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La velocità di cambiamento della società si è riflessa, inevitabilmente, anche nel mondo letterario e fare lo scrittore è diventato un mestiere come un altro; un mestiere in cui furbizia, abilità e capacità di offrirsi ai media spesso suppliscono la presenza di un vero talento.
Premesso che, quando me ne sto in vacanza sulla spiaggia, sono profondamente grata all’autore di un libro avvincente e ben congegnato, e che quindi sono priva di qualsiasi moralismo o intellettualismo del tipo “un libro è bello e di valore se ha pochi lettori” – bugia stratosferica perché tutti i grandi classici sono best seller e long seller –, non posso non domandarmi se un romanzo sia davvero solo questo. Una forma di puro intrattenimento.
Ricordo, qualche anno fa, il mio assoluto stupore davanti alle affermazioni di un alto dirigente di una grande casa editrice, il quale, rispondendo ad alcune mie semplici domande, esclamò: “Dimmi quanto vuoi. Ti pago la cifra che vuoi, ma sappi che per me, tu o un altro siete la stessa cosa. Ne trovo mille come te.”
Io, che in un editore ho sempre cercato il rapporto umano e professionale e mai l’assegno, sono rimasta senza parole. Non mi ero mai accorta che ci fosse un legame così stretto tra il mio lavoro e l’attività più antica del mondo. Quanto vuoi? Ti compro, ti vendo. E se non vendi, mi sbarazzo di te, troverò presto un’altra, un altro in grado di sostituirti. Basta fermare la macchina e abbassare il finestrino.
Appena esplode un best seller, si scatena la caccia al possibile emulo. Ricordo, dopo Va’ dove ti porta il cuore, la continua uscita di libri che avevano la parola “cuore” nel titolo e magari anche delle nonne come protagoniste. E anche dopo Il cacciatore di aquiloni, splendido libro, la rincorsa infruttuosa di vari lanciatori di trottole, inseguitori di farfalle e di struggenti avventure incentrate su sventurati ragazzini mediorientali.
Naturalmente, nessuna di queste emulazioni ha mai raggiunto davvero il cuore e la mente dei lettori perché, quando questo avviene, è quasi sempre il frutto di un’alchimia misteriosa e non dell’astuzia di un plot sorprendente o di un buon progetto di marketing.
Certo il marketing può molto, come può molto la manipolazione selettiva dei programmi televisivi ma, alla fine, si tratta nella maggior parte dei casi di fuochi fatui.
In fondo le case editrici non dimostrano di avere un gran rispetto dei lettori se li considerano qualcosa di non molto diverso da una massa indistinta, facile da manipolare. Che i libri non siano altro che scarpe la cui buona qualità può essere replicata, usando gli stessi macchinari, per un tempo se non infinito, almeno molto lungo, è l’idea fissa purtroppo di molti dirigenti dell’editoria. Un libro, invece, un bel libro, è qualcosa di molto più complesso, delicato e difficile da gestire. Non si fa a comando, come non lo si può imporre a comando.
Penso che molti, nell’ambiente, mi considerino una fallita perché, dopo i milioni di copie di Va’ dove ti porta il cuore, non ho mai replicato un simile successo. Considererei fallimento esattamente il contrario. Certo, avrei potuto fare non uno, ma dieci seguiti, scadendo sempre in qualità e in intensità, vendendo una scarpa dopo l’altra e, finite le scarpe, avrei potuto mettere sul mercato anche solo le scatole con il mio nome sopra. Ma non ho mai pensato, neppure per un istante, che il fine ultimo della letteratura sia quello di far soldi. Ho sempre avuto un grande rispetto per l’intelligenza e la sensibilità dei miei lettori. Non polli da spennare, ma persone con le quali fare un tratto di viaggio insieme. Come ho sempre avuto timore e tremore nei riguardi della mia vocazione, che non avrei mai potuto tradire in nessun modo.
Che cosa vuol dire scrivere, dunque?
Pensando al talento come a un dono, non posso non immaginare la genetica come una delle vie attraverso cui questo dono si può diffondere. Abramo Moravia, l’antenato che unisce lo zio Ettore a me, non era un intellettuale bensì un macellaio addetto alla shechitah, la macellazione rituale della comunità ebraica. Impugnando coltelli senza tacca, recideva di netto con un unico abilissimo gesto l’esofago, la trachea e la giugulare dell’animale che, in tal modo, perdeva subito conoscenza. Il compito seguente era quello di privarlo del sangue e di far assorbire dalla terra quello caduto, disperdendo nell’acqua quello rimasto nel corpo.
La lama perfetta, la mano sicura, l’essere continuamente immerso nell’alternarsi della vita e della morte – con un sentimento sospeso a metà tra il distacco e la compassione, unita alla certezza di compiere un atto che trascende nella sua potenza la nostra comprensione e il timore che ne consegue – sono caratteristiche che la macellazione e la scrittura condividono. Bisogna conoscere perfettamente l’anatomia e avere pietà, ma è necessario anche fare in modo che questa pietà non faccia tremare la mano, rendendo il taglio un inutile strazio.
Scrivere è uno squartamento.
Squartamento della propria vita, che a ogni istante soggiace a quella tirannia, e della realtà che compare sotto i nostri occhi. Ma, a differenza dallo squartamento nichilista, è uno squartamento che acquista un senso a ogni istante. Squarcio per far luce, non per aver conferma delle tenebre.
Lo zio Ettore ebbe la fortuna di morire prima che si compissero i grandi orrori nel Novecento. Nella sua vita di borghese apparentemente pacato, aveva percepito con lucidità gli scricchiolii di quel mondo fino ad allora così solido. Io, che sono nata poco dopo l’orrore, ho saputo da subito che quegli scricchiolii si erano già trasformati in schianti.
Scrivere vuol dire andare a fondo alle cose, con lucidità, crudeltà, senza farsi abbagliare da niente. Recidere con il coltello ogni ombra di grasso, ripulendo i tendini dai muscoli. Non ci deve essere nessun innamoramento per le “belle parole”, nessun ascolto per le sirene del narcisismo che tentano di condurci altrove.
Tutti i libri che ho scritto sono un viaggio profondo nel cuore dell’uomo – il continente più complesso, ignoto e affascinate che ci è dato di esplorare.
Tutti i miei libri attraversano l’oscurità, non per il compiacimento di farlo, ma per scoprire il punto in cui, a un tratto, il buio misteriosamente si può trasformare in luce.
Tutti i miei libri perlustrano i territori dell’inquietudine e dello smarrimento perché, solo nel momento in cui si sa di non avere una strada, si comincia davvero a cercarne una. Soltanto nel momento in cui si accetta l’inquietudine come dato fondante, si entra davvero nell’umanità.
Viviamo in tempi di semplificazione massificante, di conseguenza l’inquietudine è il più reietto dei sentimenti. Puoi essere infelice, certo, anzi, lo devi essere, perché tutti gli oggetti che ti suggeriscono di comprare non sono altro che succedanei della felicità, ma l’inquietudine non ti è concessa perché è uno stato che produce domande e le domande richiedono risposte e, per avere risposte, bisogna mettersi in viaggio come Abramo e, alla fine del viaggio, magari puoi scoprire che non sono le cose a darti pace, ma la profondità dei sentimenti che sgorgano dal tuo cuore.
Ecco, credo che i libri esistano proprio per farci compagnia in questo viaggio, per darci conforto nell’asperità del percorso. Esistono e rimangono con noi perché l’uomo, prima di ogni altra cosa, è memoria e la sua vita è la vita delle generazioni che lo hanno preceduto. Se non fossi convinta di questo, non sarei stata neppure un pomeriggio seduta alla mia scrivania, se non credessi questo mai avrei sottoposto i miei giorni a questa severa tirannia.
Già, perché, oltre che squartamento, la scrittura è anche perdita della salute e straordinario sacrificio. So di essere fuori tempo massimo, praticamente un dinosauro, perché questi pensieri e questi discorsi sono già stati travolti dalla velocità iper-epidermica di questi tempi. Ciononostante, continuo a resistere in questo pensiero caparbio. L’uomo ha bisogno della bellezza.
Senza questa apertura, ciò che si spalanca davanti a noi è solo il mondo dell’homo hominis lupus, delle barbarie. E la parola – la parola fondata, la parola fondante – è una delle forme in cui si manifesta la bellezza, il legame inquietamente profondo che lega l’essere umano alla sua fragilità.
Così, mi torna in mente un sogno che ho fatto qualche anno fa. Mi trovo in una città tutta di mattoni rossi che so essere Ferrara. È notte, il tempo antico, non ci sono macchine, fa freddo e cade una neve fitta. A un tratto scorgo una porticina da cui escono luce e tepore, decido di entrare e comincio a scendere delle scale; sono strette, tortuose, faccio parecchie rampe prima di giungere in una stanza piena di gente. È un forno, per questo è aperto di notte e, per questo, dalla porta uscivano luce e calore. Ci sono molte persone con dei grembiuli bianchi indaffarate intorno ai fuochi; nessuno sembra accorgersi di me finché un uomo all’improvviso mi raggiunge, mi mette in mano un vassoio di biscotti appena sfornati e mi dice: “Portali in superficie!” I biscotti hanno una forma strana. Osservandoli meglio, mi accorgo che sono aleph, beit, ghimel – le prime lettere dell’alfabeto ebraico. Obbedisco e, appena fuori, sotto la neve, accade una cosa incredibile. I biscotti si trasformano in tante minuscole fiammelle.
La speranza allora è questa, che in noi torni la nostalgia per parole capaci di ardere.