28.
L’estate del 1976 stava volgendo al termine e mio padre fece una delle poche cose utili della sua vita, oltre a quella di mettermi al mondo. Si informò se, a Roma, ci fosse una scuola per diventare registi.
La scuola c’era e, per chi la frequentava, era previsto anche il beneficio di una borsa di studio. L’unico problema consisteva nel concorso che bisognava fare e, naturalmente, vincere, per potervi accedere. Ora, io sapevo di voler raccontare storie, ma non ero una persona particolarmente devota al cinema. Quando ero a Trieste, accompagnavo spesso mia nonna e la sua amica Maria alla Cappella Underground, una sala che proiettava prevalentemente film d’essai, e questo era tutto.
Oltre a ciò, data la bassa stima che avevo delle mie doti intellettuali, l’idea di dover sostenere un esame mi metteva in uno stato di panico assoluto.
Ma, a volte, il destino ci sferra degli invisibili calci negli stinchi per farci andare avanti; la prima selezione, infatti, avveniva tramite una prova scritta da inviare per posta: in tal modo il trauma e l’onta erano limitati. Così presi carta e penna e scrissi una paginetta sulle ragioni che mi spingevano a voler entrare in quella scuola. Compito fatto e pensiero archiviato.
Che sconvolgimento quando, in settembre, mi arrivò la convocazione per l’orale! Mi rivolsi allora a uno dei responsabili della Cappella Underground e passai un pomeriggio con lui, cercando di apprendere il massimo delle nozioni possibili riguardo al mondo del cinema.
Il giorno dell’esame, arrivai puntualissima, alle nove, davanti alla sede del Centro sperimentale di cinematografia di Roma, ma quando incontrai gli altri aspiranti mi resi subito conto di essere un vaso di coccio tra i vasi di ferro. Erano tutti parecchio più grandi di me, avevano quasi tutti già una laurea, molti avevano già tentato di entrare negli anni precedenti e soprattutto, diversamente da me, erano tutti degli accaniti cinefili.
Nell’attesa, qualcuno paternamente mi fece pat pat sulla spalla, dicendomi: “Coraggio, sei giovane, avrai ancora molte occasioni per riprovarci.”
Appena si spalancarono davanti a me le porte della stanza in cui era riunita la commissione – ricordo un tavolo lunghissimo, pieno di persone – feci l’unica cosa possibile: dichiarai subito, ad alta voce, di essere totalmente ignorante in materia. Del resto, feci notare, che senso aveva frequentare una scuola, se si sapeva già tutto di quello che si avrebbe dovuto apprendere?
Io volevo solo imparare a raccontare storie.
Ricordo ancora i sorrisi della commissione. Dopo la processione di dotti che si era susseguita fino a quel momento, la mia ingenuità doveva essere stata accolta come un raggio di sole. Ero, infatti, la più giovane in assoluto di tutto il concorso: giovane sui documenti, ma ancora più giovane alla vista.
Sentendo la mia dichiarazione, un signore dai capelli pepe e sale – seppi dopo che era Miklós Jancsó – prese un grande libro con delle strane foto in bianco e nero e me lo aprì davanti, dicendo: “Inventa una storia!” Di foto ne scorremmo parecchie e di storie ne inventai altrettante. Alla fine venni congedata senza altri commenti.
Tornata a Trieste, considerai chiusa per sempre la parentesi romana, mi sdraiai sul divano, accanto a mia nonna, che teneva sempre a portata di mano una scatola di lokum, e ripresi a leggere romanzi. Mia nonna, infatti, oltre a quei dolci turchi di cui era particolarmente golosa, divorava un libro dopo l’altro e, in quei mesi di attesa e di inerzia, la sua passione contagiò anche me.
Ma un giorno arrivò il postino e mi consegnò un telegramma e quel telegramma fu, per me, come una fucilata.
Avevo vinto il concorso!
C’erano venti posti per mille concorrenti e uno di quelli era mio; entro un paio di settimane avrei dovuto trasferirmi a Roma. Panico. Rifiuto totale. Giravo per casa gridando: “Non me ne importa niente del cinema, non andrò mai in quella città spaventosa!”
A quel punto della mia vita, infatti, l’idea di passare l’inverno sdraiata su un divano, a leggere, mi sembrava la migliore delle opzioni; sotto il mio peso, lentamente i cuscini avrebbero iniziato a cedere, le molle a deformarsi in modo stabile e piano piano quel divano, che ancora possiedo, avrebbe accolto nella sua materia il peso della mia, così come la cenere accolse e pietrificò i corpi dell’infelice popolazione di Pompei.
Libro dopo libro, anch’io, un giorno, avrei potuto appoggiarmi su un gomito e dire “Conosci te stesso”, perché cominciava a essermi chiaro che la via dei libri mi avrebbe condotto in quella direzione.
Proprio in quei giorni ero presa dalla lettura di Oblomov e mi stavo convincendo che il suo modo di affrontare la vita fosse in assoluto il migliore.
Per l’occasione, la nonna mi comprò un maglione nuovo, una camicia e dei pantaloni, li mise, assieme ad altri, in una valigia di mio nonno – quelle grandi valigie rigide di cuoio naturale che ancora si vedono nei film d’epoca – comprò il biglietto, preparò due panini e mi caricò sul treno per Roma.
Fino a che il mare non scomparve dai miei occhi, restai in piedi, immobile davanti al finestrino, come Ruben in La testa tra le nuvole. L’azzurro del mio maglione si confondeva con il colore di quell’immensa superficie illuminata dal sole.
Quando passammo davanti al castello di Duino, una fitta mi trafisse il cuore. Proprio ora che stavo cominciando a intuire qualcosa, proprio ora che, in quel luogo, una radice si stava formando dentro di me, ero costretta a partire di nuovo verso un mondo sconosciuto e potenzialmente ostile.
Roma era la Roma degli anni settanta, la dolce vita era svaporata e il suo posto era stato preso dalle manifestazioni, dagli scontri, dalle spettrali sirene che attraversavano la città di giorno e di notte.
Ad attendermi nella metropoli tentacolare c’era mio padre.
Seppure con sei anni di ritardo, avevo finalmente realizzato il mio sogno di andare a vivere con lui.
Anche nella sua vita, intanto, erano avvenuti dei cambiamenti. Era stato in Cina, con l’idea di potersi trasferire lì ma, quando aveva scoperto che, per poter avere dei rapporti con il gentil sesso, avrebbe dovuto prendere l’aereo e andare i fine settimana a Hong Kong, era tornato in Italia, abbandonando anche lo studio del cinese. Aveva ormai 46 anni e la sua situazione si faceva ogni anno più precaria, così, un suo caro amico lo aiutò a trovare un posto come correttore di bozze. Dovette dunque arrendersi, a quel punto della sua vita, all’orrendo giogo del lavoro quotidiano.
Il mio arrivo repentino e imprevisto – ebbe infatti un preavviso di soli dieci giorni – dovette essere per lui un fulmine a ciel sereno.
Rispetto a sei anni prima però, c’era un vantaggio: ormai ero grande e non ci sarebbe stato bisogno di occuparsi di me. Anzi, in fondo al suo cuore – e probabilmente neanche tanto in fondo – sperava che sarei stata io a occuparmi di lui. Nel suo scarno universo affettivo, il vuoto lasciato dalla sorella Marisa era sempre presente. Lui sperava che, come Biancaneve, mi sarei messa a spazzare cantando, immersa in un mare di bolle e che avrei preparato manicaretti il cui profumo si sarebbe propagato fino all’ingresso del palazzo, io invece speravo di trovare finalmente un padre.
Ci deludemmo a vicenda.
La sua casa, tanto per cambiare, era di nuovo in un seminterrato destinato a un unico abitante e quindi piuttosto angusta; consisteva di una stanza da letto, un bagno, una minuscola cucina e una specie di salottino; tutto era incredibilmente ordinato e incredibilmente sporco. La mia tendenza era opposta, preferivo vivere nel disordine ma in ambienti puliti e già questo dunque ci situava in mondi incompatibili. Comprò per me una brandina pieghevole e la sistemò nel salottino.
Il suo sogno di avere una figlia abile in cucina e desiderosa di viziarlo svanì nel corso del primo mese; dopo anni di vita randagia, l’unica cosa che sapevo fare con un certo talento era quella di aprire scatolette. Così continuò a essere un accanito frequentatore di rosticcerie, con l’unica differenza che non mangiava più supplì e polpette da solo, ma con sua figlia accanto.
Ci vedevamo poco.
Io uscivo all’alba per raggiungere Cinecittà e tornavo per la cena, lui a quell’ora era al lavoro, almeno così mi diceva, e rientrava molto tardi. Dato che ormai soffriva di insonnia, veniva nel salottino, accendeva la sua minuscola televisione e, fumando ininterrottamente, guardava film tutta la notte seduto ai piedi della mia brandina.
Qualche volta, la domenica, andavamo insieme al ristorante, magari in un altro quartiere, al Flaminio, al Portuense, per simulare una gita fuori porta. Prima di quelle nostre uscite, trovava sempre qualcosa da ridire sul mio abbigliamento. Secondo lui, infatti, oltre che Biancaneve, avrei dovuto essere anche un’antesignana di Jessica Rabbit: calze a rete, tacchi a spillo stratosferici, scollatura vertiginosa e passo felpato da pantera.
Per sua sfortuna, io invece ho sempre preferito vestirmi come un atleta della nazionale cecoslovacca in trasferta e non di rado capitava che il cameriere, facendo avvampare di rabbia mio padre, chiedesse: “Il giovanotto, cosa prende?”
Avevo già allora il 42 di piede e quando andavo nei negozi e chiedevo delle scarpe, ricevevo sempre due tipi di risposta: “È per un regalo?” o “La signorina è tedesca?” Come se non bastasse, ho sempre avuto mani enormi e braccia lunghissime, spalle molto larghe, suoi doni genetici, oltre alla totale assenza di una qualsiasi traccia di vitino di vespa.
Né lo spirito né il corpo di Jessica Rabbit mi sono mai appartenuti, ho sempre prediletto una femminilità nascosta, piuttosto che esibita. La penuria di spasimanti, per la gioia di mia nonna, non è mai stato un problema, ho avuto piuttosto, fino a un certo punto della mia vita, il problema contrario.
“Magari un altro paio di scarpe, eh…?” diceva mio padre, guardandomi i piedi, perplesso, e io, come tutta risposta, scrollavo le spalle, indifferente.
Tanto, però, lui aveva le idee chiare su come io dovessi vestirmi e comportarmi, altrettanto io avevo poche idee e confuse su come dovesse essere un padre; e non ebbi neppure modo di chiarirle perché, nonostante il passare degli anni, lui continuò a essere prigioniero del suo solipsismo. Non mi chiedeva niente, non mi vedeva, non mi parlava di cose che potessero in qualche modo riguardarmi. Se, durante quei pranzi, invece di sua figlia, avesse avuto davanti un cartello con due occhi dipinti, sarebbe stata la stessa identica cosa.
Nei momenti vuoti, magari mentre tagliava l’abbacchio, cercavo di insinuarmi nei suoi ripetitivi monologhi, parlandogli della scuola, dei miei compagni, dei miei sogni; appena chiudevo bocca, però, lui riprendeva implacabile il suo disco nel punto dove l’aveva interrotto. Come un giradischi rotto, amava far ripartire i suoi 33 giri – come li chiamavamo io e mio fratello – sugli stessi argomenti. Quello che era ancora in auge, allora, era il long playing che raccontava delle scorrazzate di Tamerlano e Gengis Khan tra la Cina e le steppe dell’Asia centrale. Un altro disco che rimetteva in continuazione riguardava il mondo degli ideogrammi cinesi, a suo avviso capaci di interpretare la realtà in modo molto più profondo delle nostre 21 lettere. Seguiva poi quello sulla politica italiana, il cui refrain più ripetuto era: “Una banda di pagliacci.” C’erano poi alcuni 45 giri, tra i quali spiccava quello che riguardava il problema delle tigri in India e dell’orso marsicano in Abruzzo. Com’era possibile infatti, ripeteva, che nessuno avesse il coraggio di dire che bisognava prendere in mano il fucile e sterminarli, invece di spendere soldi per proteggerli?
Con il tempo ho capito che ogni conversazione con lui non era molto diversa dal camminare su un terreno minato: per non scatenare uno dei suoi ossessivi ritornelli, bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi. Prima di aprire bocca, quindi, dovevo immaginare tutti i possibili collegamenti, logici e illogici, che quella mia frase avrebbe potuto mettere in moto nella sua mente e agire di conseguenza. Se intuivo che una mia parola era in grado di scatenare il disco, cambiavo bruscamente direzione.
Ero troppo giovane, troppo inesperta – troppo desiderosa di avere almeno uno straccio di padre – per rendermi conto che lui era completamente alcolizzato e che, come tutte le persone prigioniere di una dipendenza, era assolutamente incapace di accorgersi di chi gli stava accanto. I figli hanno un bisogno assoluto di ammirare i genitori, di esserne orgogliosi; sono disposti ad aggrapparsi a qualsiasi cosa pur di immaginare in loro qualcosa di degno e di grande e, quando questo non avviene, un’ombra di umiliazione e di degrado si stende sulla loro vita, come ho scritto in una delle pagine che amo di più in Ascolta la mia voce.
Non ricordo quanto sia durata questa nostra convivenza; so solo che, a un certo punto, trovai un’altra sistemazione – una stanza in affitto in un fatiscente appartamento abitato da studenti fuori sede e mi trasferii lì con le mie poche cose.
Gli studi al Centro sperimentale erano purtroppo confusi e inquinati da un livello asfissiante di ideologia. Nella realtà, il corso di regia non esisteva più perché il regista era considerato ormai come il frutto malato di una società borghese e individualista. Con mia grande sorpresa, scoprii che la scuola che stavo frequentando avrebbe rilasciato, alla fine dei tre anni, il più democratico e proletario titolo di “Addetto alle comunicazioni audiovisive”. Se l’avessi saputo prima, avrei frequentato direttamente la Scuola Radio Elettra!
Così, una volta conseguito il diploma, ho preferito non ritirare il modulo cartaceo; sarebbe stato ridicolo appendere in casa un titolo del genere quando non ero in grado di mettere neppure uno spinotto a un videoregistratore. Non esistevano più, in quegli anni, i corsi individuali – di montaggio, fotografia, scenografia, recitazione –, perché in un mondo davvero democratico tutti dovevano sapere fare tutto e nessuno doveva primeggiare sugli altri.
Naturalmente, le storie che avrei voluto raccontare non interessavano a nessuno. Gli argomenti più in voga erano: le condizioni dei metalmeccanici, il movimento di lotta democratica delle prostitute e le dittature del Sudamerica. Perciò, non essendo ferrata in nessuno di questi temi, al momento di scegliere il saggio di esame al secondo anno, mi unii a un gruppo di studenti, per lo più stranieri, che stava mettendo in piedi un laboratorio di cinema di animazione.
La mente del gruppo era un ragazzo, o meglio un giovane uomo, dato che aveva superato i trent’anni, che veniva dall’Argentina. In breve diventammo molto amici. Aveva una compagna italiana e scriveva poesie, io andavo spesso a casa loro e lì stavo fino a tardi ad ascoltare i suoi versi. Enrique – che poi è tornato in Argentina e non è diventato regista ma scrittore – è stato la mia porta sul grande e meraviglioso universo della letteratura latino-americana.
Le quattro ore che, ogni giorno, passavo sui mezzi, per raggiungere e tornare da Cinecittà, le dedicavo tutte alla lettura dei romanzi. Seduta o in piedi, aggrappata a improbabili appigli, sbattuta avanti e indietro dalle improvvise frenate, schiacciata tra corpulente massaie e le mani morte degli impotenti, continuavo imperterrita a vivere, senza mai distrarmi, le avventure dei miei eroi.
Nei fine settimana, con Enrique e altri squattrinati compagni fuori sede, battevamo in modo instancabile tutti i cineclub della capitale. Per il cinema di qualità, quelli furono anni davvero straordinari: Wim Wenders, Fassbinder, Tarkovskij, Truffaut; ogni serata era un susseguirsi di emozioni, di intuizioni, di nuove aperture mentali. Tutta quella ricchezza ci metteva in uno stato di felice eccitazione, facendoci dimenticare per alcune ore il clima di terrore in cui era sprofondato il paese.
Il giorno in cui morì Giorgiana Masi, a Ponte Garibaldi, ero vicinissima al luogo del delitto; non stavo manifestando, ma semplicemente tornando da una visita medica. Ricordo le cariche, i lacrimogeni, gli spari, la fuga in un bar un attimo prima che le saracinesche venissero abbassate.
Venni a sapere del rapimento di Aldo Moro appena arrivai al Centro sperimentale. Le lezioni erano state annullate e io mi sedetti sui gradini d’ingresso con la testa tra le mani. Ero convinta che, da lì in poche ore, ci sarebbe stato un colpo di stato e tutti noi avremmo dovuto fuggire, mettendoci in salvo da qualche parte.
Mi rammaricai di essere uscita di casa con gli zoccoli, non lo facevo mai; anche il giorno del terremoto avevo delle infradito ai piedi. Così, su quei gradini, pensai che il titolo del film della mia vita potesse essere Una fuga in ciabatte.
Nel frattempo, avevo cambiato diverse volte sistemazione, intervallandole con momentanee soste nel seminterrato. Il periodo più lungo lo trascorsi in una specie di comune pazzoide. Vivevamo affastellati gli uni sugli altri, in una promiscuità poeticamente rivoluzionaria, sotto i tetti spioventi di una casa del centro storico. La soffitta era priva di abitabilità e, quando pioveva forte, dovevamo correre con le bacinelle dappertutto, mettendo delle plastiche sul letto, sopra le coperte; l’acqua faceva plic plic, rimbalzando sulla superficie liscia, proprio mentre tentavi di addormentarti.
Avevamo un unico minuscolo gabinetto vicino le scale e un’altrettanto minuscola cucina. Tra il fornello e il lavello, era incastrata una vasca da bagno, di quelle sedute, che penso esistano ormai soltanto nei negozi di antiquariato. Uno di noi cucinava, mentre l’altro faceva il bagno senza alcun problema di pudore.
Ero finalmente riuscita a portare a Roma la mia adorata cagnolina Bella, che si trovò a condividere la casa con un altro cane, una sorta di spinoncino nero con il quale, per fortuna, andò subito d’accordo. Penso che, oggi, ci avrebbero definiti dei punkabestia, ma a quei tempi eravamo soltanto degli eccentrici abitatori del nostro tempo.
In quella casa, sdraiata sotto il telo di plastica, lessi per la prima volta Delitto e castigo. Terminata la lettura, venni colta da una febbre altissima, priva di qualsiasi sintomo. L’unica malattia di cui soffrivo erano le parole che avevo appena letto.
Il più vecchio tra noi aveva già quarant’anni e a me sembrava più vecchio di Matusalemme. Era stato un militante di Potere operaio, coinvolto credo anche in qualche azione piuttosto grave, ma proveniva da una famiglia di antica nobiltà. Ricordo ancora il suo imbarazzo quando un giorno, per la strada, una signora anziana e di umile aspetto lo abbracciò con devozione chiamandolo “marchese”. Malgrado la sua militanza, era un uomo raffinato e decadente. Amava molto l’opera e aveva insegnato al suo cane a cantare seguendo le arie della Callas. Buon conoscitore della letteratura, aveva fatto del verso di Baudelaire, il faut être toujours ivre, il motto della sua vita. Era capace di bersi il dopobarba appena sveglio, come fosse caffè. La sua compagna era un’attrice, mentre io dividevo il mio sottotetto con Maria, un’aspirante ballerina di Gallarate.
Il motto del padrone di casa divenne anche quello di tutti noi.
Eravamo sempre e completamente alterati da qualcosa. Per questo il giorno del rapimento Moro arrivai a Cinecittà con gli zoccoli.
Il ricordo di quegli anni è di una grande – ma non triste – confusione. Vivevamo in un’assoluta e allegra anarchia, totalmente priva di qualsiasi rapporto con la realtà. Recitavamo poesie, inventavamo recite, ci travestivamo, giravamo la notte con i nostri cani per le strade vuote, intonando pezzi di opera.
Quando ripenso a quegli anni di confusa alterazione, li vedo come la prima, e unica, vacanza da me stessa che mi sono concessa nella vita. Con un colpo di spugna, avevo cancellato il mio doloroso passato; sul futuro non mi facevo più domande. Roma, con la sua mollezza tentacolare, con l’infamia della sua bellezza trasandata, con il suo vivi e lascia vivere, era l’antidoto alla forsennata durezza della mia infanzia. Le viti, le gabbie, le corazze si stavano allentando. Non sapevo perché, non sapevo neppure dare un giudizio sul quel mutamento. Avevo semplicemente smesso di interrogarmi. Vivevo e basta, e questo era sufficiente per riprendere il fiato.
Se Kafka si fosse trasferito a Napoli per qualche anno, probabilmente avrebbe vissuto più a lungo e più felicemente.
In tempi di globalizzazione, sembra ridicolo pensare all’influsso dei luoghi sulle persone, sugli artisti e sulla loro opera, eppure è così: ciò che sta fuori determina in modo non indifferente ciò che sta dentro.
Comunque, un giorno, in quel bailamme comparve una persona che sapevo essere un noto esoterista. Veniva spesso a pranzo da noi perché gestiva una libreria specializzata poco distante. Amava molto parlare di alchimia e di kabbalà e le sue conversazioni mi introdussero nei misteri di Praga.
Un pomeriggio di relativa quiete mi chiamò al suo fianco – parlava sempre sottovoce – e mi chiese la mia data di nascita. Il giorno dopo ricomparve:
“Ti devo parlare…”
Vagamente inquieta, gli andai vicino e mi sedetti al suo fianco. Mostrandomi il disegno del mio quadro astrale, chiese: “Ti dice qualcosa?”
Scossi la testa, non mi diceva nulla.
Continuò a parlare per un po’, usando termini tecnici per me astrusi – fuoco, terra, acqua, cuspidi, case, medio cielo, opposizioni, triangolazioni – poi, a un certo punto, sfiorò con il dito una parte del disegno e osservò:
“Vedi, è proprio qui che accade…”
“Accade che cosa?” domandai perplessa.
“Tra i 35 e i 40 anni la tua vita verrà investita da un brusco e potente cambiamento.”
“Morirò…?”
“No, diventerai un’artista famosa.”
Quella previsione mi mise in uno stato di grande agitazione. Frequentavo, è vero, la scuola per addetti alle comunicazioni audiovisive, ma quella via non mi sembrava in alcun modo collegata a una dimensione molto più alta quale consideravo quella dell’arte. Nella mia mente ancora ingenua, l’artista per eccellenza era rimasto il musicista, così la prima cosa che dissi, con tono desolato, fu: “Ma se non so suonare neppure uno strumento!” e poi, pensando alla mia compagna di camera, aggiunsi: “E non so neanche ballare…”
Il mio interlocutore rimase immobile come una sfinge.
“Dimmi almeno qualcos’altro,” lo incalzai, scioccata da quel vaticinio, “dammi un segno, una direzione in cui poter andare…”
La sfinge socchiuse gli occhi; intravedevo le pupille baluginare come spilli.
“Non posso,” mi rispose. “Il cammino è il tuo. Quando sarà giunto il momento giusto, capirai.”