanta segretezza. Un paio di ragazze passarono senza vedermi. Era un buon posto per un convegno. I rododendri mi celavano alla vista dei curiosi di passaggio nel parco e schivai persino Susan, cosa che mi fece sentire meschina.

Sorella Ruth arrivò con passo felpato portando con sé un capace paniere di vimini e insieme ci avviammo verso il bosco. Non c’ero più stata dalla notte che vi avevo trascorso da sola. Oggi sembrava innocuo, ombroso ma con delle chiazze luminose là dove il sole brillava attraverso le foglie novelle.

«Perché tutti questi segreti? E a cosa serve il cestino?»

«Ti spiego. Il paniere è un espediente. Ho pensato che avrebbe dato l’impressione che avessi uno scopo».

Le rivolsi un sogghigno.

«Com’è andato il tuo fine settimana a casa?», mi domandò guardandosi alle spalle, la testa che girava come un lecca lecca effervescente su un bastoncino.

«Bene».

Lei annuì. «Emma, cosa sai di tua madre? Lydia, giusto?».

Feci una smorfia. «È una strana domanda».

«Intendo, cosa sai sulla sua nascita?».

Strascicai i tacchi nelle foglie morte e nel ghiaietto per terra. «Non molto. È nata in un convento e l’hanno cresciuta le monache».

«Non ha mai parlato di sua madre?»

«No. Ogni tanto nominava una delle monache».

«Per caso si chiamava Patricia?».

Ci pensai su per un momento. «Potrebbe essere».

Tenendosi alla distanza di un braccio, sorella Ruth gettò un’occhiata verso la scuola. «Ascoltami, Emma. Durante il ritiro di Pasqua ho incontrato qualcuno che conosceva sorella Patricia. Si chiama Brenda ed è stata nello stesso convento di sorella Patricia per cinque anni. Il St Joseph. Purtroppo ora sorella Patricia è morta».

«Come fa a sapere che era la stessa sorella Patricia?»

«Brenda mi ha detto che, quando stava morendo, sorella Patricia si è confidata con lei e le ha raccontato di una bambina che avevano chiamato Lydia. A quanto pare, lei era presente quando la piccola è nata».

Sorella Ruth piegò il capo e mi rivolse un cenno d’incoraggiamento. Udii la voce di mia madre all’orecchio, come se stesse parlando solo a me. Sopraffatta da quanto ancora mi mancava, sentii freddo nonostante il sole.

Mi riscossi. «Ma chi era? La madre della bambina, intendo. È morta?».

Sorella Ruth scosse la testa. «Brenda è riuscita a farsene dare solo il nome di battesimo da sorella Patricia ma, da quel che ha detto, non penso che la donna sia morta».

«Allora?».

Sorella Ruth mi fece un altro sorriso e mi strinse la mano. «Sorella Patricia le ha dato un ritratto. Una miniatura della giovane donna che ha avuto la bambina. Ho pensato che avresti dovuto averla tu, anche se a rigor di logica in realtà avrei dovuto darla alla direttrice perché la passasse a tuo padre».

Scrutai nelle profondità del bosco, dove una distesa di campanule si illuminò sotto un raggio di sole.

Sorella Ruth si schermò gli occhi per guardarmi. «Sediamoci sulla panchina».

Frugandosi tra le pieghe dell’abito, estrasse un piccolo ritratto. «Sorella Patricia l’ha tenuto per tutti questi anni. Guarda, sull’angolo in basso a destra ci sono delle iniziali».

I capelli erano più chiari, quasi biondo tiziano, ma il cuore mi fece un salto mentre guardavo gli stessi occhi di mia madre che mi fissavano. Esattamente lo stesso nocciola, screziato di azzurro e verde, le sopracciglia arcuate, una appena più alta dell’altra, lo stesso viso ovale e la stessa bocca grande. Sembra strano, ma l’immagine mi riportò il profumo di mia madre. Riuscivo a sentire l’odore della sua pelle e dei suoi capelli. La rividi in piedi nel nostro vecchio giardino, uno stormo di farfalle grosse come uccelli che passava al volo e l’aroma del fumo di tabacco della pipa di papà mentre lui sedeva a leggere «The Straits Times».

«La madre di Lydia ha pregato sorella Patricia di aver cura del ritratto e di darlo a tua madre solo il giorno del suo diciottesimo compleanno. Ma tua madre se n’è andata a diciassette anni e sorella Patricia non l’ha più rivista».

Sbuffai. «È ridicolo. Non poteva cercare di rintracciarla?».

Sorella Ruth scosse il capo. «Avrebbe voluto, ma la madre superiora all’epoca le ha detto che era meglio lasciar perdere».

«La cosa migliore sarebbe stata senza dubbio trovare mia madre. O quantomeno provarci».

«Probabilmente all’epoca ha pensato che fosse giusto».

Distolsi lo sguardo. Le campanule ora erano in ombra e, nonostante l’inizio di giornata terso, adesso una fila di nuvole grigie si era allungata nel cielo. Scossi il capo e conficcai la scarpa nel fango limaccioso che circondava la panchina, tracciando dei motivi zigzaganti con la punta.

«Qual era la data di nascita?»

«Il 6 agosto 1924».

La data mi tolse il fiato. «Il 6 agosto è il compleanno di mia madre. Ed è nata nel 1924».

Sorella Ruth mi toccò la guancia.

«Come si chiamava la donna?», chiesi.

Lei fece un sorrisone. «Questa è la parte migliore. Si chiamava Emma. Purtroppo non sapeva il cognome».

Era possibile che stesse davvero parlando della madre di mamma? La donna che lei non aveva mai conosciuto. Ci pensai bene. Una monaca che si chiamava Patricia, una bambina che si chiamava Lydia, la stessa identica data di nascita di mia madre e anche quella donna si chiamava Emma. La mamma mi aveva sempre detto che il mio nome era dovuto a sua madre. Ero pressoché certa di avere in mano un ritratto di mia nonna. La nonna di cui, fino a quel momento, non avevo saputo nulla.

Anche se tutti pensavano che mia mamma fosse morta, io non ci avevo mai creduto e in quel momento desideravo disperatamente che vedesse l’immagine della donna che speravo fosse sua madre. Non volevo tornare dentro e fare lezione con quel ritratto che mi sfrigolava in testa, ma la campanella suonò. Non avevo scelta.

«Grazie, sorella Ruth». Le stampai un bacio sulla guancia e attraversai di corsa il prato, tornando nell’edificio.

Nel dormitorio, prima di andare in classe, guardai di nuovo l’immagine. La donna somigliava tantissimo alla mamma. Pregai che la mamma fosse ancora viva e, mentre lo facevo, sentii il sapore dei fiori dell’ibisco ricoperti di zucchero, udii i caprimulghi e il ronzio delle gigantesche api da miele. Ma, soprattutto, sentii il fruscio dei serpenti che strisciavano nell’erba alta dietro la nostra casa.

Tutti dicevano che la Malesia era un posto pericoloso, eppure quello che ricordavo io non era il pericolo.

Io ricordavo quanto fosse bella la sera, quando il cielo brillava come oro e, dietro le colline scure, la giungla restava in attesa. Eravamo lì quando avevamo avuto l’incidente e la mamma aveva perso uno dei suoi orecchini a lucertola con gli occhi di smeraldo. Me lo ricordavo, perché era successo mentre tornavamo da un matrimonio. Era il giorno dopo che mamma e papà avevano litigato e l’atmosfera era tremenda.

E poi eravamo venuti in Inghilterra.

Ripensai alla mia giornata. Ero stata molto depressa, ma adesso il mio cuore batteva pieno di speranza. Se ero fortunata, e se era ancora viva, avrei potuto trovare mia nonna. Chi l’avrebbe mai immaginato? Scoccai un’ultima occhiata al ritratto. C’erano delle iniziali dipinte di nero nell’angolo a destra: “C.L.P.”. Il mio primo compito era scoprire chi fosse l’artista.

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