Gregor tirò via il braccio di scatto e rotolò istintivamente lontano dall’artiglio. Era sulla schiena, pronto a rialzarsi, quando la terra ai suoi piedi esplose e una zampa enorme schizzò verso l’alto. Raccolse le gambe sotto di sé e si mosse velocissimo, all’indietro come un granchio, mentre la zampa, con i suoi cinque artigli bianco avorio, calava sul terreno, lasciandovi un solco profondo.
Per un attimo, gli balenò il pensiero che quella cosa fosse un’appendice del Flagello. Che il ratto bianco fosse diventato tanto colossale da avere ormai zampe letali, grandi come badili. Ma quella non era una zampa di ratto. Persino al Flagello non potevano essere cresciuti degli artigli lunghi un metro. Allora cos’era?
Mentre Gregor si rigirava e balzava in piedi, sperando di riuscire a scappare, la zona davanti a lui saltò in aria in una cascata di terriccio. Ebbe appena il tempo di vedere uno strano fiore rosa, grande almeno quanto il coperchio di un tombino, prima di ritrovarselo appiccicato alla faccia. “È una di quelle piante assassine! Come nella giungla!” pensò. I tentacoli carnosi che sfiorarono le sue labbra e i suoi occhi gli fecero accapponare la pelle. — Argh! — gridò, sobbalzando e barcollando all’indietro. Fece per impugnare le sue armi, ma si fermò appena prima di sguainarle. Non era sotto attacco.
Per la prima volta, osservò con più attenzione le creature che erano uscite dal terreno. Decisamente non erano piante. E nemmeno ratti, anche se era abbastanza sicuro che appartenessero alla famiglia dei roditori. Avevano grossi corpi coperti di ispido pelo scuro e lunghe code robuste. Ogni animale aveva quattro zampe dotate di artigli mortali, ma le posteriori erano molto più piccole e in apparenza più deboli delle anteriori. Dal punto in cui ci si sarebbe aspettato di vedere una naso, usciva un grande fiore rosa, orlato di tentacoli sempre in movimento.
Per quanto strane, quelle bestie gli sembravano in qualche modo familiari. Ma perché? Poi gli tornò in mente.
Era un caldo giorno d’estate e lui aveva circa sette anni. Erano tutti alla fattoria di famiglia, in Virginia. Suo padre gli stava insegnando a giocare a ping-pong nel seminterrato. Gregor aveva inseguito una pallina finita sotto un vecchio armadio e, quando si era rialzato, eccola lì. Intrappolata nella bocca di lupo in cui doveva essere caduta. Che si trascinava infelice sulla ghiaia. Una talpa dal muso stellato. Certo, quella pesava grammi, non centinaia di chili, ma era comunque molto simile alle creature che ora circondavano Gregor. La piccola talpa gli era piaciuta tantissimo, così era rimasto a osservarla per un po’. Suo padre gli aveva spiegato che di solito quegli animali stavano sottoterra, che avevano zampe anteriori fatte apposta per scavare e che, anche se non ci vedevano bene, il loro naso bizzarro era così sensibile da riconoscere tutto quello che toccava. Alla fine, avevano preso una pala dal capanno degli attrezzi, avevano raccolto la talpa con delicatezza e l’avevano liberata. A Gregor, però, era rimasta una certa simpatia per quella creaturina buffa.
— Guarda un po’ qua! — esclamò Gregor, ridendo. — Credo di aver incontrato una vostra amica, a casa mia.
Ma cosa ci facevano le talpe nel Sottomondo? Nessuno gliene aveva mai accennato. E ne avrebbe sentito parlare di sicuro quando imperversava la peste, perché rientravano tra i mammiferi e sarebbero state contagiate come tutti gli altri sanguecaldo. Possibile che nessuno sapesse della loro esistenza? Che avessero sempre vissuto in abissi ancora più profondi rispetto ai Sottomondo e ne fossero risalite soltanto da poco? Avrebbe voluto comunicare con loro, ma sembrava che emettessero solo un leggero sibilo. Conoscevano la lingua degli umani?
Nel frattempo, quattro talpe erano sbucate dalle loro gallerie ed erano uscite nel campo. Lo annusavano, in un certo senso, sfiorandogli le scarpe e il corpo coi tentacoli. Pareva che cercassero di capire come era fatto. Avevano mai incontrato un umano? Di certo non un Sopramondo. E quello faceva una grossa differenza, laggiù. Tutti quelli che incontrava sapevano che non veniva da Regalia. Prima di tutto per la sua pelle, e poi per il suo odore.
Gregor aprì le mani e le tese verso le talpe. Mentre i loro nasi lo accarezzavano delicati, avvertì una fitta di preoccupazione. Poco importava che quegli animali fossero inoffensivi o fossero spuntati nel campo per caso. Stavano scavando gallerie dietro le linee degli umani. Se Solovet avesse saputo che erano lì, con ogni probabilità avrebbe riservato loro un trattamento duro. Gregor non voleva pensare quanto duro. Sapeva di dover fare qualcosa alla svelta.
— Ehi! — disse. — Ehi, talpe! Dovete uscire di qui! — Cominciò a gesticolare verso l’entrata delle gallerie. — Muovetevi! Sciò! Tornate da dove siete venute!
Gregor aveva attirato l’attenzione degli animali. Avevano smesso di annusarlo e avevano girato la testa nella sua direzione. Ma non si erano mossi di un millimetro. Gregor parlò in tono più incalzante. — Statemi a sentire, dovete andarvene. Capite quello che dico? C’è una guerra. Non vi vorranno qui. — Tentò di spingere la talpa più vicina verso un buco. Fu come cercare di spostare un autobus.
Pur non accennando ad andarsene, le talpe cominciarono ad agitarsi, irrequiete. Gregor aveva l’impressione che in effetti capissero cosa diceva, almeno in parte.
Una sentinella su un pipistrello volò sopra di loro, abbastanza vicina perché Gregor riuscisse a vederne l’espressione sconvolta. Il pipistrello filò dritto verso il muro da cui Solovet sorvegliava l’andamento della battaglia. Gregor sapeva che era solo questione di minuti prima che i soldati calassero in picchiata su quei poveri animali.
— Via! — urlò alle talpe. — Andatevene prima che vi facciano del male! Non vi vogliono qui! Questo territorio appartiene agli umani! Agli umani!
Quelle ultime parole gli erano appena uscite di bocca quando le talpe diedero in escandescenze. I loro sibili si fecero alti e rabbiosi, poi cominciarono a ringhiargli contro.
— Cosa c’è? Cos’ho detto? — chiese Gregor, sfoderando di scatto le sue armi. Non voleva combattere contro le talpe – lui aveva cercato di proteggerle! – ma pareva proprio che non avrebbe avuto scelta.
Le parole che Vikus aveva pronunciato nella stanza delle profezie gli attraversarono la mente. — Ricorda che anche in guerra c’è un tempo per fermarsi. Un tempo per trattenere la spada. — Sembrava una di quelle occasioni. Gregor non sapeva cosa avesse spinto le talpe ad attaccare, ma era sicuro che si trattasse di una specie di malinteso. Non voleva ucciderle. Voleva solo che se ne andassero. Si sforzò in ogni modo di tenerle a distanza senza ferirle.
Da creature dolci e confuse, le talpe si erano trasformate in belve idrofobe. Riuscivano a muoversi molto più velocemente di quanto Gregor avesse immaginato. Fu subito circondato e si ritrovò costretto a deviare i colpi di quei tremendi artigli che giungevano da quattro lati. Non poté fare altro che cominciare a roteare su se stesso. Cercò di ricordare come servirsi dell’ecolocalizzazione per avere un punto di riferimento, ma quella era una scoperta ancora troppo recente per poterci fare affidamento. Avrebbe dovuto contare solo sugli occhi. Perciò scelse un carro in lontananza, si stampò a fuoco la sua immagine nel cervello e tentò di fissarla per un istante a ogni giro che faceva. Era difficile, però, perché i suoi occhi avevano un bel po’ di roba cui prestare attenzione.
Quattro talpe per dieci artigli anteriori equivalevano a quaranta lame che gli piombavano addosso. “Questi cosi hanno bisogno di una spuntatina alle unghie” pensò. Ma comprese in fretta che non sarebbe andata così. Ogni volta che colpiva un artiglio con tutta la potenza della sua spada, non riusciva neppure a scalfirlo. Lo scontro produceva un fragore assordante, quasi di metallo contro metallo. Poteva bloccare gli attacchi delle talpe, ma non mozzare i loro artigli. — Ma di cosa sono fatti? — esclamò ad alta voce. Poi ricordò che, per raggiungere il campo, le talpe avevano dovuto scavare nella roccia solida. E tanta, anche. I loro unghioni dovevano essere di un materiale molto duro. Dopo questa illuminazione, si concentrò solo sul modo di ostacolare gli assalti e sperò che la sua spada avrebbe resistito.
Continuò a piroettare ancora per un minuto prima di capire che non sarebbe bastato. Non poteva rimanere sulla difensiva in eterno: si sarebbe stancato in fretta, e a quel punto uno di quegli animali l’avrebbe tagliato in due. Nella giravolta successiva, riuscì a recidere alcuni tentacoli di un naso rosa. La talpa mandò un tale urlo di dolore che per poco Gregor non si fermò a controllare che stesse bene. Fu allora che un artiglio lo raggiunse da sinistra, strappandogli la camicia e tranciando il suo cinturone. La striscia di cuoio gli cadde intorno ai piedi e lui perse il passo per calciarla via. Un altro artiglio lo colpì, lasciandogli uno squarcio profondo nel fianco sinistro. Cavoli, Solovet aveva avuto ragione nel dire che il suo lato sinistro era vulnerabile! E le talpe l’avevano percepito subito. Il dolore gli diede una ulteriore sferzata di adrenalina e Gregor dimenticò di cercarsi un punto di riferimento, dimenticò le mosse con il pugnale che gli aveva insegnato Perdita, dimenticò di aver mai avuto un debole per le talpe, dimenticò tutto e pensò solo a sopravvivere.
I fiori rosa! I tentacoli che si agitavano! Adesso erano quelli i suoi obiettivi. Oltre al luccichio di un occhietto nero o alla morbida parte inferiore di una zampa sollevata che scorgeva di tanto in tanto mentre piroettava. Per essere uno che non sapeva ballare granché, si destreggiava alla grande. I suoi piedi si muovevano seguendo un intricato disegno di passi che – ne era certo – non sarebbe mai riuscito a riprodurre in un momento di maggior calma. Sentì il sangue, l’odore del suo e di quello delle talpe, prima ancora di vederlo. Ma poi quel sangue cominciò a riempire l’aria, schizzandogli il viso, e qualche area del suo cervello registrò la notizia che non stava più combattendo da solo. C’erano dei soldati, calati lì sui pipistrelli, che affondavano le loro lame nel dorso e nel muso delle talpe, uccidendole. Gregor rallentò fino a fermarsi, barcollante, in tempo per vedere l’ultimo animale decapitato da un solo colpo della spada di Solovet. Poi la donna cominciò a latrare ordini in un tono così furibondo che Gregor non riusciva a capire cosa diceva. Colse parole come — Sopramondo… ospedale… breccia… ruspe. — Ruspe. Ruspe!
Gregor aveva le vertigini. La nausea. Qualcuno lo issò in fretta e furia su un pipistrello e lui urlò. La ferita al fianco sinistro era straziante. Nel giro di pochi minuti, si ritrovò ancora in ospedale, steso su un tavolo operatorio. Un sapore amaro gli riempì la bocca. Poi fu il nulla.
Più tardi, venne svegliato dal dolore al fianco. Non era così acuto, più un pulsare che bruciava. Aprì gli occhi, intontito. Prima di operarlo, dovevano averlo sedato con quella roba ad azione rapida che usavano solo per gli interventi di emergenza, come gli aveva detto Howard. Tra le nebbie del sonnifero, mise gradualmente a fuoco il volto di Vikus accanto al suo letto. Gregor si sentì già meglio, sapendo che il vecchio era di nuovo a Regalia. Lui era l’unico in grado di proteggerlo da Solovet. Di evitargli la prigione, in ogni caso.
— Chi? — Gregor riuscì a pronunciare solo quella parola. Ma Vikus capì.
— Sono conosciute come ruspe. Pensavamo che si fossero estinte da tempo — spiegò Vikus. — Ma alcune devono essere rimaste e hanno continuato a vivere nel Sottomondo in segreto. Le quattro del campo non possono essere le uniche della loro specie. Ce ne sono altre, là fuori. E si sono alleate con il Flagello.
— Perché? — chiese Gregor.
— Questo territorio, il territorio su cui sorge Regalia, tanti anni fa apparteneva a loro — disse stancamente Vikus. — Al suo arrivo qui, Sandwich lo reclamò. Le talpe si rifiutarono di andarsene. Così lui diede inizio a una guerra.
— Che vinse — concluse Gregor. Anche nel suo stato di stordimento, capì tutta l’ingiustizia di quella vicenda. Era un gran bel posto, Regalia. Fiumi. Sorgenti. Relativamente facile da difendere. Per quanto tempo era stato patria delle ruspe prima che Sandwich scendesse dal Sopramondo e lo reclamasse?
— Che vinse, sì. Prima ci fu lo scontro, e quando lo scontro minacciò di mettersi male, Sandwich avvelenò l’acqua di cui si rifornivano le ruspe. Quella era una tattica che loro non conoscevano. Si pensò che solo poche di loro fossero riuscite a scappare, e che comunque nessuna fosse sopravvissuta — raccontò Vikus.
— Killer. Voi — disse Gregor. Hazard aveva detto che era così che le altre creature del Sottomondo chiamavano gli umani, anche se non di fronte a loro. — Ecco perché.
— Sì, ecco perché siamo conosciuti come killer — confermò Vikus. — Perché tanti ancora ci odiano e ci temono. Perché le ruspe ancora ci vogliono morti.
— Non hanno attaccato me, però — rifletté Gregor. — Non all’inizio. — Finché non aveva detto che erano sul territorio degli umani.
— Devono aver capito che non sei uno di noi — replicò Vikus. — Almeno ti hanno concesso il beneficio del dubbio.
Gregor chiuse gli occhi e assorbì quelle informazioni. E così Sandwich, il fondatore di Regalia, il visionario dalla precisione inquietante che aveva creato quel nuovo mondo nel cuore della terra, era prima di ogni altra cosa un assassino. Eppure, tutta la sua gente si sforzava ancora di comprendere le parole bizzarre che aveva inciso nella stanza delle profezie. Di capire come vivere e morire, seguendole. La profezie erano tenute in una tale considerazione che Gregor non aveva mai nemmeno pensato di chiedersi se il loro autore fosse una persona buona o cattiva. Ma adesso lo sapeva. Aveva rischiato tutto per farsi guidare da un uomo che aveva disposto il massacro di un’intera specie allo scopo di mettere le mani su un bel pezzo di terra. E Gregor portava la sua spada.
— Non è giusto — disse.
— È orribile. È un’infamia che non ci siamo mai perdonati — rincarò Vikus.
— E adesso? — chiese Gregor.
— Adesso la paghiamo — rispose Vikus. — Perché è solo questione di tempo prima che le ruspe rimaste scavino una galleria fin dentro il palazzo. E a quel punto, il Flagello le seguirà.