Qualcosa gli si sparse sulla fronte. Sabbia, forse. Era in spiaggia e si stava svegliando da un sonnellino sotto il sole? Di nuovo! Dovevano stare più attenti. Quelli che prendevano a calci la sabbia. Avrebbe dovuto scegliere un posto migliore. Ma quando era morto in quella caverna non era stato molto a pensare che…
Un momento!
Quando era morto in quella caverna? Ma dov’era?
Gli occhi di Gregor si aprirono di scatto. Sopra di lui, il soffitto dell’ospedale era rischiarato dalla vivida luce delle fiaccole. Il visetto di Boots scivolò nel quadro. Diede un morso a un biscotto, facendogli piovere le briciole sulla faccia. — Ciao, te! — disse.
Qualcosa doveva essere andato storto, decisamente. Era ancora vivo.
Boots diede un altro morso al biscotto e lui chiuse gli occhi per evitare danni. — Hai dormito tanto. Mi sono stancata ad aspettare. — Sembrava un po’ seccata.
— Gli fai cadere addosso le briciole, Boots — sentì sussurrare Lizzie.
Erano vive tutte e due. Ripred le aveva fatte uscire, in qualche modo.
— Gregor? — disse una voce che non aveva mai sperato di risentire. Suo padre si chinò su di lui, il viso spossato, più vecchio. — Come ti senti? Come sta il mio ragazzo?
Suo padre? Cosa ci faceva lì suo padre? Cosa stava succedendo? Perché lui non era morto? Dov’era la luce azzurra? Chi mai era riuscito a trovarlo, in quel posto abbandonato?
— Mi capisci, Gregor? — chiese suo padre. Gregor vide la preoccupazione nei suoi occhi.
— Sì. — La sua voce era arrugginita, quasi non si sentiva. — Ehi, papà. Sei qui.
— Sono sceso appena ho potuto — disse lui. — Sono venuto a riportarvi tutti a casa.
Gregor prese lentamente coscienza del suo corpo. Con grande fatica, riuscì a muovere le dita dei piedi. Perché era così debole? Da quanto tempo era lì? Si sforzò di muovere anche le dita della mano destra, ma lo trovò impossibile. Nel panico, il braccio sinistro gli scattò verso l’alto e un dolore acuto si trasmise dal braccio al petto, oh, cavolo, il petto! Si affrettò ad abbassare il braccio. Il dolore diminuì, ma senza scomparire del tutto. Andava meglio se non si muoveva.
— Allora, ti sei deciso a svegliarti? — Il sorriso di Howard era così pieno di calore che Gregor non poté fare a meno di sorridere anche lui. I muscoli della sua faccia sembravano rigidi e mai usati prima.
— Cos’è successo? — chiese.
— Sei stato tratto in salvo nella Terra Morta da due audaci avventurieri che hanno rischiato tutto per portarti sino ai nostri dottori — rispose Howard. — O per lo meno è così che la raccontano. Alcuni, me compreso, ritengono che si sia trattato non tanto di amore per te quanto di amore per la torta.
— Torta? — ripeté Gregor. E di colpo gli fu tutto chiaro. — Non saranno le lucciole, vero?
— Oh, sì, invece. I nostri vecchi e cari amici Fotofinish e Zap — confermò Howard.
Ecco la spiegazione. La bellissima luce azzurra non veniva da un altro mondo ma dal sedere di Fotofinish. Gregor non poté fare a meno di mettersi a ridere, anche se faceva un male tremendo. Tutta quella storia era così assurda…
— Hanno passato le ultime due settimane a ingozzarsi in una stanza vicino alla cucina. Capirai, non possono assolutamente andarsene finché non sono sicuri che tu ti sia ripreso. E Luxa li asseconda per i suoi motivi personali — continuò Howard. — Allora, Gregor, come ti senti?
— Male — rispose Gregor. — Ho dolori dappertutto.
— Bene. Allora i nervi funzionano. Bevi questo — disse Howard, sollevandogli la testa per aiutarlo a mandare giù una medicina con un po’ d’acqua.
— Non riesco a muovere le dita. — Gregor abbassò lo sguardo alla sua destra, dove sperava ci fosse ancora una mano.
— Sì. Be’… Vedrai che presto funzioneranno anche quelle — replicò l’altro. Con espressione seria, sollevò delicatamente la mano di Gregor, portandola nel suo campo visivo. Stretto tra le sue dita, cementato dal sangue, c’era l’artiglio di Ares. — I luminosi non sono stati in grado di farti allentare la presa. Rosicchiando, Zap è riuscita a staccargli l’artiglio. Noi non abbiamo voluto forzare la tua mano ad aprirsi per paura di spezzare qualche osso. Possiamo metterla a bagno… ma tocca a te lasciar andare il tuo vincolato.
Ares. Gli ultimi, orribili istanti di vita del suo pipistrello ripassarono al rallentatore nella mente di Gregor, che serrò gli occhi con tutta la forza che aveva. Howard gli fece altre domande, ma lui non riuscì a rispondere.
— Nella sua testa, è successo tutto solo pochi minuti fa. Dobbiamo dargli tempo — spiegò Howard ai suoi. — Ha bisogno di riposare.
— Ragazze, voi andate su alla nursery. Vedete di dare una mano a Dulcet con quei cuccioli di topo, va bene? Resto io con vostro fratello — disse il padre.
Gregor sentì la sua stessa voce risuonargli nelle orecchie. “Devo arrivargli più vicino se voglio farlo fuori!” L’ala che si strappava. Il Flagello che li attirava a sé. Le sue fauci che si stringevano sulla gola di Ares. La spada nel cuore. Il petto squarciato. La caduta. La morte. “Non andartene, d’accordo? Non farlo, Ares.” Steso nel sangue. Inzuppato di sangue. Morente. Morente.
Poco a poco, l’oscurità tornò ad avvolgerlo. Ma da quel buio sentì giungergli la voce di suo padre. — Andrà tutto bene, Gregor. Adesso non ci credi. Non lo ritieni possibile. Ma un giorno andrà tutto bene, te lo prometto.
Quando si svegliò di nuovo, Mareth era seduto sulla sedia accanto al letto. Suo padre dormiva su una brandina da campo. Due infermiere misero dei cuscini dietro la schiena di Gregor per sollevarlo un po’ e gli portarono del brodo. Mareth si offrì di farlo mangiare. Le infermiere accettarono e corsero via.
— Il personale dell’ospedale lavora ancora ventiquattro ore su ventiquattro — disse Mareth. — Forza, hai bisogno di buttare giù qualcosa. — Il soldato cominciò a imboccarlo e lo aggiornò sulle ultime due settimane. Nel momento stesso in cui le lucciole avevano portato alla Piana di Tartarus la notizia della fine del Flagello – insieme al corpo di Gregor, privo di sensi – le forze rodenti erano andate in pezzi ed erano state sconfitte senza problemi dagli umani e dai loro alleati. I ratti erano già psicologicamente a terra, perché ormai avevano capito che il Codice dell’Artiglio doveva essere stato decifrato. E il loro morale aveva subìto un altro duro colpo nel trovarsi di fronte le armate di Lapblood. La morte del Flagello era stata solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. A breve, nell’arena ci sarebbe stata la resa ufficiale. E lì si sarebbero accordati sulle condizioni.
Quanto alle persone cui voleva bene, Vikus si stava riprendendo ma aveva perso l’uso di gran parte del lato destro del corpo. Proprio come aveva predetto Ripred, tutti si stavano rivolgendo a Luxa per avere una guida. Anche lo zio di Luxa, York, sarebbe venuto dalla Fonte per la resa. E avrebbe portato con sé la madre di Gregor.
— Allora sta meglio? — chiese lui.
— Sì. Ma è ancora molto debole — rispose Mareth. — La tua famiglia dovrà fare parecchia convalescenza.
— Chi altri abbiamo perduto? — chiese ancora Gregor.
— Molti compagni — replicò Mareth. — Ma forse è meglio pensare a quelli che sono ancora vivi. I tuoi. Luxa. Hazard. Aurora. Nike. Howard. Nerissa. Vikus. L’intera squadra dei decifratori.
— E Ripred — aggiunse Gregor. — Ho tante cose da raccontargli.
Mareth mescolò il brodo, evitando il suo sguardo. — No, Gregor, lui non ce l’ha fatta.
— Cosa? Ma sono usciti tutti da quella grotta! — esclamò Gregor.
— Era una galleria, in realtà. Una galleria corta tra la Piana di Tartarus e un’altra caverna al di là delle pareti. I ratti hanno attaccato da entrambi i lati. Ripred è riuscito ad aprire un varco sul fondo, permettendo a Nike di scappare con le tue sorelle, Hazard, Temp, Heronian e Reflex. Ma è stato sopraffatto dagli avversari, che hanno gettato il suo corpo nell’abisso sottostante. Appena ricevuta la notizia, abbiamo inviato una squadra di soccorso. Quando i soldati sono arrivati, era già stato divorato da sciami di acari carnivori che avevano fatto il nido là. Conosci il genere. Li abbiamo incontrati sulla Distesa d’Acqua.
— Gli acari che hanno ucciso Pandora — disse Gregor.
— Proprio quelli — confermò Mareth.
— Allora non avete mai trovato Ripred, in realtà — si intestardì Gregor.
— Abbiamo trovato scheletri di ratti. Tre, per l’esattezza. Uno era di un grosso maschio che evidentemente era sopravvissuto alla caduta e si era trascinato per una ventina di metri prima che gli insetti avessero la meglio — spiegò Mareth. — La squadra di soccorso ha visto solo questo, perché è stata costretta a scappare. Ma chiediti una cosa: chi, a parte Ripred, sarebbe mai riuscito in un’impresa del genere?
— Nessuno — rispose Gregor in tono sommesso. Eppure non gli sembrava vero. Che Ripred fosse morto. Ripred non poteva morire. Lui era invincibile. Era una furia. Poi gli tornarono in mente le sue parole: “Persino una furia può trovarsi in inferiorità numerica, Gregor. Io comincio a stancarmi un po’ quando siamo circa quattrocento contro uno”. Dovevano esserci più di quattrocento acari, in quel nido. Dovevano essercene migliaia e migliaia.
— Oltre a questo, non sappiamo niente di lui. Con il ruolo determinante che ha svolto in questa guerra, è difficile credere che se ne resti in silenzio proprio adesso, a ostilità concluse — disse Mareth.
— Sì — ammise Gregor. Con sua grande sorpresa, la perdita di Ripred lo faceva sentire distrutto come quella di Ares. Almeno il suo vincolato sapeva ciò che provava per lui. Ma verso Ripred, Gregor non aveva mai dimostrato alcuna gratitudine. Non lo aveva mai ringraziato sul serio. Mai, nemmeno una volta, gli aveva detto quanto lo ammirasse. Quanto gli volesse bene, persino. Non era il genere di cose di cui parlavano.
— Non mi aspettavo… di dover affrontare questa notizia. Fino a quell’ultimo mattino, ero sicuro che sarei morto. Poi Ripred… — Si fermò. Non doveva rivelare che Ripred non credeva alle profezie di Sandwich. Ma aveva qualche importanza, ora che il ratto era morto? Magari Ripred avrebbe voluto che tutti sapessero come la pensava. E ormai la sua opinione era dimostrata, perché aveva avuto ragione e Gregor era sopravvissuto alla guerra. Ma a chi poteva dirlo? A Luxa? A Vikus? Adesso era troppo debole per discuterne. — Ripred mi ha fatto un discorsetto di incoraggiamento. Mi ha detto che potevo sconfiggere il Flagello.
— E l’hai sconfitto — disse Mareth.
— Non da solo — replicò Gregor. La sua mano destra si contrasse sull’artiglio di Ares, non voleva lasciarlo andare. Ma doveva. Ares non sarebbe tornato. Tenere stretto il suo artiglio non l’avrebbe riportato indietro. Ed era giusto che venisse sepolto con lui. — Howard ha detto che potrei mettere a bagno la mano.
— Sì, ti ha lasciato una bacinella — confermò Mareth. Gliela mise a lato e gli guidò la mano nell’acqua.
— Non sei obbligato a restare, Mareth — disse Gregor. — So che adesso hanno bisogno di molto aiuto. Io sto bene.
Mareth parve capire che Gregor non desiderava compagnia in quel momento. — Passo a trovarti presto — disse, e se ne andò.
L’acqua era calda e rassicurante. Lentamente, Gregor allentò la sua stretta. Il sangue che lo incollava all’artiglio si dissolse. Mosse le dita irrigidite una a una e le distese. L’artiglio si staccò dalla sua mano, galleggiandole accanto nella bacinella.
Chissà come, Luxa apparve vicino a lui con un asciugamano. Prese l’artiglio dall’acqua con aria grave e lo pulì dal sangue residuo. Quando ebbe finito, lo avvolse in una pezza bianca e lo posò sul tavolo accanto a lui. Poi sedette sul lato del letto, sollevò la mano di Gregor e la asciugò con cura. — Non sembra ferita. Tu come la senti? — chiese.
— Vuota — rispose Gregor. Luxa intrecciò le dita alle sue. La sua pelle era calda come l’acqua, ma viva. — Ora va meglio.
Avevano forse un milione di cose da dirsi, ma si limitarono a starsene così per ore, senza parlare, finché il padre di Gregor non si svegliò di soprassalto per un incubo, e Gregor dovette rassicurarlo dicendo che sarebbe andato tutto bene. “Se continuiamo a ripetercelo, magari un giorno sarà vero” pensò.
Nei giorni seguenti, Gregor non poté fare molto più che dormire e lasciarsi imboccare. Era così debole che fu una conquista quando arrivò a mettersi seduto da solo, e un piccolo miracolo quando riuscì ad attraversare la stanza. Fu solo nel momento in cui fece il primo bagno che si rese davvero conto delle sue condizioni. Era pelle e ossa, traballante e ammaccato. La ferita al petto era orribile. Gli avevano ricucito meticolosamente gli squarci lasciati da ogni singolo artiglio. Quando fosse guarito, Gregor avrebbe avuto cinque cicatrici per ricordargli l’ultimo assalto del Flagello. Come l’avrebbe spiegato, nel Sopramondo?
Suo padre continuava a parlare della loro nuova vita in superficie. E Gregor non sapeva come fare a dirgli che non voleva trasferirsi nella fattoria di famiglia in Virginia, non voleva nemmeno tornare a New York. Che il ragazzo precipitato dal condotto dell’aria in un caldo giorno d’estate era scomparso, sostituito da qualcuno che non avrebbe mai trovato una patria da nessuna parte. Ma suo padre non la smetteva di blaterare, diceva che avrebbero piantato dei pomodori in più per averne in abbondanza da friggere ancora verdi, che sarebbero andati a pesca, e che Gregor avrebbe potuto entrare di nuovo nella banda della scuola.
La banda della scuola? Gli ci volle un momento per ricordare addirittura che strumento suonasse. “Il sassofono. E correvo, anche. Mi piaceva l’ora di scienze. O almeno piaceva a lui. A quell’altro ragazzo in quell’altra vita” pensò Gregor.
E le sue sorelle? Boots sarebbe stata benone. Aveva solo tre anni. Alla fine, avrebbe smesso di parlare in brulicante e forse avrebbe dimenticato tutto, il che da una parte era triste e dall’altra una benedizione. Ma Lizzie… Lizzie non avrebbe dimenticato proprio niente. Avrebbe continuato a rimuginare su quello che era successo. Parlava appena, da quando era finita la guerra. Non faceva altro che starsene seduta in poltrona, con le gambe raccolte sotto di sé, il visetto magro e triste. Per metà del tempo, non sentiva neppure chi le rivolgeva la parola. La morte di Ripred l’aveva colpita nel profondo.
Una notte, mentre il padre e Boots dormivano, Gregor glielo chiese. Perché Ripred avesse portato la squadra dei decifratori così vicino al campo di battaglia.
— Per me. Lui non l’ha detto, ma sapevo che voleva tenermi d’occhio. Proteggermi come non… — Lizzie si interruppe.
— Come non era riuscito a proteggere Silksharp — terminò Gregor al posto suo.
— Come fai a sapere di lei? — chiese Lizzie.
— Vi ho sentiti parlare una notte — spiegò Gregor.
— È stata colpa mia se è morto, Gregor — gli confidò Lizzie. — Se non ci fossi stata io, lui sarebbe ancora vivo.
Niente di quanto le disse il fratello riuscì a convincerla del contrario.
“Giusto, trasferiamoci pure in Virginia a piantare pomodori” pensò Gregor. “Quello sistemerà tutto.” Ma non poteva dire una cosa del genere a suo padre.
Alla fine della settimana, Gregor era in grado di fare qualche passeggiata per l’ospedale. Luxa trascorreva con lui più tempo che poteva, ma le sue nuove responsabilità cominciavano già a sopraffarla. Con Solovet e i membri del consiglio morti e Vikus che tentava di imparare a nutrirsi con la mano sinistra, tutti si rivolgevano a lei per avere risposte. Più di un terzo della popolazione umana era stato massacrato, Regalia era un ammasso di rovine, e l’intera comunità dei piluccatori era senza casa. In pubblico, Luxa si mostrava ferma e forte, ma a volte, quando era sola con Gregor, nascondeva il viso tra le mani e ripeteva senza tregua — Non so cosa fare. — Lui la abbracciava e la teneva stretta, ma non aveva idea di cosa dirle. Nella sua mente, Gregor sapeva come uccidere, non come ridare vita.
Almeno Luxa aveva una solida rete di sostegno: Aurora, Mareth, Perdita, Howard, Hazard, Nerissa, Nike e parecchi topi la aiutavano in tutti i modi possibili. York la consigliava scrivendole dalla Fonte. E Gregor non riusciva a trattenere un sorriso quando la vedeva immersa in profonde discussioni con Temp. Ma in definitiva, tutte le decisioni ricadevano sulle sue spalle.
A incombere su di lei c’era il giorno della resa. Anche se le forze del Flagello avevano gettato la spugna non appena saputo che il ratto bianco era morto, quell’incontro rappresentava il riconoscimento ufficiale della loro disfatta. Ma cosa si doveva fare con Lapblood e i ratti che alla fine si erano schierati con gli umani? Accomunarli ai rodenti nemici? Non sarebbe stato giusto, ma – come sottolineava qualcuno – i soldati di Lapblood non avevano combattuto per salvare gli umani, avevano combattuto per salvare se stessi dal Flagello. E poi, l’odio tra le due specie era tale, ormai, che qualunque cosa era possibile. Tutti sapevano che la resa era soltanto un gesto formale al quale sarebbe subito seguita la domanda: “Cosa succederà, adesso?” E da Luxa, capo di Regalia, si aspettavano di ricevere risposte su chi avrebbe controllato quali territori, come i vivi avrebbero pagato per le azioni dei morti, e se i ratti potevano essere distinti in amici e nemici. Era una faccenda molto complessa.
Una volta, Gregor entrò in una stanza e sorprese Luxa e Nerissa che cercavano di chiarire l’ultima strofa della Profezia del Tempo…
QUANDO IL SANGUE DEL MOSTRO
SARÀ VERSATO,
QUANDO IL GUERRIERO VERRÀ ASSASSINATO,
NON IGNORATE QUEL PICCHIETTARE
NÉ L’INCESSANTE BUSSARE.
SE NON PRESTERETE ATTENZIONE AI RODENTI,
VOI MARCIRETE MENTRE LORO, POTENTI,
LA LEGGE DEI RATTI CON GRANDE PUNTIGLIO
FARANNO DEL CODICE DELL’ARTIGLIO.
… ma quando le due cugine lo videro, si fermarono di colpo. Avrebbe voluto dire loro che non aveva importanza. Possibile che non lo capissero? Gregor non era forse la prova vivente che la profezia si sbagliava? Che Sandwich era un imbroglione? Ma su Sandwich non sapeva proprio come convincerle a cambiare opinione. Avevano vissuto per troppo tempo seguendo le sue parole.
La notte prima della resa, Luxa stava cenando con i Sopramondo nella stanza d’ospedale quando la madre di Gregor fece il suo ingresso. Era magrissima e si reggeva appena sulle gambe, ma entrò e allargò le braccia senza una parola. Corsero tutti da lei e si strinsero in un unico, grande abbraccio. Boots, troppo piccola per arrivare al centro dell’azione, cominciò a strillare — Io! Io! Bacia io! — così suo padre la prese in braccio e tutti la coprirono di baci, col risultato di farla ridacchiare e chiederne altri.
Dopo un momento, Gregor si accorse che Luxa, in piedi da sola vicino alla porta, osservava la famiglia finalmente riunita. Non poté fare a meno di pensare che in passato anche lei aveva avuto tante persone che la amavano, ma nessuna di loro era più lì con lei. Tese una mano per invitarla a raggiungerli, ma Luxa gli fece solo un piccolo sorriso, scosse la testa e scivolò fuori dalla stanza. E per la prima volta da un’eternità, Gregor ricordò perché poteva considerarsi fortunato.
La mattina seguente, Gregor incontrò Luxa prima della resa. Indossava uno stupendo abito lungo e sulla testa aveva una tiara tempestata di pietre preziose. — Wow, così sembri molto più grande. Dimostri almeno tredici anni — disse.
La battuta la fece ridere, anche se Gregor capì che era piuttosto nervosa. Lui era vestito semplicemente, con pantaloni e camicia a tinta unita. E aveva le sue armi. Si sentiva nudo, senza. Quando fosse tornato nel Sopramondo non avrebbe potuto portarle, naturalmente. Il solo pensiero gli faceva venire l’ansia da separazione.
Suo padre e le sue sorelle li avevano già preceduti in volo nell’arena, ma Gregor aveva promesso a Luxa che avrebbe attraversato la città con lei, a piedi. Quando la piattaforma li calò a terra, Gregor vide i regaliani allineati ai lati della strada. Nessuno acclamava Luxa. Ma tutti si inchinavano al suo passaggio. Molti avevano le guance rigate di lacrime. Luxa rispondeva alla folla facendo cenni con la testa, sollevando una mano di tanto in tanto. Parlò solo una volta, quando arrivarono all’incrocio di quattro vie. Si fermò e contemplò le macerie che la circondavano. I ratti, con l’aiuto delle ruspe, avevano raso al suolo gli edifici. La pavimentazione di pietra sotto i loro piedi era macchiata di sangue e segnata dalle bruciature delle fiaccole cadute. Una bambina senza un braccio la fissava con occhi vuoti.
— Guarda la mia città, Gregor — disse Luxa. — Guarda la mia patria.
Quando giunsero alle porte dell’arena, Luxa esitò. Gregor allungò un braccio e le diede una rapida stretta alla mano. Lei fece un respiro profondo ed entrò. Gregor la seguì a qualche passo di distanza. Il posto era affollato di delegazioni delle specie che avevano giocato un ruolo importante nella guerra: brulicanti, tessitori, ruspe, piluccatori, alati, rodenti e umani. Gregor scorse anche Fotofinish e Zap, seduti su una panca. Non li aveva più visti da quando l’avevano soccorso, non gli era neppure venuto in mente di ringraziarli. Avrebbe cercato di ricordarsene dopo la cerimonia.
Anche se avevano lasciato un passaggio libero per loro, era difficile fare un’entrata dignitosa per via del fondo dell’arena, butterato dalle gallerie scavate dalle ruspe. Ma Luxa aggirò i buchi con grazia mentre Gregor li superava a salti dietro di lei. Al centro dell’arena si apriva un cerchio vuoto. Tre ratti erano in attesa lì davanti.
Luxa entrò nel cerchio, e Gregor si fermò ai margini. Aurora scese battendo le ali e si posò anche lei fuori dal cerchio. Nelle vicinanze, Gregor vide suo padre e Lizzie. Mareth, Perdita, York e Howard facevano gruppo, in piedi l’uno accanto all’altro. Persino Nerissa si era data una sistemata per l’occasione. In un altro punto, in mezzo a una folla di scarafaggi, individuò due teste ricciute e capì che anche Boots e Hazard erano lì ad assistere.
Ogni minima conversazione nell’arena cessò mentre Luxa prendeva posto. Se era ancora nervosa, non si vedeva. Si comportava con dignità e la sua voce era chiara e ferma. — Saluti a tutti voi. Ci siamo riuniti qui per segnare la fine di una guerra infelice che ci è costata cara. Sono venuta ad accettare l’atto di resa e a esporre le mie condizioni agli sconfitti. Rodenti, chi parla in vostro nome?
Uno dei ratti fece un passo avanti per rispondere, ma si udì un gran fracasso. Terriccio e piccole pietre cominciarono a volar fuori dall’imbocco di una delle gallerie delle ruspe. Un’ondata di paura increspò l’arena. Erano ancora tutti nervosi per i tanti attacchi subìti. Poi la creatura inzaccherata si aprì lentamente un varco.
Era quasi irriconoscibile. Metà del pelo e buona parte della pelle erano stati divorati, lasciando punti sanguinanti e in suppurazione. Si trascinava dietro una zampa posteriore fuori uso. Il muso aveva un altro sfregio diagonale che si incrociava con la cicatrice già esistente. Ma la sua voce era inconfondibile.
— Io — disse Ripred, trascinandosi dentro il cerchio. — Sono io a parlare in nome dei rodenti.