Mareth si alzò per bloccargli la strada. — Aspetta, Gregor. Non è così semplice, adesso. Siamo in guerra.
— Già, è proprio di quello che sto parlando — ribatté Gregor. Armeggiò con le dita nell’ansia di allacciarsi il cinturone. — Ares è ancora in ospedale? — Sapeva che il suo vincolato sarebbe stato impaziente di raggiungere i loro amici quanto lui.— Sì, si trova lungo questo corridoio. Ma ascolta un secondo… — iniziò Mareth.
— Fantastico. Allora possiamo partire — disse Gregor. Si avviò alla porta, ma si ritrovò sollevato in aria e spinto di nuovo contro il letto. Mareth poteva anche aver perso una gamba, ma era ancora in grado di far volare Gregor come un fuscello.
— Stammi a sentire! — esclamò. — In tempo di guerra, tu sei un soldato. Forse il più prezioso che abbiamo. Non puoi andartene quando ne hai voglia. Dovrai ubbidire agli ordini.
— Gli ordini di chi? — chiese Gregor.
— Di Solovet.
— Di Solovet? — ripeté Gregor, sinceramente sbalordito. Per quanto ne sapeva, Solovet non era più nella posizione di dare ordini a nessuno. — Credevo che fosse rinchiusa nelle sue stanze, in attesa di essere processata per aver provocato l’epidemia.
— Il processo è stato sospeso quando si è saputo che Luxa aveva dichiarato guerra — spiegò Mareth.
— Ma… perché? Non c’entra con quello che ha fatto Solovet — obiettò Gregor. — Ha comunque ordinato ai dottori di trasformare la peste in un’arma. Ha comunque ucciso tutti quegli umani e quei pipistrelli. Ha quasi ucciso mia madre.
— Per errore. Il suo piano era uccidere i ratti — replicò Mareth. — Ora che siamo in guerra con loro, una persona che pensa quasi esclusivamente a sterminarli può avere un grande valore. Quindi il Consiglio l’ha reintegrata nelle sue funzioni di comandante dell’esercito regaliano.
— Comandante dell’es… impossibile! — esclamò Gregor. Credeva che l’avessero messa a capo del suo squadrone o qualcosa del genere. E invece era di nuovo al comando di tutto? — Ma non potevano trovare qualcun altro?
— Non c’è umano che i ratti temano di più, a parte te — ammise Mareth. — In guerra Solovet è tanto scaltra quanto spietata. Avranno pensato che per sopravvivere ci servisse lei.
— Ma… ora quel processo non si terrà più! — commentò Gregor, amareggiato. Proprio così. L’infuriare della guerra avrebbe cancellato ogni cosa. L’odio nei confronti dei ratti sarebbe aumentato e gli umani avrebbero pensato che Solovet avesse avuto una buona idea quando aveva pensato di trasformare i germi della peste in un’arma. Nonostante la strage che aveva fatto del suo stesso popolo, l’avrebbero considerata un’eroina, non una criminale. Gregor pensò a sua madre che respirava a fatica da qualche parte nell’ospedale. Alle cicatrici violacee che il pelo di Ares ancora non copriva del tutto. A tutti gli umani e i pipistrelli che erano morti. — Non è giusto, Mareth — disse. — È giusto, secondo te?
Mareth sospirò e distolse lo sguardo. Lasciò andare Gregor e fece un goffo passo indietro. — La mia opinione personale non ha importanza. Adesso chi comanda è Solovet.
— Ma non comanda me — ribatté Gregor. Di una cosa era sicuro. Non sarebbe morto alle condizioni di Solovet. L’avrebbe fatto alle sue.
— Sta’ attento a chi ti rivolgi quando parli così, Gregor — disse Mareth sottovoce. — Non tutti sono tuoi amici, qui. — E su quelle parole, il soldato uscì zoppicando dalla stanza.
Gregor fece qualche respiro profondo per controllarsi, poi si slacciò il cinturone e rimise la spada nell’angolo. Raccolse il budino che aveva fatto cadere sul pavimento e risistemò il vassoio con cura. Tornò a letto come un paziente modello e, una volta sdraiato, si mise a riflettere sulla situazione.
Mareth aveva ragione. Non tutti i regaliani erano suoi amici. Molti di loro sarebbero stati più che contenti di spiarlo per conto di Solovet. Gregor non sapeva quali progetti avesse la donna su di lui, ma era improbabile che fosse disposta a permettergli di saltare in groppa ad Ares per volare dritto alle Terre Infuocate. Più probabilmente, lo considerava già parte di un suo piano generale. I desideri di Gregor non avrebbero avuto alcuna importanza. Per Solovet, lui sarebbe stato un’arma da usare a suo piacimento. Se voleva tornare alle Terre Infuocate, doveva farlo in segreto. E con estrema prudenza.
Sentì risuonare nella testa la voce di Ripred: — Qual è il tuo piano? — Il ratto cercava di togliergli l’abitudine di farsi prendere dalla rabbia e passare all’azione senza pensare alle conseguenze. — Qual è il tuo piano?
“Prima di tutto, non devo lasciar capire che voglio tornare là” pensò Gregor. Era abbastanza sicuro che Mareth non l’avrebbe detto a nessuno. Ma non poteva contare sulla lealtà degli altri. Il suo primo impulso era stato precipitarsi dritto da Ares, ma sarebbe parso strano. Se non si fosse fissato con l’idea di tornare alle Terre Infuocate, se avesse avuto intenzione di restare a Regalia da bravo soldatino, non avrebbe chiesto di vedere sua madre, come prima cosa? Si sentì arrossire per la vergogna. Non avrebbe comunque dovuto chiedere di vedere sua madre, come prima cosa? Sì. Solo che, se fosse stata abbastanza in forze da incontrarlo, si sarebbe arrabbiata per la spedizione alle Terre Infuocate e impuntata perché tornasse subito a New York. E quello era fuori discussione. Ragion per cui sarebbe stato costretto a litigare con lei, a sfidarla apertamente, oppure a mentirle. Tutte e tre le alternative erano pessime. Anche se moriva dalla voglia di vederla.
Quando passò un dottore, qualche minuto dopo, Gregor chiese se poteva andare a trovarla e fu autorizzato a farlo. Ma brevemente. — Che tu cominci a usare il ginocchio è una buona cosa, ottima, addirittura. Ma cerca di andarci piano, nei primi giorni — gli consigliò il dottore, aiutandolo a infilare un paio di sandali.
— Ricevuto — disse lui, e finse grande prudenza mentre camminava fino alla stanza di sua madre. Gli fecero mettere una mascherina, per il bene della paziente più che per il suo.
Gregor aveva sottovalutato la portata della ricaduta. Sua madre stava male come la prima volta in cui l’aveva vista con la peste. Forse di più. Allora, se non altro, aveva avuto energie sufficienti per ordinargli di tornare a casa. Adesso era troppo debole anche solo per parlare. Tutti i suoi sforzi erano concentrati sul respiro. Quando lui le prese la mano, la sua pelle era secca e scottava per la febbre. Gli occhi avevano un’espressione assente.
— Non è la peste, vero? — chiese Gregor al medico.
— No, questa è un’infezione ai polmoni. Credo che nel Sopramondo la chiamiate “polmonite” — rispose l’altro.
— Ma potrebbe tornare a casa, se fosse abbastanza in forze per viaggiare? — chiese ancora Gregor.
— Sì, se fosse abbastanza in forze per viaggiare. Ma non è così — rispose il medico.
Gregor accarezzò la guancia della madre. — Non preoccuparti, andrà tutto bene. Andrà tutto bene. — Non sapeva se fosse in grado di capire quello che le diceva.
Fuori dalla stanza, il medico prese Gregor da parte e cominciò a parlargli bisbigliando. All’inizio Gregor pensò che fosse per la presenza di sua madre, ma poi si rese conto che l’uomo temeva di essere sentito da qualcuno. — Guerriero, se si trattasse di mia madre, userei tutta l’influenza che ho per riportarla nel Sopramondo. I vostri ospedali sono in grado di curarla bene quanto i nostri, ormai. E con la guerra che sta per iniziare, il palazzo potrebbe finire sotto attacco. È addirittura possibile che debbano trasferirla alla Fonte.
— Ma hai detto che stava troppo male per viaggiare — obiettò Gregor.
— È quello che devo dire. Ed è vero. In tempo di pace — spiegò il medico. — Ma adesso devi valutare il pericolo di farla restare qui in tempo di guerra. — Si guardò intorno, nervoso. — Ti prego, tieni per te il consiglio che ti ho dato. — E si affrettò ad allontanarsi.
Per un attimo, Gregor si sentì combattuto tra il desiderio di tornare alle Terre Infuocate e il bisogno di portare in salvo sua madre. Poi sua madre ebbe la meglio.
I suoi amici, laggiù, potevano contare l’uno sull’altro, oltre che su un esercito. Sua madre aveva solo lui.
Gregor lasciò l’ospedale senza permesso e trovò Vikus nella stanza vicina alla Sala Alta. — Quando pensi di mandare il prossimo messaggio a mio padre? — indagò.
— Stavo giusto per farlo, Gregor. Vuoi che gli alleghi qualcosa? — chiese Vikus.
— Sì, mia madre — rispose Gregor.
Vikus si passò una mano sugli occhi. — Ci ho provato, Gregor. Già tre volte. Il Consiglio ha respinto le mie richieste.
Gregor sapeva che Vikus non poteva trasferire d’ufficio sua madre senza l’autorizzazione dei membri del Consiglio, ma non riuscì a evitare di sentirsi esasperato per il modo in cui il vecchio si rimetteva di continuo alle loro decisioni. — Ma non può restare qui durante la guerra. E se i ratti attaccassero il palazzo? Dovreste comunque spostarla da qualche altra parte. — Gregor ritenne di potersi spingere fin lì senza mettere nei guai il dottore.
— Ho sollevato l’argomento, infatti — disse Vikus. — Ma i consiglieri non lo accettano. Si rifiutano di lasciarla andare. Mia moglie li ha convinti che le condizioni di tua madre non reggerebbero un trasferimento.
Di colpo, Gregor capì cosa stava succedendo. — Le condizioni di mia madre non c’entrano. È per me. Per tenermi qui — dichiarò. Solovet stava tenendo sua madre in ostaggio là sotto. Sapeva che non se ne sarebbe mai andato senza di lei.
Il silenzio di Vikus confermò la sua intuizione.
— Di’ a quelli del Consiglio che faranno meglio a tenerla in vita. Se lei muore, vi siete giocati il guerriero! — esclamò.
— Sei proprio sicuro di volere che glielo riferisca? — chiese Vikus.
— Perché non dovrei? — replicò Gregor.
— Perché con un discorso del genere non ottieni niente e scopri molte delle tue carte — rispose il vecchio. — Personalmente, trovo più saggio tenere per me certi pensieri finché non posso usarli a mio vantaggio.
Vikus aveva ragione. I medici dell’ospedale avrebbero fatto di tutto per guarire sua madre. Minacciare i membri del Consiglio avrebbe solo accresciuto la loro diffidenza nei suoi confronti in un momento in cui stava cercando di apparire docile. — Capisco quello che intendi. Grazie — disse Gregor. Almeno Vikus lo proteggeva ancora.
Tornò all’ospedale, in ansia per sua madre. Poteva spostarla da solo? No, stava decisamente troppo male. L’operazione avrebbe richiesto un’intera equipe di dottori. Quando fosse tornata a casa, avrebbe dovuto andare dritta all’ospedale, e a quel punto sarebbero iniziate le domande. Eppure, Gregor avrebbe preferito scommettere sulla capacità di suo padre e della signora Cormaci di inventarsi qualche folle storia per spiegare le condizioni di sua madre che rischiare di tenerla là sotto durante la guerra.
Ma con Solovet di mezzo, erano tutti ragionamenti fini a se stessi. Lei non avrebbe mai lasciato andare un ostaggio così prezioso finché non avesse finito di servirsi di Gregor. Una voce spuntò dal passato: — Stavo solo pensando che mia madre non ci ha messo molto a piantarti addosso i suoi artigli. — Hamlet. Ecco cosa gli aveva detto la prima volta che si erano incontrati nella giungla, prima di diventare la guida di Gregor, prima di essere ucciso dalle formiche. Hamlet, anche lui un famoso guerriero, era fuggito da Regalia perché la sua coscienza non gli permetteva più di combattere, e perché sapeva che sua madre, Solovet, avrebbe tentato in ogni modo di costringerlo a farlo. Chi meglio di lui poteva avere idea di come fosse avere quegli artigli piantati addosso? Be’, in quel momento erano affondati nel cuore di Gregor, in un modo del tutto nuovo. Ma non facevano che accrescere la sua determinazione a sfidarla.
Gregor rientrò nella sua camera d’ospedale e vi trovò un altro pasto. Mangiò per mantenere le apparenze. E poi ne aveva bisogno. Tra non molto, forse sarebbe tornato a una dieta a base di pesce e funghi. Dopo andò a trovare Ares. La visita non avrebbe destato sospetti, dal momento che aveva già visto sua madre.
Ares aveva appena finito di mangiare quando entrò Gregor. Un’infermiera stava radunando i piatti che avevano contenuto il cibo del pipistrello.
— Come ti senti, amico? — chiese Gregor.
— Un po’ irrigidito, ma bene — rispose il pipistrello. La sua voce, che di solito ricordava le fusa sommesse di un gatto, era roca per via della cenere vulcanica.
— Credi che ti andrebbe una partita a scacchi, più tardi? — Quella domanda era tutta a beneficio dell’infermiera. Lui e Ares non avevano mai giocato a scacchi. Non ne avevano mai neppure parlato. Ma Gregor aveva notato che in ospedale molti umani e pipistrelli passavano così la loro convalescenza. Gli sembrava il genere di cosa che potesse andare a genio all’infermiera.
— La domanda è: tu te la senti? — chiese Ares.
— Suona come una sfida — ribatté Gregor con un sogghigno.
L’infermiera parve approvare. — Vedo se abbiamo una scacchiera disponibile. — Raccolse i piatti e uscì.
Gregor e Ares attesero qualche istante, poi si misero a parlare a sussurri incalzanti.
— Dobbiamo tornare alle Terre Infuocate — disse Ares.
— Lo so. Ma Mareth dice che adesso siamo agli ordini di Solovet — spiegò Gregor. — Possiamo trovarci là?
“Là” era un termine piuttosto vago, ma sapeva che Ares avrebbe capito che si riferiva al lago alimentato da una sorgente e conosciuto come la Falda. Da una tartaruga di pietra collocata nella vecchia nursery partiva un passaggio segreto che conduceva proprio al lago.
— Tra un’ora — disse Ares. — I cuccioli dei piluccatori sono ancora nella nursery. Se tua sorella non è con Hazard, è probabile che sarà lì anche lei.
— Troverò un modo — lo rassicurò Gregor. Anche se non sarebbe stato uno scherzo convincere Boots, una nidiata di topolini e forse pure la loro tata a guardare dall’altra parte mentre lui apriva il guscio di quella grossa tartaruga di pietra e ci si infilava dentro.
L’infermiera entrò con una scacchiera. — Al momento ho solo questa ma non i pezzi. Saranno disponibili a breve.
— Sai, credo che ce ne sia un set al museo — disse Gregor. — Dovrei comunque fare un po’ di esercizio con questo ginocchio. Vado a prenderlo. — In effetti, al museo c’era una di quelle piccole scacchiere magnetiche da viaggio, completa dei relativi pezzi. Una scusa perfetta.
Gregor si fermò nella sua stanza per allacciarsi il cinturone con la spada. Se qualcuno glielo avesse chiesto, poteva sempre dire che stava cercando di abituarsi a portarlo. A scanso di equivoci, però, attese che il corridoio fosse libero da dottori e infermiere prima di sgattaiolare fuori dall’ospedale. Prese anche la via per il museo meno frequentata, riuscendo a evitare di incontrare gente, a parte un gruppo di scolari.
Quando arrivò a destinazione, la prima cosa che attirò il suo sguardo fu una scatola di cartone marrone, chiusa con nastro adesivo di carta. Le parole PER GREGOR, scritte ben chiare con un pennarello rosso, attraversavano in diagonale il lato superiore della scatola. Riconobbe la grafia della signora Cormaci. Quando era arrivato? Oggi? Ieri? O nella settimana in cui era stato nelle Terre Infuocate? Gregor aprì la scatola e trovò un biglietto proprio in cima. Mentre lo leggeva, riusciva quasi a sentire la voce della signora Cormaci nella sua testa.
Caro Gregor,
be’, qui è proprio un pasticcio. Sono tutti sconvolti perché sei sparito durante una specie di picnic, ma io sono sicura che ti sei fatto coinvolgere di nuovo in qualche strana avventura là sotto. So che è strano, ma non sono neanche preoccupata. Né per te, né per Boots. Anche se i tuoi genitori… be’, questa è un’altra storia. Mi chiedo se ti rendi conto di cosa fai alla tua famiglia quando sparisci.
Gregor si sentì come se gli avessero dato un pugno nello stomaco. Sì che se ne rendeva conto! Eccome!
Non aveva forse atteso il ritorno di suo padre per due anni e mezzo? Non era forse tormentato dal pensiero della sua famiglia ogni volta che era lontano per qualche missione?
Se stai leggendo, vuol dire che adesso sei a Regalia. Perciò è il momento buono per fare un passo indietro e valutare la situazione con occhio critico. So che quasi tutto quello che ti succede laggiù è fuori dal tuo controllo. So che stai solo facendo quello che senti di dover fare. Ma in questo momento la tua famiglia sta soffrendo. Ti dico solo questo: vedi di non farti uccidere, o avrai un bel po’ di spiegazioni da dare.
Con affetto,la signora Cormaci
Perché aveva scritto quella frase sul farsi uccidere? Sembrava quasi che avesse letto la profezia. Ma se fosse stato davvero così, avrebbe anche saputo che quella era una delle circostanze fuori dal suo controllo. Quanto alle spiegazioni da dare una volta morto… be’, erano parole senza senso. Perché mai gli diceva quelle cose? Forse voleva fare una battuta. O forse no, trattandosi della signora Cormaci. Un momento, c’era qualcos’altro in fondo…
P.S. Lizzie mi ha aiutata a fare i biscotti. Dice di dividerli col ratto.
Così Lizzie era rientrata dal campeggio estivo. Doveva essere a pezzi. Sua sorella era sempre in ansia anche quando le cose andavano bene. Riusciva a vedere il suo viso, la fronte aggrottata come nessun ragazzino di otto anni dovrebbe avere. L’esile, piccola, nervosa Lizzie, fin troppo intelligente per la sua età. Che si preoccupava per lui e per Boots. Che si preoccupava per sua madre e suo padre. Che si preoccupava persino per il vecchio, irascibile Ripred.
“La prossima volta che vedo Lizzie…” pensò Gregor. E a quel punto si rese conto che non avrebbe mai più rivisto sua sorella. Né gli altri che erano a casa. Perché non avrebbe mai lasciato il Sottomondo. Sarebbe morto lì sotto…
Gregor osservò il biglietto sfuggirgli fluttuando dalla mano e fermarsi leggero sul pavimento. Fu allora che il significato delle parole di Sandwich gli apparve finalmente chiaro.
QUANDO IL GUERRIERO VERRÀ ASSASSINATO
La stanza si mise a girare e lui si afferrò a uno scaffale per non cadere. Avvertì un peso immenso che gli gravava sul petto e si sentì quasi sul punto di rompersi in mille pezzi, incapace di respirare. “No! Non voglio! Non voglio morire!” pensò. Cominciò a tremare dalla testa ai piedi mentre cercava di allontanare il pensiero dalla sua mente senza riuscire a contrastarne la forza. “Non posso farlo. Non posso. Devo tornare a casa.” Luxa aveva ragione. Quello era chiedergli troppo. Sacrificare la vita, il futuro, tutto ciò che aveva per i Sottomondo. “Io me ne vado da qui. Prendo Boots e la mamma e torno a casa senza… mai… guardare… indietro!”
Per un attimo credette davvero di poterlo fare. Ma poi? Poi? Cosa sarebbe successo a quelli che gli erano cari, lì sotto? Sarebbero tutti morti, come annunciava la profezia. Non avrebbe mai potuto permettere che accadesse. Non avrebbe mai permesso che accadesse. Allora…
Gregor crollò a terra, ansimante, scosso dai tremiti. Si sforzò di controllarsi. Doveva smetterla! Non poteva dare di matto ogni volta che pensava al suo avvenire. A tutte le persone che non avrebbe mai rivisto, o a tutte le cose che non avrebbe mai fatto. Continuare l’avrebbe reso inutile. Di nessun aiuto. Doveva trovare in sé qualcosa cui aggrapparsi. Qualcosa che gli desse forza. Gli passarono per la testa immagini della sua famiglia, dei suoi amici, dei luoghi che amava. Ma nessuna gli fu di conforto.
Poi ricordò il cavaliere di pietra a The Cloisters. Freddo, duro, inflessibile, da tempo lontano da tutto ciò che poteva ferirlo nella vita. Molti secoli prima, quel cavaliere aveva combattuto… forse era morto anche lui in una tremenda battaglia… tutti dovevano morire, prima o poi… ma lui adesso era invulnerabile. Dormiva sul suo letto di marmo. Al sicuro. Sereno, persino. Per qualche motivo, il pensiero di quel soldato di un tempo passato confortò Gregor come nient’altro di vivo era in grado di fare. Aveva affrontato qualcosa di terribile, ma adesso era finita, e lui si trovava in un luogo in cui nessuno avrebbe mai più potuto fargli del male. Il tremito cominciò a placarsi. Gregor inspirò e il dolore al petto allentò la presa. “Sono io. Devo ricordarmelo, d’ora in avanti” pensò. “Sono quel cavaliere, sono di pietra, e niente può toccarmi. D’accordo. D’accordo, allora. La situazione è questa.”
Mentre si calmava, gli tornò in mente che Ares lo stava aspettando. Aveva delle cose da fare. Gente da aiutare. E poco tempo.
Gregor recuperò il biglietto e si rimise in piedi. Notò un pacchetto avvolto nell’alluminio: dovevano essere i biscotti. Ma la scatola era troppo profonda per contenere solo quello. Sollevò il pacchetto e il suo cuore saltò un battito.
Due torce elettriche. Un bel mucchio di batterie. E un paio di scarpe da ginnastica nuove di zecca. Di quelle buone.
La signora Cormaci. Come faceva a saperlo? Com’è che pareva sempre sapere cosa gli serviva? La torcia impermeabile che gli aveva regalato prima della traversata della Distesa d’Acqua. Gli scarponi da lavoro che nella giungla gli avevano salvato le dita dei piedi dall’acido. Riusciva davvero a vedere nei tarocchi i pericoli che Gregor avrebbe affrontato, anche se lui non le aveva mai permesso di leggergli il futuro? O era solo brava a indovinare?
Gregor aggiunse un rotolo di nastro adesivo e due bottiglie per l’acqua al contenuto della scatola. Le bottiglie erano del tipo usato da quelli che facevano jogging al parco. Erano vuote, ma poteva riempirle a un ruscello lungo la strada per le Terre Infuocate.
Cercò un nuovo zaino, ma ne trovò solo uno piccolo e rosa che aveva dei cordoni al posto delle cinghie. Ne tolse un portafoglio da signora, un astuccio per il trucco, un libro con le cartine di Manhattan e una spazzola, e lo infilò nella scatola.
Non era il genere di zaino che avrebbe portato un guerriero, forse, ma sarebbe servito a contenere tutto l’equipaggiamento, e tanto bastava. Gregor rimise il pacchetto dei biscotti in cima a tutto il resto. Non si sarebbe preparato per il viaggio finché non fosse stato nel passaggio segreto che conduceva alla Falda. Ricordando la storiella che aveva raccontato all’infermiera, posò la scacchiera magnetica sopra i biscotti. Era probabile che non l’avrebbe rivista, ma voleva curare ogni dettaglio. Ora doveva arrivare alla vecchia nursery ed entrare in quel passaggio.
Raccolse la scatola. Uscì dal museo e si incamminò lungo il corridoio. “Fa’ con calma. Sii naturale” pensò. “Puoi riuscirci.”
Poi girò l’angolo e si fermò di botto.
Aveva davanti Solovet.
Dietro di lei c’erano due uomini.
L’ultima volta che Gregor aveva visto Solovet, risaliva a mesi prima, al suo ritorno dalla giungla. Partecipava alla riunione del Consiglio in cui avevano arrestato la dottoressa Neveeve.
Quando Gregor, curato per le ferite, si era risvegliato dall’anestesia, Neveeve era stata giustiziata e Solovet confinata nei suoi appartamenti. Era stato felice che l’avessero tolta di mezzo e chiusa in un posto dove non l’avrebbe rivista. Dove non avrebbe dovuto affrontare quello che aveva fatto a sua madre, ad Ares, a Howard e a moltissimi altri.
E invece eccola lì. La donna che non ci avrebbe pensato due volte a lasciar morire sua madre se questo avesse significato tenersi stretto Gregor. Nel giro di un attimo, si rese conto di quanto la odiasse e di quanto dovesse essere prudente. Lei era il suo comandante, adesso.
— Gregor — disse Solovet, rivolgendogli un sorriso pieno di calore.
Lui ricambiò il sorriso. — Ehi, Solovet. Come stai?
— Molto bene. E tu?
— Tutto a posto.
— Cos’hai lì? — chiese la donna, accennando alla scatola.
— La signora Cormaci mi ha mandato dei biscotti. Pensavo di portarli all’ospedale. Di condividere questa gentilezza — rispose Gregor. — Ne vuoi uno? — Tirò indietro l’alluminio che copriva i biscotti e il delizioso profumo di farina d’avena e uvette riempì il corridoio.
— Perché no? — Solovet accettò un biscotto e gli diede un morso. Masticò pensosa e annuì in segno di approvazione. — Ottimo.
— Quindi tra non molto dovrò parlare con te, giusto? — chiese Gregor, passandosi la scatola sul fianco. — Capire cosa vuoi che faccia. Mareth dice che sei tu a condurre la guerra.
— Sì. Sì. E tu mi sarai molto prezioso, naturalmente. Conosci Horatio e Marcus? — Con aria indifferente, Solovet indicò gli uomini dietro di lei.
— Salve. — Gregor li salutò con la mano e loro gli rivolsero un cenno del capo. Per la prima volta notò come erano vestiti. Portavano entrambi delle armature fatte di pelle e metallo che proteggevano il petto, le gambe e le braccia. Avevano la testa coperta da un elmo. Alla cintura erano infilati una spada e un pugnale dall’aspetto temibile. — Sono, che so, generali o qualcosa del genere?
— No, Gregor. Sono le tue guardie personali — rispose Solovet. — Siamo molto preoccupati per la tua sicurezza.
— Le mie guardie personali? Fantastico. — Stava cominciando a capire le reali intenzioni della donna, ma si limitò a ridere. — Di sicuro qualche giorno fa mi sarebbero stati utili. Però qui non mi sembra di averne bisogno. Non ci sono nemmeno dei ratti, da queste parti.
— Le guardie non servono per tenere fuori i ratti — replicò amabilmente Solovet. — Servono per tenere dentro te.