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Nello sviluppo di una persona, il sadismo e il non amore possono creare delle profonde destrutturazioni alle quali è difficile porre rimedio.

È un po’ come quando, nel corso di un esperimento, un oggetto viene sottoposto a una potente forza d’urto: dove e in che modo si deformerà? si creeranno delle fessure, delle fratture? oppure esploderà? Nessuno lo può dire. Non si può mai prevedere, infatti, in che punto e quando cederà la struttura. Oltre alla certezza del cedimento, non c’è altro.

Naturalmente, all’inizio non te ne accorgi, sei sicuro di mantenerti saldo sulle tue gambe, non ti rendi conto di esserti trasformato in un camaleonte: la tua pelle sta prendendo ogni sfumatura dell’ambiente che ti circonda; dalla pelle, il mutamento lentamente viene assorbito e scivola al tuo interno, trasformandolo; cammini apparentemente tranquillo e non sai ancora che i tuoi occhi non sono già più i tuoi occhi, il tuo cuore non è più il tuo cuore.

L’odio scava cavità enormi dentro le persone. Come il bacillo di Koch, giorno dopo giorno, divora i tuoi polmoni; tu pensi di essere una persona e invece sei una cavità carsica; la temperatura è sempre bassa, per questo senti il bisogno di scaldarti.

Com’è possibile, però, accendere il fuoco nelle viscere della terra? Mancando le prese d’aria, in breve l’ossigeno viene a mancare; al posto delle fiamme, il fuoco produce fumo; il fumo esala ossido di carbonio e tu, invece di scaldarti, rapidamente muori.

Che errore pensare all’odio come qualcosa che infiamma!

È l’amore che arde, l’odio può soltanto raggelare.

La distruzione che inneschi nella tua vita è soltanto un tentativo di scaldarti.

A casa la situazione diventava di mese in mese più difficile. Tornavo a casa da scuola e, appena ci sedevamo a tavola per mangiare, l’esordio era: “Tua figlia ha cercato di ammazzarmi.”

La signora D, F, G, invece di rispondere “non dire cretinate” o di chiamare l’ambulanza del soccorso psichiatrico, annuiva gravemente. A sentire le sue varie versioni, io ero capace di attentare alla sua vita in molti modi, ma i preferiti erano quelli più infidi, degni dei banchetti dei Borgia: veleni versati nell’acqua, schegge di vetro o invisibili chiodi mescolati abilmente nelle vivande. L’unica arma che avevo era ripetere ogni volta: “Non è vero!” ma la mia era la voce del bambino che grida: “Il re è nudo.”

La favola si era trasformata in un film dell’orrore, in un Grand Guignol, pur appartenendo sempre al mondo del fantastico, perché non aveva alcun rapporto con la concretezza del reale. La verità dei fatti era assolutamente inessenziale; nella realtà alterata dalla pazzia, la medaglia aveva solo due facce: la favola della felicità, da recitare a beneficio del mondo esterno, e il film dell’orrore, che cambiava ogni giorno eppure era sempre monotonamente uguale e che si svolgeva tra le pareti di casa.

Quando, in un palazzo, viene compiuto un omicidio, le risposte che i vicini danno ai giornalisti denotano spesso sempre di assoluto stupore: “Una bravissima persona, tranquillo, educato, mai un problema.”

L’assassino.

Vivevo perennemente immersa in un labirinto di specchi deformanti. All’inizio avevo una memoria ancora chiara della mia immagine, ma con il tempo iniziai a smarrire ogni certezza di me stessa.

Charles Darwin racconta di aver perduto completamente la sua fede in un Dio buono osservando le abitudini di certi icneumonidi. Non si dava pace, infatti, che potessero esistere delle creature tanto crudeli, capaci di paralizzare la loro preda – solitamente un bruco succulento – trafiggendola con il loro aculeo per mantenerla in vita. Questi particolari insetti, infatti, hanno bisogno di cibo fresco per le loro larve che, di lì a poco, depositeranno proprio sulla preda viva, della quale esse si ciberanno, giorno dopo giorno.

L’impossibilità di stabilire un rapporto con il reale, mi aveva trasformata lentamente in quel bruco. Ero paralizzata dal dardo velenoso, non riuscivo a muovermi, a chiedere aiuto. Del resto, che aiuto avrei potuto chiedere? Agli occhi degli estranei, la recita procedeva senza alcuna crepa.

Lentamente, la certezza di che cosa fosse vero e che cosa no cominciò a confondersi anche nei miei pensieri. Chi ero, che cosa stava accadendo intorno a me? Non sapevo più rispondermi.

Mio padre, nel frattempo, era scomparso; non si faceva vivo da più di un anno; anche se avessi voluto, non avrei saputo dove cercarlo, come trovarlo. Mio fratello maggiore era uscito un giorno di casa dicendo “ciao” e, invece di andare a scuola o a trovare qualche fidanzata, aveva raggiunto la Danimarca in motorino e lì si era fermato a lavorare presso un gelataio.

Uno dei lati positivi di mia madre era la totale assenza di ansia. Quella sera, non vedendolo tornare a casa, non si preoccupò affatto. No news, good news era il motto che le permise di veleggiare serena attraverso la tempestosità dei giorni.

Un giorno, tornando da scuola, non trovai Red ad aspettarmi come al solito. Entrai in cucina e vidi la sua brandina chiusa e piegata in un angolo, il suo collare rosso con la medaglietta appeso alla manopola del termosifone. Mia madre stava cucinando, vedevo le sue spalle.

“Dove il cane?” chiesi.

Continuò a tagliuzzare, stava preparando un soffritto, credo.

“L’abbiamo dovuto uccidere,” rispose senza voltarsi, “era malato.”

Naturalmente il cane non era affatto malato, semplicemente era diventato una presenza sgradita. Il mio povero, innocente, sgraziato Red, l’unico puntello affettivo rimasto nella mia vita – sparito anche lui.

Nelle sere d’estate, le falene sbattono le ali confusamente attorno alle lampade: creature forgiate per la notte, davanti a una luce imprevista e violenta smarriscono completamente la direzione del volo.

A un tratto, di colpo, anch’io persi l’orientamento.

Cominciai allora a vivere nelle sale d’attesa degli psichiatri.

Mia madre raccontava che, fin dalla nascita, piangevo in modo diverso dagli altri bambini, che già all’asilo la maestra l’aveva messa in guardia su una possibile malattia mentale che covava sotto quelle innocue treccine. Alla fine, anche lei aveva dovuto arrendersi a quell’evidenza, ce l’aveva messa tutta per salvarmi, ma non ce l’aveva fatta. Del resto in famiglia c’erano già stati dei casi di persone non proprio normali.

Quando un dottore, alla fine del suo accorato racconto, le ingiunse di presentarsi con il marito, la seduta seguente, mia madre si alzò di scatto, dicendo: “È lei la pazza, non noi!” e uscì sbattendo la porta indignata.

Non rimise più piede in quello studio.

Fu in seguito a questo episodio che venne deciso il mio allontanamento da casa. Cominciai così un lungo peregrinare tra collegi, case famiglia, stanze in affitto; provavo dolore, certo, desolazione, ma anche un certo sollievo. Finalmente dormivo tranquilla, mangiavo in pace, comodità alle quali da troppo tempo non ero più abituata.

Un giorno, lo psichiatra mi diede un passaggio in macchina e, prima di scendere, – non mi ricordo se in risposta a una mia domanda o meno – mi disse: “Tua madre è una persona gravemente malata.”

Gong! Gong! Gong!

A quella frase mi aggrappai come a una scialuppa di salvataggio. Dunque, tutto quello che avevo intuito era vero. La A, la B, la C, la D esistevano! Allora non avevo alcuna colpa, non c’era nessuna pazzia in me, si trattava piuttosto di qualcosa di sottile, di oscuro, di metafisico che, fin dalla nascita, aveva avvolto e condizionato la mia vita.

La fine di questo tormentato periodo della mia vita lo voglio concludere con il brindisi che era solito risuonare in quella casa, durante i vari compleanni e in altre occasioni liete della vita.

Cin cin, cin cin, prosit!

Calici in alto e tutti insieme, in coro: “Che la tua morte sia più atroce della mia!”

Scuola di empietà.