Era tardi. Le due e un quarto, secondo l’orologio sul cruscotto del taxi. Il conducente era stanco, poco comunicativo e non sembrava chiedersi cosa ci facessero in giro per Central Park a quell’ora.

Quando arrivarono al palazzo dove abitavano, l’ascensore era rotto, così fecero le scale fino al loro appartamento. La madre di Gregor doveva fermarsi ogni due o tre rampe. Alla fine, suo padre diede a lui le chiavi e gli disse di andare avanti con le ragazze. Quando aprì la porta, faticò a credere che la loro casa fosse davvero così piccola e angusta. Lui e Lizzie crollarono sul divano, ma Boots vuotò immediatamente un cesto di animaletti di plastica sul tappeto e li sistemò come per una sfilata. Quando capitò su un piccolo pipistrello nero che aveva ricevuto per l’ultimo Halloween, lo sollevò, tutta contenta. — Guarda! Ares!

A Gregor non venne in mente niente da dire mentre la bambina gli faceva volare il pipistrello intorno alla testa.

I suoi genitori entrarono circa dieci minuti dopo e, anche se non stava in piedi dalla stanchezza, sua madre andò dritta a vedere come stava la nonna. Gregor realizzò che non sapeva niente. Suo padre aveva aspettato che arrivassero a casa prima di darle la notizia. — È il cuore, Grace. La nonna è all’ospedale. Andremo a trovarla domani mattina come prima cosa — disse.

Filarono dritti a letto. Gregor non si prese nemmeno il disturbo di mettersi in pigiama. Si spogliò tenendo solo gli slip del Sottomondo e si trascinò sotto le coperte. Avevano un odore polveroso e familiare. Sentì una sirena passare per strada. La musica di un’autoradio a tutto volume che si allontanava. Lo sciacquone di un bagno. Poco a poco, i vecchi suoni rassicuranti di New York lo fecero addormentare…

La galleria era buia. Le torce elettriche andate da tempo. Gregor poteva contare solo sull’ecolocalizzazione. Andare da quella parte era stata una stupidaggine. Ripred glielo aveva detto, ma lui non gli aveva dato retta. E adesso lo avevano trovato. Mentre correva, sentì i ratti ansimare, così si voltò e tirò un fendente, squarciando parecchi musi e schizzandosi di sangue. Ma poi alla sua spada accadde qualcosa. Si fece gommosa e prese a sciogliersi tra le sue mani. Cercò di rimettersi a correre, ma il terreno gli si sgretolò sotto i piedi e lui cominciò a cadere, cadere, cadere in un pozzo buio. Urlò per chiamare Ares, ma non c’era nessun Ares, e allora vide le rocce aguzze corrergli incontro, sentì il dolore atroce degli spuntoni taglienti che gli trafiggevano il petto!

Gregor balzò a sedere sul letto, il cuore martellante, fradicio di sudore, la mano destra stretta al petto che pulsava. Era stata la sua stessa voce a svegliarlo? Non arrivò nessuno. Nessuno chiamò il suo nome. Le urla dovevano essere rimaste nel suo sogno.

Gli incubi di cadere l’avevano tormentato fin da quando era piccolo, ma si erano interrotti quando aveva avuto Ares al suo fianco. Ora invece erano tornati, affollati di ratti e sangue.

Sulla città stavano spuntando le prime luci del giorno. Era a letto solo da qualche ora. Sapeva che avrebbe dovuto rimettersi a dormire. Ma l’incubo era stato troppo realistico. Si lasciò cadere di nuovo sul cuscino e guardò il sole farsi sempre più luminoso finché non gli bruciarono gli occhi.

Aprì un po’ la finestra e inalò a fondo l’aria che sapeva di gas di scarico. Che giorno era? Che mese era? Non ne aveva la minima idea. Non era più tornato a casa dal giorno del compleanno di Hazard, in piena estate. L’aria era frizzante. Di colpo, ebbe urgente bisogno di sapere quanto tempo fosse passato, per aggrapparsi a una realtà qualsiasi. Il calendario della cucina sarebbe stato inutile, ma poteva accendere la TV… No, avrebbe svegliato tutti… Poteva scendere all’angolo e controllare la data su un giornale. Gettò via le coperte e si irrigidì nel vedere per la prima volta il suo corpo alla luce del sole.

— Oh, caspita! — esclamò. Sapeva di essere uscito piuttosto malconcio dalle sue ultime avventure nel Sottomondo, ma le ferite guarivano. Però non aveva messo nel conto anche l’accumulo di cicatrici che risalivano ai viaggi precedenti. I segni lasciati dalle ventose dei calamari, dai rampicanti, dalle tenaglie, dai denti, dagli artigli. Poi c’erano i tagli che si era fatto alle mani quando aveva spezzato la spada di Sandwich, meno di ventiquattro ore prima. La sua pelle era simile a una mappa su cui si potevano leggere tutte le cose terribili che gli erano successe.

I Sottomondo gli avevano dato un altro po’ di quella pomata che puzzava di pesce. Forse sarebbe stata d’aiuto. Ma alcune di quelle cicatrici… come le cinque impronte di artigli che il Flagello gli aveva lasciato sul petto… non sarebbero andate da nessuna parte. Facevano parte di lui, per sempre. Come poteva spiegarle? Dicendo che aveva avuto un incidente d’auto? Che aveva sfondato una vetrata? Che aveva lottato contro un branco di tigri? Se non poteva spiegarle, doveva nasconderle. E dimenticarsi della spiaggia, dell’ora di ginnastica, e persino di andare dal dottore, a meno che non fosse in punto di morte. Un dottore non avrebbe accettato qualche misera scusa. Avrebbe preteso risposte, e la verità avrebbe spedito Gregor in un reparto psichiatrico.

Gregor indossò dei pantaloni e una camicia a maniche lunghe, tutti e due striminziti. Era cresciuto un bel po’ in… nel tempo che era stato via. Si infilò le calze e le uniche calzature del Sopramondo che aveva a disposizione, un paio di scarpe eleganti comprate per il concerto di primavera. Gli stringevano le dita dei piedi e non c’entravano niente col suo abbigliamento. Avrebbe voluto quelle fantastiche scarpe da ginnastica che gli aveva mandato la signora Cormaci, ma si erano rovinate durante la guerra.

Uscì senza fare rumore, ma mentre superava l’appartamento della signora Cormaci, la porta si aprì. La signora era sempre stata mattiniera. — Bene. Sei ancora tutto intero — disse, guardandolo dalla testa ai piedi con aria critica. — I tuoi pantaloni sono troppo corti. Ti va un po’ di pane fritto?

Gregor la seguì in cucina e si sedette al tavolo mentre lei preparava la colazione e lo aggiornava sulle condizioni della nonna. — Non se la passa molto bene. È in terapia intensiva. Se tua madre pensa di portarla in macchina fino in Virginia, be’, sarà impossibile.

Ammonticchiò le spesse fette di pane fritte nell’uovo sul piatto di Gregor e gli mise davanti un vassoio di pancetta. — Non vedo come potremmo restare — disse lui, versando sciroppo d’acero sul pane. — Forse porterà solo noi ragazzi. — Sarebbe stato orribile dividere la famiglia un’altra volta. Erano appena tornati insieme.

— Forse. Allora, a te come sono andate le cose, signorino? — chiese la signora Cormaci.

Gregor pensò a tutto quello che era successo dall’ultima volta in cui era stato a casa. A tutto quello che aveva visto e fatto. E non trovò parole per descriverlo.

— Il gatto ti ha mangiato la lingua? — chiese la donna. — Va bene così. Non c’è bisogno che ne parli con me o con chiunque altro finché non ne hai voglia. — Intinse un pezzo di pancetta nel suo sciroppo e lo masticò pensierosa. — Sai, il signor Cormaci aveva combattuto in guerra. Neanche lui voleva parlarne. Però io sapevo che aveva vissuto esperienze terribili. Quell’uomo ha fatto brutti sogni fino alla morte.

— Uno ha svegliato me, stamattina — disse Gregor.

— Non sarà l’ultimo — commentò la signora Cormaci. — Vuoi del succo di frutta? — Gliene versò un bicchiere senza aspettare la sua risposta. — È così. Passi tutta l’infanzia a sentirti dire che devi essere gentile con gli altri e che fare del male a qualcuno è un crimine, e poi ti caricano su una nave, ti spediscono in guerra e ti dicono di uccidere. Cosa può fare questo alla tua testa, eh?

— Niente di buono — rispose lui.

— Ma passerà, Gregor — lo rassicurò la signora Cormaci.

— Non lo so. Nel mio sogno, precipitavo e morivo — disse. — Sognavo di precipitare anche prima, ma questa è stata la prima volta che sono andato a sbattere sul fondo.

— Non preoccuparti. Se vai a sbattere sul fondo, qui hai un sacco di gente che ti aiuta a rialzarti — ribatté la signora Cormaci.

“Che mi aiuta a rialzarmi?” pensò Gregor. “Direi più che mi raccoglie con un cucchiaino. Non c’è aiuto che tenga quando colpisci quelle rocce.” E anche volendo, nei suoi sogni Gregor era solo. Lì nessuno poteva aiutarlo.

Mentre lui mangiava, la signora Cormaci scovò un paio di vecchie scarpe da ginnastica che erano appartenute a uno dei suoi figli almeno vent’anni prima. Non erano proprio alla moda, ma gli andavano abbastanza bene e gli stavano meglio delle scarpe eleganti.

— Avrai bisogno di vestiti nuovi per la scuola — osservò.

— È già cominciata? — chiese lui.

— Settimane fa — rispose la donna. — Siamo a metà ottobre.

— Non lo sapevo — replicò Gregor.

Trascorse la mattina a badare alle sorelle mentre i suoi genitori e la signora Cormaci andavano all’ospedale. Mentre Lizzie e Boots facevano colazione, Gregor rimase davanti alla finestra della cucina a osservare i ragazzi del quartiere che uscivano, diretti a scuola. Gli tornarono in mente i suoi amici Larry e Angelina e si chiese cosa pensassero della sua scomparsa. Credevano che si fosse trasferito? Che fosse malato? Una parte di lui avrebbe davvero voluto rivederli, ma un’altra parte non voleva rivederli mai più. Aveva affrontato così tante cose, era cambiato così tanto che l’idea di frequentarli e fingere che tutto fosse di nuovo normale gli sembrava irrealizzabile.

I suoi tornarono verso l’ora di pranzo. La visita alla nonna era stata uno shock per sua madre. Nessuno era in grado di dire quando avrebbe potuto lasciare l’ospedale, e forse anche allora avrebbe dovuto essere messa in una casa di riposo, con assistenza medica a tempo pieno.

— Posso vederla? — chiese Gregor.

— Non ora, figliolo. Quando sarà più forte, magari — rispose suo padre.

— Adesso cosa facciamo? — chiese di nuovo Gregor. — Riguardo alla Virginia?

— Non lo so. Troveremo una soluzione — replicò lui.

— Io non voglio andare in Virginia — disse Lizzie, e tutti la guardarono sorpresi.

— Ma avevi detto di sì, Lizzie — ribatté sua madre. — Sei stata la prima a fare i bagagli quando ne ho parlato.

— Non voglio più andarci. Casa nostra è questa. Non voglio scappare — insisté Lizzie. — Ripred dice che se scappi dalle cose che ti fanno paura, loro ti inseguono.

— E tu, Gregor? — chiese suo padre.

Gregor provò a immaginare di vivere in Virginia. Provò a immaginare di rimanere lì. — Non ha importanza. Dove abitiamo non mi interessa — rispose. Ovunque fosse stato, sarebbe stato orrendo. Prese il giubbotto dal gancio vicino alla porta. — Vado a fare una passeggiata.

Non aveva avuto una meta precisa in mente quando era uscito, ma dopo qualche isolato capì dove voleva andare. Controllò le tasche. Trentacinque dollari. Più che sufficienti. Saltò nella metro e si diresse verso The Cloisters. Doveva vedere il cavaliere di pietra che gli aveva permesso di superare le ultime settimane. Forse quello lo avrebbe aiutato a dare un senso alle cose.

La giornata era fresca e soleggiata. Gli alberi stavano cominciando a cambiare colore. Ma Gregor continuava a pensare a un’altra terra, una terra senza sole e con pochi alberi preziosi alla quale ormai gli sembrava di appartenere. E se avesse detto ai suoi che voleva tornare indietro e vivere nel Sottomondo? Dove non era un personaggio così strano? Dove aveva amici? Dove aveva Luxa? Non lo avrebbero mai lasciato andare. E lui lo voleva davvero? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che si sentiva un estraneo in quella che un tempo era casa sua. E si sentiva molto solo.

La donna al botteghino esitò quando Gregor cercò di comprare un biglietto. Cosa vedeva? Un ragazzo dai vestiti male assortiti che si presentava lì da solo, nel bel mezzo di un giorno di scuola. Con bizzarre fasciature sulle mani. E Gregor non ricordava più l’ultima volta che si era tagliato i capelli. Tentò di spiegare. — Devo scrivere una relazione per la scuola. Dobbiamo parlare degli edifici più belli di New York. Io ho scelto questo. Ha delle informazioni da darmi o qualcosa che potrei guardare? — La donna era ancora diffidente, ma lo lasciò entrare con un paio di opuscoli patinati e l’avvertenza di non toccare niente.

Il luogo era praticamente deserto. Si sentivano dei canti gregoriani, il che era allo stesso tempo inquietante e rasserenante. L’edificio di The Cloisters gli ricordava Regalia, con le sculture di animali strani, gli arazzi, le pareti, i pavimenti e i soffitti di pietra. Gironzolò per un paio di sale prima di ritrovare la tomba. Il cavaliere era proprio come Gregor l’aveva visto l’ultima volta, sdraiato sotto la finestra, le mani posate sulla spada, addormentato per l’eternità. Pensare a lui gli aveva fatto superare alcuni momenti difficili. Quel giorno era arrivato fin lì perché si aspettava di trovare conforto nella figura di pietra. Ma ora si rendeva contro che non gli era più d’aiuto. Aveva trascorso gli ultimi mesi a imparare come morire. Adesso, invece, doveva imparare di nuovo come vivere. E in quello il cavaliere non poteva aiutarlo.

Era tardo pomeriggio quando Gregor tornò a casa e, un attimo dopo aver varcato la porta, sua madre gli piombò addosso. — Dove diavolo sei finito? Sai quanto sei stato via? Eravamo tutti preoccupatissimi!

Cavolo, era sconvolta! Aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto.

— Mi dispiace — disse Gregor. — Sono andato solo a fare una passeggiata.

Suo padre gli posò una mano sulla spalla. — Va tutto bene. Devi solo riabituarti ad avere dei genitori.

— Mi dispiace — ripeté Gregor.

I suoi andarono in camera da letto a parlare. Lizzie e Boots giocavano con gli animaletti di plastica sul pavimento. Gregor accese il televisore e si mise a passare da un canale all’altro. Si fermò sul telegiornale. Una bomba era esplosa in un mercato da qualche parte, uccidendo quarantanove persone. C’erano brandelli di corpi e fumo e parenti che piangevano. Il servizio seguente parlava di profughi che morivano per strada, scacciati dalle loro case da un esercito nemico. Il conduttore del telegiornale stava giusto mostrando il video sgranato di un soldato preso in ostaggio quando la madre di Gregor venne a spegnere il televisore. Aveva un’aria molto triste. — Credo che tu abbia già visto abbastanza.

Quelle immagini gli sembravano molto familiari. I cadaveri, la paura, la disperazione. Cose che erano sempre esistite nel Sopramondo, supponeva, ma fino a ora lui non vi aveva mai prestato attenzione.

— Perché non porti le tue sorelle al parco giochi? — disse suo padre. — Sono state rinchiuse qui tutto il giorno.

— Ci trasferiamo in Virginia o restiamo qui? — chiese Lizzie.

— Ci stiamo ancora riflettendo — rispose l’uomo. — Voi ragazzi uscite a giocare per un po’.

Quando arrivarono al parco giochi, Boots corse subito nel recinto della sabbia a fare castelli con un altro bambino. Lizzie si mise a gironzolare da sola, le mani affondate nelle tasche del giubbotto e gli occhi fissi a terra.

Gregor si sedette su una panchina. Aveva camminato molto, quel giorno, e tutte le sue ferite erano doloranti. Vedere il telegiornale lo aveva fatto pensare. Per il momento era al sicuro, lì al parco giochi, ma in tutto il mondo tantissime persone soffrivano, morivano di fame, fuggivano, si uccidevano nelle loro guerre. Quanta energia mettevano nel farsi del male. E così poca nel proteggersi a vicenda. Sarebbe mai cambiato, quello stato di cose? Cosa ci voleva per farlo cambiare? Pensò alla mano di Luxa premuta contro la zampa di Ripred. Ecco cosa ci voleva. Persone che rifiutassero la guerra. Non una o due, ma tutte. Dichiarando che era un modo inaccettabile di risolvere le loro divergenze. A occhio e croce, la razza umana doveva ancora evolvere un bel po’ prima che accadesse. Forse era impossibile. O forse no. Come diceva Vikus, non succedeva niente se non ci speravi. Se avevi speranza, forse potevi trovare il modo di cambiare le cose. Perché se ci pensavi, c’erano tanti motivi per provarci.

Uno di quei motivi gli tirò una manica e sollevò le braccia. — Fammi una coccola. — Gregor prese Boots sulle ginocchia e la strinse a sé, avvolgendola nel giubbotto. Lei gli posò la testa sulla spalla e studiò il suo viso. — Sei triste — concluse.

— Un po’ — ammise Gregor.

— Loro ti mancano — constatò Boots.

— Sì, è così — disse Gregor. — Ma ho sempre te. — Ricordò tutte le volte in cui aveva pensato di averla perduta e la abbracciò più stretta.

— Tieni. — Boots si frugò in tasca e tirò fuori il piccolo pipistrello di plastica, Ares. Glielo mise in mano. — Puoi averlo tu, Gregor.

— Grazie — rispose lui. Si appoggiarono allo schienale della panchina e rimasero a guardare i lampioni che si accendevano.

D’un tratto, Gregor sorrise. — Ehi, Boots — disse. — Ehi. Finalmente sei riuscita a dire il mio nome.