Gregor emise un grido di rabbia, soffocato dal bavaglio. Riuscì ad alzarsi in piedi e corse alla cieca verso la porta della sua cella, andandovi a sbattere contro. Mossa inutile. Era una spessa lastra di pietra e lui aveva ottenuto solo un’ammaccatura alla spalla. Continuò a urlare per un po’, ma alla fine rinunciò anche a quello. Dall’esterno non proveniva alcun suono. Se c’erano delle guardie, erano mute e indifferenti. Si accasciò contro la porta e cercò di dominarsi. Ma non era facile. La sensazione della furia aveva cominciato a ribollirgli dentro dal momento in cui l’avevano rinchiuso. Senza qualcosa su cui focalizzare quel bizzarro ronzio – tipo combattere contro i ratti – si sentiva fuori controllo. Non riusciva a trattenersi e si accaniva contro la striscia di pelle che gli tratteneva i polsi dietro la schiena, mandava grugniti di esasperazione. Aveva voglia di uccidere qualcuno.

“Calmati” si impose. “Calmati!” Fece qualche respiro profondo mentre cercava di valutare la sua situazione. Ancora una volta, immaginò di sentirsi chiedere da Ripred: “Qual è il tuo piano?” In qualche modo, quel pensiero lo aiutò a concentrarsi.

“Per prima cosa devo liberarmi le mani!” ribatté mentalmente. Non gli avevano preso la spada, quindi poteva esserci un modo. Facendo scorrere un piede lungo la parete, raggiunse un angolo. Girò poco a poco il cinturone fino ad avere la spada dietro di sé. Incastrò la punta dell’arma nell’angolo e tenne ferma l’elsa con la schiena. La lama era molto affilata e, sfregandovi sopra la striscia di pelle, fu in grado di troncarla nel giro di qualche minuto. Poi si tolse il bavaglio e lo gettò via. Adesso poteva gridare sul serio. Ma non si prese la briga di farlo. Sapeva che nessuno sarebbe venuto a salvarlo.

Era buio pesto. Non gli avevano lasciato neanche una candela. La torcia che gli aveva restituito York… dov’era? Persa da qualche parte nel caos dell’ospedale. La porta aderiva così bene alla parete che lungo i bordi non filtrava neppure una lama di luce.

A tentoni, Gregor fece il giro della cella. Era piccola, circa tre metri per tre. Se stava diritto, i suoi capelli sfioravano il soffitto. Non c’era niente, lì dentro. Non una panca su cui sedersi. Niente cibo o acqua. Né un posto per fare pipì. Nemmeno una coperta per scaldarsi, e quello era un bel problema, perché nella cella faceva freddo e lui era bagnato fradicio per aver fatto il bagno ai topi. Si lasciò cadere nell’angolo e nascose le mani nelle maniche della camicia per conservare il calore.

Perché Solovet aveva fatto una cosa del genere? Forse per punirlo della sua fuga nelle Terre Infuocate. Per mostrargli che era lei a comandare e che, se le disubbidiva, poteva gettarlo nelle segrete quando le pareva. Eppure non era proprio così che Gregor leggeva la sua mossa. Se fosse stata davvero lei a comandare, non avrebbe avuto bisogno che Horatio e Marcus lo rapissero di nascosto e lo facessero sparire in quella cella. Era già stato arrestato una volta, quando aveva affidato a Ripred un Flagello ancora cucciolo, invece di ucciderlo. Ma allora c’era stato un arresto ufficiale, pubblico, al quale era seguito un processo.

Gregor aveva l’inquietante sensazione che ora nessuno, a parte Solovet e qualcuno dei suoi soldati, sapesse dove si trovava. Chi altri poteva esserne informato? Chi mai sarebbe venuto in suo soccorso o avrebbe anche solo notato la sua sparizione? Dulcet aveva visto Horatio e Marcus condurlo via, ma loro potevano sempre dire di averlo accompagnato fino all’ospedale prima che scappasse di nuovo. Sempre che Dulcet avesse il tempo di pensarci, occupata com’era nella nursery. Mareth di solito lo teneva d’occhio, ma anche nel suo caso, con il trambusto generale che c’era nel palazzo, sarebbe stato facile pensare che Gregor fosse altrove a occuparsi di qualcos’altro. Persino Boots sarebbe stata troppo impegnata per sentire la mancanza del fratello. Sua madre era malata, suo padre a New York. Luxa e Howard lottavano per sopravvivere. Ares? Ares stava senz’altro spendendo fino all’ultimo briciolo di energia per contribuire al trasporto dei piluccatori dalle Terre Infuocate a Regalia. Un compito come quello poteva richiedere giorni. In pratica, restava solo Vikus. Si sarebbe accorto che Gregor era stato imprigionato? Con l’inizio della guerra, probabilmente lavorava notte e giorno anche lui. E Gregor era sicuro che Solovet non gliene avesse parlato. Erano sposati, ma non sempre si confidavano l’uno con l’altra. L’ordine di sviluppare la pestilenza come arma ne era una prova. Se Solovet aveva nascosto a Vikus una cosa del genere, tacergli di aver rinchiuso Gregor era un’inezia.

Passarono ore. Gregor si rannicchiò in un angolo cercando di stare al caldo. Gli sembrava che i vestiti non si stessero asciugando affatto. Aveva fame ed era sfinito. La mancanza di luce gli pesava. I suoi pensieri corsero alla Profezia del Tempo, alla sua morte, al fatto che era destinato a uccidere il Flagello. Non vedeva proprio come gli sarebbe stato possibile, chiuso lì dentro. Cosa sarebbe successo se non l’avesse fatto? E come procedeva la faccenda del Codice dell’Artiglio? Boots era nella nursery, ma la principessa non avrebbe dovuto occuparsi del Codice, piuttosto? La profezia insisteva sull’importanza di decifrarlo. Rispetto a quello, persino la morte di Gregor e quella del Flagello erano secondarie, almeno per Sandwich.

Alla fine, Gregor piombò in una sorta di torpore nel quale non era del tutto addormentato ma nemmeno del tutto sveglio. E in quello stato, nella sua mente ricominciarono a scorrere le immagini della battaglia che aveva appena combattuto. L’euforia del combattimento era svanita. Ora, nel rivedere la sua spada che squarciava la carne dei ratti e i loro artigli che lo assalivano, si sentiva debole e spaventato. Era come se qualcun altro si fosse impossessato del suo corpo per la durata dello scontro. Ma lì, nelle segrete, quel qualcuno lo aveva abbandonato, lasciando un ragazzino che d’un tratto desiderava solo svegliarsi nel suo letto a New York, con sua madre che gli diceva di sbrigarsi perché era già ora di fare colazione.

Finì per addormentarsi, raggomitolato sul pavimento di pietra. Luxa si insinuò nei suoi sogni, la vide ridere sul suo pipistrello, danzare nell’arena, e poi, quando i sogni si trasformarono in incubi, assistette impotente alla sua lenta agonia in un letto d’ospedale, finché non smise di respirare. Gregor si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore, in tempo per sentire la porta della cella che si richiudeva. Rigido e dolorante, si trascinò a quattro zampe verso quel suono. La sua mano destra atterrò su un piatto che conteneva qualcosa. Stufato? Trovò una piccola pagnotta. Una tazza d’acqua. Niente posate. Affamato, si accovacciò nel buio, riempiendosi la bocca di cibo. Almeno Solovet non aveva in programma di farlo morire di fame. No, lui era la sua preziosa arma. Non stava cercando di ucciderlo, solo di punirlo, di umiliarlo, di spezzarlo, forse. Sollevò il piatto e leccò il sugo rimasto. Avrebbe potuto mangiare dieci volte tanto, ma almeno quella razione placava i crampi allo stomaco.

Non era arrivato nient’altro, solo il cibo su un vassoio. A Gregor scappava proprio, adesso. Non voleva fare pipì per terra, così la fece nella tazza. Poi tornò nel suo angolo e si rannicchiò di nuovo sul pavimento.

L’oscurità continuava a opprimerlo, dandogli un po’ alla testa. Chiuse bene gli occhi e tentò di immaginarsi sdraiato sull’erba di Central Park in una giornata calda. A crogiolarsi al sole, a sentirselo penetrare nella pelle. Magari si sarebbe alzato per andare a comprare un pretzel, uno di quelli ben spalmati di senape. Avrebbe portato Boots a fare un giro in giostra. E allo zoo dei bambini, avrebbero dato da mangiare al maiale che la faceva sempre ridere fino a farle venire il singhiozzo.

Ma era inutile. Inutile. Non poteva uscire da quel buco umido e senza vita solo desiderandolo. E non credeva che sarebbe stato capace di sopportare quella situazione ancora per molto. Aveva bisogno di luce, aveva bisogno di gente, aveva bisogno di sapere cosa stava succedendo! Luxa era viva o no? Isolarlo dal mondo era stata la cattiveria più grande di Solovet. Come aveva potuto? Possibile che nessuno si fosse accorto della sua sparizione? Ormai dovevano essere passate ore, forse giorni. A nessuno importava dove fosse? Di colpo si sentì così turbato che dovette mordersi il labbro per non mettersi a urlare.

E poi accadde una cosa che cambiò tutta la sua percezione del mondo. Tossì. Solo un piccolo colpo di tosse. Ma nell’attimo stesso in cui gli uscì dalla bocca, fu come se un fulmine avesse colpito la cella. Ci vedeva! D’accordo, forse “vederci” non era del tutto esatto, perché la sua prigione continuava a essere immersa nell’oscurità. Ma sapeva con assoluta certezza quanto era vicina la parete di fronte a lui. Gli sembrava quasi di averne una fotografia in testa. Uscito di colpo dalla sua disperazione, Gregor si mise seduto e tossì un’altra volta. Ecco il vassoio, il piatto e la tazza. In qualche punto del cervello, riusciva a registrare la forma di ogni oggetto sul pavimento, come in controluce. Ma c’era dell’altro. La tazza emanava un lieve alone rosso che suggeriva calore. Perché? Si precipitò lì e mise le dita intorno al recipiente. Era ancora caldo di pipì.

Ci era arrivato, finalmente. Alla cosa che Ripred si era tanto ostinato a insegnargli e Gregor era stato tanto incapace di imparare. L’ecolocalizzazione. Tutte quelle ore passate a far schioccare la lingua nella grotta buia, cercando di individuare il ratto e fallendo miseramente, non erano state uno spreco di tempo. Aveva un radar! Proprio come un pipistrello! Dispose i pochi oggetti che aveva in giro per la cella e schioccò la lingua e tossì nella loro direzione. Non era stato solo un caso, non aveva temporaneamente perso la ragione. Li “vedeva” tutti, persino la foto di Luxa che prima teneva nel taschino della camicia. Be’, non proprio l’immagine, solo il sottile quadratino di carta. Ma quello sarebbe venuto col tempo, forse.

La scoperta del suo nuovo talento lo tenne abbastanza occupato da impedirgli di dare i numeri. Di crollare e mettersi a implorare le guardie perché lo facessero uscire. Sapeva di non poterlo fare. Lasciare che Solovet vincesse. Doveva uscire di prigione indifferente ai suoi condizionamenti come quando vi era entrato, o sarebbe diventato solo una pedina sulla scacchiera di quella guerra orribile. E avrebbe davvero preferito la morte a un destino del genere. Se avesse permesso a quella donna di controllarlo, dentro di lui non sarebbe rimasto più niente.

Invece di rimuginare, si dedicò a combinare il lavoro di spada con l’ecolocalizzazione. In modalità furia era ancora meglio! Le lievissime sensazioni che provava nell’esercitarsi con la spada acuivano le sue capacità di ecolocalizzazione. Il muro era lì! Il piatto era lì! La porta era lì! La punta della sua lama li toccò tutti, uno a uno. Non vedeva l’ora di raccontarlo a Ripred!

Dopo un allenamento più che decoroso, si appoggiò alla parete. I vestiti erano asciutti, finalmente. Non aveva più freddo. La sua mente era elettrizzata dall’ecolocalizzazione. Cominciò a studiare un piano per evadere di prigione. Qualcuno avrebbe dovuto aprire di nuovo la porta per dargli da mangiare. E, quando fosse successo, lui sarebbe stato pronto. Avrebbe sopraffatto le guardie e si sarebbe aperto la strada combattendo, fino a raggiungere Vikus o Ripred o Ares o chiunque avesse preso le sue parti. Sarebbe uscito di lì e avrebbe fatto sapere a tutti quello che gli aveva fatto Solovet. Avrebbe… ehi, e quello cos’era?

Gregor si appiattì contro il muro, a poca distanza dal punto in cui si apriva la porta. Da quella posizione riteneva che avrebbe avuto un paio di secondi per attaccare le guardie e scappare. Ma qualcosa lo lasciava perplesso. Sentiva delle voci, all’esterno. Una profonda, forse di Horatio o di Marcus. Ma la seconda era leggera, acuta, femminile. La persona a cui apparteneva stava discutendo con le guardie, anche se lui non riusciva ad afferrare le parole. Chi poteva essere? Non Luxa, e nemmeno la madre di Gregor. Le loro condizioni di salute non gliel’avrebbero permesso. Che Dulcet avesse seguito le sue tracce fino alle segrete? O Perdita fosse arrivata a cercarlo, dopo che avevano combattuto fianco a fianco nelle Terre Infuocate?

La chiave girò nella serratura e la porta si aprì. La luce delle fiaccole invase la cella, facendogli bruciare gli occhi. Da fuori venne una voce tremula. — Gregor, sono solo io. Rinfodera la tua spada.

Era Nerissa. Cugina di Luxa e di stirpe reale. Gregor non aveva bisogno di chiederle come avesse scoperto che si trovava nelle segrete, come sapesse che lui era lì, con la spada sguainata, pronto ad assalire le guardie. Lei percepiva cose che nessun altro era in grado di percepire. Le apparivano visioni di eventi passati, presenti e futuri. Doveva averlo visto lì ed essersi accorta che aveva bisogno di aiuto.

Sapeva che Nerissa gli era amica, ma non gli piaceva molto l’idea di mettere via la spada con le guardie là fuori. — Sto benissimo così — disse, senza muoversi.

Nerissa entrò nella cella e si sostenne allo stipite della porta. Era magra e fragile come sempre, china sotto gli strati di indumenti pesanti e male assortiti che portava per tenersi calda. I suoi lunghi capelli erano stati raccolti in una treccia approssimativa che, per gli standard di Nerissa, equivaleva a una pettinatura sofisticata. — Abbiamo bisogno di te in Sala Decifrazione. — Era la prima volta che Gregor sentiva parlare di un posto del genere. Ma doveva essere comunque un miglioramento, rispetto alla prigione. — Solovet mi vuole lì? — chiese.

— Lo vorrà. Dopo che le avrò parlato — rispose Nerissa. — Ma prima devi venire con me a incontrarla. E devi lasciare che Horatio e Marcus ti leghino le mani, visto che si assumono il rischio di trasferirti. Lo fanno solo perché ho spiegato loro la crisi che abbiamo davanti. Decifrare il Codice è la nostra priorità, e le cose non vanno bene. Ti prego, fidati di me, Gregor.

Anche se Gregor si fidava ciecamente di lei, Nerissa ci mise un po’ a convincerlo a rinfoderare la spada e permettere alle guardie di legargli le mani dietro la schiena. Odiava essere di nuovo così vulnerabile. Ma era meglio poter uscire dalla cella senza doversi battere contro i suoi secondini, perché un gesto come quello lo avrebbe trasformato all’istante in un fuggitivo e gli avrebbe reso ancora più arduo muoversi liberamente. Ciononostante, rimase incerto finché Nerissa non gli disse: — Luxa ha più volte chiesto di te.

— Davvero? È viva, allora? Cioè, sì, naturale che sia viva se chiede di me, ma è sveglia e sta bene? — esplose. La notizia gli faceva girare la testa al punto che non riusciva a pensare in modo coerente.

— Sì, comincia a riprendersi. E desidera vederti — rispose Nerissa. — Ma organizzare un incontro mi sarà difficile, con te in prigione.

Fu allora che Gregor rimise la spada nel fodero e permise a Horatio di legargli la striscia di pelle intorno ai polsi. Poi, affiancato dalle guardie, seguì Nerissa fino al palazzo. Luxa era viva! Ce l’aveva fatta! Si ritrovò a sorridere, raggiante di felicità.

Mentre risalivano dalle profondità del palazzo, l’atmosfera che si respirava nei corridoi lo riportò con i piedi per terra. Tutti quelli che passavano, avevano la preoccupazione dipinta in viso. Parlavano in fretta, con voci sommesse. Di tanto in tanto sentiva qualcuno piangere. Ricordò i corpi dei Sottomondo che si accumulavano intorno a lui davanti all’imbocco della galleria, nelle Terre Infuocate. Non tutti avevano avuto la stessa fortuna di Luxa. Quando arrivarono alla Sala del Consiglio, il suo sorriso era sparito da un pezzo.

“Meglio così” pensò Gregor. Non aveva intenzione di mostrare alcuna emozione davanti a Solovet. Né rabbia, né paura, e di certo non felicità. Mentre entrava per incontrarla, assunse la stessa espressione impassibile del cavaliere di pietra.

La Sala del Consiglio era stata trasformata in una specie di centro di comando delle operazioni di guerra. Una decina di Sottomondo dallo sguardo stanco si affaccendavano in giro, prendevano appunti, consegnavano messaggi, bevevano tazze di tè. Erano presenti anche due o tre pipistrelli. Un gran numero di rotoli di pergamena era sparpagliato sul tavolo. Piatti di cibo ricoprivano un altro lungo tavolo posto su un lato della stanza, segno che lì si lavorava giorno e notte. La gigantesca mappa del Sottomondo, che Gregor aveva visto una sola volta mentre preparavano la spedizione nella giungla, era appesa alla parete. Gruppi di spilli di colori diversi erano disposti qua e là. Non ci voleva un genio militare per capire che rappresentavano delle truppe.

Ripred, lavato e fasciato, si era messo vicino al buffet. A giudicare dallo spiegamento di piatti vuoti che lo circondava, doveva essersi davvero rimpinzato. In quel momento stava tuffando il muso in una ciotola piena dei suoi prediletti gamberetti con la panna. Oltre al ratto, le uniche persone che Gregor riconosceva erano Solovet e Mareth, occupati a discutere di un gruppo di spilli rossi sulla mappa.

Quando Nerissa, Gregor e le sue guardie fecero il loro ingresso, sulla sala calò il silenzio. Solovet diede una sola occhiata ai nuovi arrivati e disse con calma: — Uscite tutti, tranne Mareth e Ripred. — Nel giro di un minuto, gli altri sgombrarono il campo. — Cosa significa? — chiese la donna.

Nerissa non diede alle guardie il tempo di rispondere. — Abbiamo bisogno di Gregor in Sala Decifrazione. Mi sono presa la responsabilità di farlo rilasciare e adesso chiedo il permesso di servirci di lui.

— E come sapevi dove trovarlo? — indagò Solovet. — No, non importa. Immagino che tu l’abbia visto in un sogno. Cos’altro vede, la nostra piccola profetessa?

— Ho visto solo Gregor chiuso nelle segrete — replicò tranquilla Nerissa.

Dall’espressione sbalordita di Mareth, Gregor capì che il soldato non aveva la minima idea della sua situazione. E per un attimo Ripred smise persino di mangiare.

— No, dimmi che non l’hai fatto — disse il ratto, con la panna che gli gocciolava dal muso.

— È stato solo per un paio di giorni — ribatté Solovet con una leggera alzata di spalle. — L’avrei fatto arrestare prima, ma ho ritenuto più prudente aspettare che Vikus partisse per reclutare i tessitori. Quale urgenza potrà mai esserci di averlo in Sala Decifrazione, Nerissa? — Fece rotolare uno spillo rosso tra le dita, in apparenza impaziente di tornare alla sua mappa.

— Si tratta di Boots. Pensiamo che potrebbe esserci più utile se ci fosse anche Gregor a tenerla sotto controllo — rispose Nerissa.

Solovet lanciò un’occhiata al viso di Gregor e scosse la testa.

— Be’, dovrete fare a meno di lui. Non posso rischiare che disubbidisca un’altra volta agli ordini e fugga chissà dove — disse. — Riportatelo in cella.

— Lui non è fuggito chissà dove. È tornato indietro a combattere — obiettò Ripred. — E meno male che l’ha fatto. Davvero, Solovet, non capisco come questo possa incoraggiarlo a esserti in qualsiasi modo fedele.

— È rimasto al buio, senza cure mediche, senza un letto. E ha ricevuto ben poco da mangiare — rincarò Nerissa.

— Oh, magnifico — commentò Ripred. — Alieniamoci del tutto anche le simpatie del guerriero.

— Benissimo, concedetegli una fiaccola e una coperta — disse Solovet.

— Me ne incarico io — intervenne Mareth. — Non lascerà Regalia.

— No, tu mi servi qui. E se ha messo nel sacco Horatio e Marcus, nessuno mi garantisce che riesca a trattenerlo tu — replicò Solovet.

— Quello che lo trattiene è già a Regalia, Solovet — sospirò Ripred.

— Sua madre e sua sorella non gli hanno impedito di andarsene già una volta — obiettò Solovet.

— Non parlo di loro. Parlo di tua nipote. Perché credi che avesse tanta fretta di tornare alla Terre Infuocate? Per me? — disse Ripred.

— Luxa? Cosa c’entra lei? — si meravigliò Solovet. Per la prima volta, sembrava davvero interessata alla conversazione.

Gregor non riuscì a trattenersi. — Chiudi il becco, Ripred.

— Visto come protesta? Oh, è innamorato cotto. L’ho sentito a naso nelle Terre Infuocate, mentre litigavano — osservò Ripred con noncuranza.

Gregor ricordava quella lite. Era scattato contro Luxa perché trattava male Ripred e comandava tutti a bacchetta. La fine della scenata l’aveva lasciato molto smarrito. Era stato allora che aveva sentito distintamente Ripred tirare su col naso. Quindi i ratti erano in grado di percepire anche l’odore dell’amore, oltre a quello della paura.

— Per poco non si è fatto ammazzare quando gli ho detto che era ammalata — proseguì il ratto. — Oh, insomma, Solovet, ripensa a mezzo secolo fa. Ricordi cosa si prova, no?

— Lui è innamorato di Luxa? — chiese la donna con aria divertita. — È così, Gregor? È per questo che hai disubbidito al mio ordine?

Gregor non replicò. Era rosso come un pomodoro.

— Se così fosse, sarei molto più propensa a lasciarti libero, perché in effetti non credo che Luxa organizzerà altre gite, nell’immediato futuro — continuò Solovet. — Ma mi piacerebbe sentirlo da te.

Gregor fissava il pavimento, pensando a quello che avrebbe fatto a Ripred se mai ne avesse avuto la possibilità.

— No? Allora forse la prigione è il posto più sicuro per te — concluse Solovet.

Le guardie lo avevano appena afferrato per portarlo via quando Mareth esclamò: — Controlla nel taschino della sua camicia!

Gregor gli scoccò un’occhiata incredula. Quello era molto peggio del tradimento di Ripred. Con le mani legate dietro la schiena, non poté fare altro che stare a guardare mentre Solovet si avvicinava e gli toglieva la foto dal taschino. La studiò attentamente per un istante, poi si mise a ridere e la sollevò per mostrarla a Ripred.

— Cosa ti avevo detto? — commentò il ratto, e con una zampa si riempì di gamberetti quella stupida bocca.

Gregor capì che in quella foto c’era tutto. Tutte le prove possibili dei suoi sentimenti per Luxa, catturati in una sola immagine. Era stato un idiota a portarsela dietro. Ma come avrebbe potuto prevedere quel momento?

— Questo mi semplifica enormemente il lavoro. — Solovet rimise la foto dov’era, diede un colpetto al taschino e rivolse un sorriso a Gregor. — Non preoccuparti, il tuo segreto è al sicuro con me. — Fece un cenno alle guardie. — Slegatelo, è libero di andare.