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L’autobus rombò lungo la frastagliata linea costiera dello stretto di Malacca. Minuscoli pescherecci punteggiavano l’acqua e, sul lontano promontorio, Lydia individuò la rovina solitaria di un fortino olandese. Abbassò il finestrino per fiutare la fragranza delle orchidee selvatiche che si addossavano alle ampie distese di fichi, il loro profumo che si mescolava con la calda aria salmastra. Un raggio di sole bianco e metallico lampeggiò improvvisamente sull’acqua. Accecata, ritrasse la testa all’interno e guardò avanti, dove le nuvole si aprivano a ventaglio.
Anelava a una sensazione di euforia, una possibilità di speranza o, quantomeno, un po’ di coraggio per affrontare il futuro. Pensava di essercisi abituata ma, mentre prendevano velocità sulla strada rialzata che congiungeva Johore a Singapore, il cuore le si impigliò nei ricordi di quando ci andava con le figlie. Sentì tutto il peso della perdita gravarle addosso. Come avrebbe mai potuto sopportarlo?
Una volta a Singapore, l’autobus imboccò Connaught Drive, l’ampia strada che correva parallela al porto, prima di fermarsi vicino al cenotafio, sul bordo di Raffles Square.
Non appena il mezzo scomparve dalla sua visuale, la donna guardò verso il mare, a est, e riuscì a impedirsi di sprofondare nel dolore. Raddrizzò le spalle e, senza rivolgere nemmeno un’occhiata ai portici ad arco di Tanglin Road, ignorò i grandi viali alberati del quartiere europeo e rivolse il viso al sole. Sarebbe andata bene. Per lei, come per molti altri, quella vita era finita. Tornando verso il porto Victoria, si fece strada in direzione dell’ampio fiume trafficato che divideva in due la città.
Mentre passava, un gruppo di uomini inglesi in cappello bianco, pantaloncini e calze lunghe le sorrise. Lydia contraccambiò, proseguendo finché la valigia non divenne troppo pesante. A quel punto si fermò a guardare le antiquate navi mercantili che caricavano e scaricavano. Sorpresa di vederle ancora lì, gettò indietro la testa e rise davanti a tutta quella confusione. Mentre osservava le automobili e i risciò che ignoravano i vigili urbani indiani col turbante e il fiume di gente che attraversava le strade in stile kamikaze, iniziò a sentirsi meglio. Singapore non era cambiata.
Salì su un altro autobus. Mentre si avvicinava a Chinatown sentì della musica cinese uscire a tutto volume dagli edifici eccessivamente decorati e vide panni stesi pendere come bandiere da aste che spuntavano a casaccio da ogni abitazione. Singapore. Crocevia dell’Est. Non era così che la chiamavano? Il centro commerciale più a buon mercato di tutto il mondo.
La maggior parte degli alberghi economici erano bordelli ma Lydia ebbe la fortuna di incappare nel Welcome Retreat, un edificio alto e snello di tre piani pervaso da un inatteso odore di cera per legno. Salì rumorosamente su per la scalinata, trascinandosi il borsone in una delle tre camere all’ultimo piano, che condividevano il bagno.
Una volta dentro, armeggiò con il chiavistello metallico della finestra. Voleva aprirla per lasciar entrare l’aria. Non era l’Oceanview Hotel ma almeno era pulito e, nonostante fosse vetusta, la stanza non puzzava di grasso rancido o profumo da due soldi. Lydia diede un’occhiata ai mobili malconci e poi controllò quanti dollari le fossero rimasti, al momento ancora effigiati con l’immagine della regina. Con così poche scorte e bisognosa di un lavoro, Singapore era il posto giusto. Magari in seguito, con abbastanza denaro, avrebbe potuto tornare in Inghilterra: un vero nuovo inizio.
Di fuori, gli pneumatici di un’auto stridettero. Al piano di sotto una porta sbatté. C’era qualcos’altro. Dei sussurri tesi dalla stanza accanto alla sua: una coppia stava avendo un aspro diverbio. Lydia sedette sul letto cercando di non ascoltare. Il tempo si trascinò lento mentre vagava per la piccola stanzetta desiderando avere qualcos’altro da fare. Si disse che aveva preso la decisione giusta. Non poteva contare per sempre su Adil e, in ogni caso, era giunto il momento di essere indipendente. Forte. Pensò al suo viso energico, ricordò il suo respiro sulla nuca quando aveva pianto.
La stanza le ricordava la camerata in cima alla scala a chiocciola del convento. L’avevano condivisa in tre. Non era andata molto avanti, pensò mentre giaceva sul letto e chiudeva gli occhi. Cercò di ricordare la persona che era stata ma la ragazza che vide nella mente le sembrava un essere diverso, qualcuno proveniente da una vita completamente diversa.
Si rivide appena prima del sedicesimo compleanno. La guerra era già iniziata. Era estate, una giornata soleggiata con un cielo azzurrissimo, e lei stava aspettando una visitatrice. Rammentava i propri capelli, allora rosso fuoco e più ribelli, come quelli di Emma, e sorella Patricia, le mani sui fianchi, che insisteva perché li tagliasse. Era l’unica ragazza rimasta, l’unica che non aveva un posto in cui andare durante le vacanze.
Ricordava di aver aspettato sulla panchina davanti al convento. Le undici erano arrivate e passate. Le avevano portato della limonata e, un’ora più tardi, dei tramezzini alla pasta d’acciughe. Non era riuscita a mangiarli e li aveva gettati a terra, per gli uccelli. Sobbalzava al suono di ogni veicolo di passaggio ma non aveva abbandonato la postazione. Sorella Patricia le aveva dato una copia di The Family from One End Street da leggere, ma le parole non ne volevano sapere di star ferme sulla pagina.
La sua visitatrice non era mai arrivata.
Lydia si sfregò gli occhi. Il passato faceva male. Quel doloroso bisogno d’amore. Era stata quella la cosa peggiore. Pensò a quanto lei aveva amato le figlie e a quanto poco sua madre doveva averla voluta. Pensò a Em e all’ultima gara di abiti in maschera al club. Emma ci era andata vestita da pagliaccio. Non era stato il costume a vincere, ma Em che aveva fatto una doppia capriola mentre passava davanti al banco dei giudici. L’espressione sgomenta che aveva messo su quando si era ammaccata il cappello li aveva fatti ridere e si era intascata il primo premio grazie a quello. Sorrise ricordando quanto Fleur adorasse i bei vestiti e ripensò ai tempi terribili di quando aveva avuto la polmonite e ci aveva messo così tanto a guarire.
Ricordò se stessa in piedi davanti all’oceano a Terengganu con Alec, nel 1946, sei mesi dopo che la guerra in Oriente era finita. La Malesia era stata dilaniata dall’invasione giapponese ma loro erano rimasti lì, le braccia intrecciate, mangiando noci e bevendo succo di cocco da un guscio appena tagliato. Era una piccola vacanza prima che iniziasse il primo turno di Alec. Emma aveva appena tre anni e Fleur era in arrivo. Lydia ripensò all’odore salmastro dell’oceano e a quando lasciavano aperta la finestra, l’effluvio seducente del gelsomino selvatico la notte. Come quella fragranza si era mescolata con l’odore della birra e il caldo dei loro corpi. Come, dopo aver fatto l’amore, lei gli aveva chiesto di raccontargli di più della sua infanzia. «Normalissima», aveva detto lui, eccettuato il fatto che quando era piccolo il padre era scomparso per un po’, ma era stato proprio quello a indurlo a viaggiare.
Lydia sospirò. La situazione era cambiata. Tutte quelle cose se n’erano andate e, ora che le rimaneva così poco denaro, doveva smettere di pensare e trovarsi un lavoro. Tutto si riduceva a quello.
Il primo lavoro che trovò fu nel più ampio grande magazzino di Singapore, un concentrato di colonne di marmo e reparti profumati e discreti sussurri, dove danarosi clienti erano accuditi da personale eccessivamente cortese.
Ma sul suo piano, casalinghi, c’era rumore. Nessuna calma. Nessun profumo. Un centinaio di detersivi erano schierati in file precise, le orrende bottiglie spolverate quotidianamente. I bollitori venivano lucidati, gli utensili da cucina mantenuti in perfette condizioni.
Per Lydia, la piattaforma su cui dimostrava come usare le nuove pentole a pressione con la valvola era un piccolo teatro. Era pagata abbastanza bene e le piaceva, almeno finché non fece esplodere uno di quei dannati arnesi. Con l’obbligo di fare una dimostrazione ogni ora, che ci fossero clienti o meno, sedeva su un alto sgabello sulla piattaforma rialzata, le lunghe gambe incrociate. Dal punto in cui si trovava, guardava fuori dalla grande vetrina vedendovi scorrere il suo passato. Donne europee, i capelli appena acconciati, che si incontravano da Raffles per un cocktail, e la chiesa, circondata dalle palme, dove bambini inglesi venivano invitati a non correre da amah dai forti accenti cinesi. Era stupefacente che, con la fine in prospettiva e dopo che così tanto era stato distrutto dalla guerra, tutto questo ancora continuasse.
Il suo secondo lavoro, il giorno in cui lo trovò, la colmò di speranza. Era qualcosa che sapeva fare, e bene. Elettrizzata dalla sua stessa audacia, scivolò sotto un passaggio ad arco entrando in una galleria di tende di seta disegnata, dove i ventilatori muovevano dolcemente l’aria e nuvole di voile fluttuavano come farfalle. Stipati su scaffali che si allungavano dal pavimento al soffitto, dragoni, uccelli e pagode su taffettà lucido contendevano lo spazio a sontuosi broccati. La mente vorticante di progetti, confezionò in fretta due vestiti su una macchina per cucire presa in prestito da una cameriera cinese.
Per quanto il lavoro la tenesse occupata, e per quanto le piacesse la sensazione dei tessuti mentre li trasformava in abiti da sera luccicanti di lustrini, la sensazione di eccitazione passò in fretta. Tre mesi più tardi, nell’agosto del 1957, con l’indipendenza malese sul punto di divenire realtà e a più di due anni e mezzo di distanza dalla morte delle figlie, Lydia terminò la propria canzone tra applausi scarsi. Non che Singapore avesse esattamente perso il suo smalto, ma era solo un martedì. E le cose andavano a rilento. Quella sera la gente voleva riempirsi lo stomaco di alcol e pollo fritto.
Sorella Patricia le diceva sempre che avrebbe dovuto fare qualcosa con la sua voce. Lydia non aveva progettato di cantare nel bar dell’Oceanview Hotel. Sarebbero stati più adatti un teatro o un coro. Ma il direttore era risultato essere un uomo corpulento che lei e il marito avevano conosciuto anni prima, e tutto quello che le aveva chiesto era se sapesse cantare.
Lydia prese una birra fredda dal barista, si rassettò la gonna e andò a sedersi presso la finestra. Le piaceva guardare le luci sfavillare, amava il suono dell’acqua mentre lambiva i pali dei pontili, non riusciva a resistere ai profumi notturni della cannella e dello zenzero e all’odore del mare, salmastro, di pesce.
Il direttore le si avvicinò con un sorriso enorme. «Un cocktail Pink gin al bar per te». Le indicò un punto in fondo al lungo bancone lucido.
Succedeva spesso che le pagassero da bere alla fine dello spettacolo. Avvertì una fitta di sconforto, ma si alzò e si costrinse a muoversi. O così, o permettere alla vita di distruggerla.
«Chi è il tipo?». In fondo c’era buio e dal momento che il bancone curvava intorno a un angolo non riusciva a vedere più di un’ombra.
Il direttore scrollò le spalle. «Mah! Passa una buona serata. Io vado via presto».
Lydia avanzò. Due Pink gin e un paio di doppi whisky erano allineati l’uno accanto all’altro.
Dall’ombra uscì una voce, cortese ed euforica. «Felice che tu abbia accettato».
«Cicely!».
«Come stai, tesoro?». Cicely tese un braccio, unghie rosse lucide e braccialetti d’argento splendenti, ma le parole erano indistinte.
Lydia fece un passo indietro.
«No, non scappare. Fermati a prendere un drink. In nome dei bei vecchi tempi». Cicely spinse uno sgabello verso di lei e vi batté sopra una mano.
«Sei ubriaca».
«Un pochino».
Lydia sedette. Era insolito che Cicely perdesse il controllo. «Perché sei qui?».
Cicely sorrise. «Vengo sempre qui quando sono a Singapore. Non sopporto Raffles». Agitò le mani, emanando un misto di Chanel e sudore. «Tutti quei vecchi barbogi che parlano senza sosta di com’era prima della guerra. Che bello trovarti qui!».
«Allora non sei venuta a cercarmi?»
«No, ma ora che è successo… Devo dirtelo: Adil ti cercava».
Lydia trangugiò in fretta il cocktail e si gustò la sensazione del gin che le bruciava la gola. Fissò l’amica, immaginando le labbra dell’uomo pronunciare il proprio nome. «Permettimi di chiedertelo senza giri di parole: ti ha mandata lui?».
Cicely scrollò le spalle. «Tesoro, non essere così sospettosa. Perché avrebbe dovuto farlo? E comunque te l’ho già detto, non sono venuta a cercare te».
«Cosa vuole?»
«Boh! Sembrava ritenere di doverti raccontare qualcosa. Conosci Adil. L’uomo del mistero. Si è rifiutato di dirlo». Cicely fece ruotare il bicchiere e oscillò sullo sgabello. «C’è una cosa che ho sempre voluto chiederti, tesoro. Hai mai amato Alec? Sembravate così inadatti l’uno all’altra. Un uomo tanto ordinario».
Un uragano le ululò in testa. «Per l’amor del cielo, Cicely, è morto».
Cicely mise il broncio. «Non fare la brontolona».
Di colpo Lydia avvertì un peso sul cuore. Tutti i dubbi precedentemente celati sul perché mai l’avesse sposato tornarono ad affacciarsi. Sospirò. «E va bene. Pensavo di amarlo. Facciamo in modo di convincercene, vero? Aveva un fascino tranquillo e io avevo bisogno di quello che offriva».
«Magari era più sensibile di quanto pensassi».
«Cioè?»
«Era convinto che tu non l’avessi mai amato. Dopo piangeva sulla mia spalla. Gli uomini non ti avvertono mica di non essere particolarmente bollenti a letto, vero?», commentò con una smorfia.
Un leggero shock attraversò Lydia. «Dopo? Hai detto che non avevate…».
«Ho mentito. Prendiamo un altro drink», tagliò corto Cicely sventolando qualche dollaro verso il barista.
Lydia socchiuse gli occhi. Cicely non sembrava avere alcun rimorso e chiacchierava a cuor leggero delle ultime novità di Malacca. Quando giunsero a parlare di Jack, Lydia era al quarto gin.
«E lui, lo amavi?», chiese Cicely. Quindi, con uno sguardo di cauta cordialità, proseguì: «Sembra che abbiamo gli stessi gusti in fatto di uomini, non è vero?».
Lydia si accigliò. «Non Jack! Tu non…». La voce le venne meno.
«No, ma non perché io non ci abbia provato. Solo che lui aveva occhi soltanto per la voluttuosa Lydia Cartwright». Trangugiò un sorso. «Un po’ più pelle e ossa, adesso, bada. Ma forza, dimmelo. Sto morendo dalla voglia di saperlo. Com’era?».
Si fissarono.
«Ah, dimenticavo, cara. Tu sei una di quelle donne che non possono vivere senza amore».
Lydia sospirò. «Questo non è vero. E non che siano affari tuoi, ma all’inizio non riuscivamo a tenere le mani lontane l’uno dall’altra, poi ci siamo innamorati e non avremmo dovuto. Io ero sposata e con figli. Poi, dopo l’incendio, Jack è stato così meraviglioso…».
Non confessò il suo pensiero più recondito, e cioè che, per quanto l’avesse amato ardentemente, e lui avesse amato lei, c’era la possibilità che il matrimonio con Jack finisse per essere solo il sogno di ricrearsi la famiglia perduta. Un surrogato. Quanto sarebbe stato triste se la passione fosse finita e avessero scoperto che, dopo tutto, non c’era altro.
«Capisco. Quindi questo ci porta a Adil, a meno che tu non ne abbia altri nascosti. Oh, confessalo, cara. Mi piacerebbe pensare alla tua vita disseminata di uomini smessi… o donne», aggiunse a denti stretti guardandola di sottecchi.
Lydia scosse il capo.
«Be’? Che posto occupa il mio ex nello schema?», chiese Cicely.
«Scusa?»
«Tesoro, va tutto bene, se lo vuoi è tutto tuo».
Lydia avvampò. In ogni caso, qualunque cosa sostenesse l’amica, aveva colto lo sguardo allarmato nei suoi occhi.
«Vuoi dire che quel discolo di un Adil non te l’ha raccontato? Sì, dolcezza, io e il magnifico Adil».
«Quando?»
«L’ho incontrato subito dopo la guerra, quando avevo meno di vent’anni e prima che tutto avesse inizio». Cicely si passò una mano sui seni. «Tesoro, va bene. Se c’è qualcuno che può garantire quanto è succulento, sono io».
«Lo fai sembrare un pasto».
«Be’, cara, non è un gran bel piatto? Un appetitoso dessert, direi. O forse quello era Jack».
Cicely fece il broncio, quindi si morse il labbro e si chinò verso Lydia, le tolse un inesistente granello di qualcosa dalla spalla, si leccò il dito e glielo fece scorrere lentamente dal collo al décolleté. Lydia si impietrì e Cicely ne approfittò per attirarla a sé e baciarla con fermezza sulle labbra.
Per un attimo, Lydia non reagì. Non era mai stata baciata prima da una donna, non l’aveva mai nemmeno immaginato. Battendo rapidamente le palpebre tornò in sé con un sussulto, quindi si tolse di dosso Cicely e la tenne a distanza.
«Sei ubriaca».
«Non dirmi che non ti è piaciuto almeno un po’. Sei molto sensuale, cara Lydia, e voglio venire a letto con te. Mi fermo qui. Così sarebbe tremendamente comodo, non pensi? Che ne dici?».
Calò il silenzio.
«Solo una notte, tesoro?».
Lydia scrollò il capo e iniziò a ridere.
Cicely fece una smorfia, poi un sorriso luminoso. «È così divertente?».
Lydia scosse di nuovo il capo. Cicely, abituata ad attrarre allo stesso modo gli sguardi di uomini e donne, improvvisamente sembrava patetica, una regina del ghiaccio che stava invecchiando e si stava sciogliendo. Ci fu un altro silenzio mentre Lydia si passava le mani tra i capelli. Qual era la radice dell’infelicità di Cicely? Guardò l’amica più da vicino, le narici leggermente dilatate, le labbra truccate e i bellissimi occhi color topazio.
«Ero innamorata di lui, sai? Adil. L’unico che abbia mai amato. Qualcosa nei suoi occhi. E, oh cielo, che corpo!», dichiarò Cicely. «Ma non sottovalutarlo. È un uomo pericoloso».
«Divertente: ha detto la stessa cosa di te. Vieni». Lydia la prese per il braccio. «Ti metto a letto. Da sola».
Fuori si stava alzando il vento e Lydia sentì l’aria fredda mentre spingeva Cicely nell’ascensore. Udì un borbottio e decise di ignorarlo, ma l’amica lo ripeté.
«Cosa?», indagò Lydia, senza aspettarsi sul serio parole più chiare.
«George ha pagato Adil perché ti facesse fermare da Jack. Capisci? Ha pagato perché ritardasse il tuo arrivo a Ipoh».
Lydia decise di considerarla una farneticazione alcolica di Cicely, ma quella notte sognò che le si sbriciolavano i denti. Non appena venivano ricostruiti ricominciavano a sgretolarsi, cedevoli come gesso. Le lasciò la sensazione che il terreno sotto i suoi piedi non fosse più solido.