32.

Molte delle persone di cui ho parlato in questo libro non sono più su questa terra.

Il primo ad andarsene è stato mio padre. Con il tempo la sua vita era diventata sempre più solitaria e bizzarra. Non avendo aderito al suo credo darwinista, mi sono occupata di lui fino all’ultimo nei pochi spazi che lui lasciava aperti. Finché ho vissuto a Roma, cenavamo insieme con una certa regolarità, quando poi mi trasferii in campagna era lui ogni tanto a venirmi a trovare.

Negli ultimi anni lavorava a Pomezia, che raggiungeva ogni mattina a bordo di una macchina di terza mano, non più una spider. Quando, a sessantacinque anni, andò in pensione, venne da me per festeggiare. Gli regalai una pipa, per l’occasione, e ne fu felice come un bambino; continuava a girarla tra le mani, ripetendo: “Non ho mai ricevuto un regalo in vita mia.”

“Avrò un mucchio di vantaggi, adesso,” ripeteva. “Lo sconto al cinema, quello sui treni… la tessera ridotta per gli autobus.” Vedeva il periodo che gli si stava aprendo davanti come un’età dell’oro.

Tornato a Roma, si procurò la tessera dell’Atac Intera rete e cominciò a girare con gli autobus, dalla mattina alla sera. Ogni tanto mi chiamava: “È proprio un lusso, sai, venir scarrozzati tutto il giorno da un autista.” Spesso i miei amici da Roma si facevano vivi al telefono, dicendomi, di volta in volta: “Ho visto tua padre sulla Tiburtina… al Portuense… sulla Nomentana… a Prati… a piazza dei Cinquecento.” “Cosa faceva?” chiedevo allora. “Niente,” mi rispondevano, “camminava…”, “guardava fuori dal finestrino…”, “stava seduto su una panchina”.

A volte spariva totalmente dal radar, come le navi nel triangolo delle Bermuda. Staccava il telefono e, non avendo il cellulare, era impossibile da raggiungere.

“Morirò a settant’anni, come mio padre,” ripeteva spesso, “ma può darsi anche che mi uccida prima.”

È stato lui a ispirarmi il solitario declino del professor Ancona, in Ascolta la mia voce.

Non aveva mantenuto rapporti con gli amici di un tempo e penso che avesse archiviato anche l’argomento “donne”. Stava sempre nei suoi pensieri, sempre più difficili da scrutare; non dimostrava affatto la sua età, sembrava più un bambino; si meravigliava, sorrideva per piccole cose, come se vedesse per la prima volta ciò che lo circondava.

Non credo abbia mai letto nessuno dei miei libri ma, quando ho avuto successo, era contento di portare il mio stesso cognome. Più che il successo in sé, credo lo commuovesse il fatto che, grazie ai miei diritti d’autore, in qualche modo fossi stata fedele al suo credo, che era quello di fuggire, finché possibile, il posto di lavoro. “Non farti incastrare da nessuno, non farti inquadrare,” mi ripeteva sempre, “sono tutti mezze calzette.” Si riferiva ai giornalisti che, grazie al suo posto di correttore di bozze in un noto settimanale, conosceva molto bene. Essendo un uomo colto, con interessi soprattutto in campo storico, inorridiva per gli innumerevoli errori di grammatica che gli toccava correggere.

Quando finalmente, nel ’98, lo invitai a inaugurare la mia prima vera casa, in campagna, non si stancò di camminare avanti e indietro, ripetendo estasiato: “Ma qui è tutto straordinariamente grande!” L’appartamento in cui visse gli ultimi anni era di appena quindici metri quadrati, forse per questo i centossessanta della mia gli sembrarono una reggia. Dato che era stato sfrattato dal suo monolocale, avevo comprato per lui un appartamento accanto al mio, a Roma, ma non fece in tempo ad abitarlo.

L’ultima volta, infatti, che i suoi passi risuonarono sul cotto del mio pavimento di campagna fu nel ferragosto di quello stesso anno; aveva da poco compiuto i settant’anni e avevamo passato quella giornata insieme a mio fratello maggiore e alle sue figlie.

Mentre lo accompagnavo alla macchina, improvvisamente si girò verso di me e mi disse: “Ti devo parlare presto, è una cosa importante.”

Quella richiesta mi stupì, in quarant’anni anni non si era mai rivolto a me in quel modo. Di lì a qualche giorno sarei partita per una vacanza in montagna, così gli promisi che l’avrei chiamato al mio ritorno.

Molte volte, negli ultimi anni, avevo immaginato la sua morte; ero quasi certa che avrebbero trovato il suo corpo inerte in un deposito degli autobus, a fine corsa, oppure afflosciato da giorni su una panchina, con i colombi che gli passeggiavano intorno. Sarebbe stata una pietanza sopraffina per i giornali. “Muore barbone il padre della famosa scrittrice”, “L’aveva abbandonato nella solitudine e nell’indigenza” e via dicendo, con chicche di questo genere.

In realtà riuscì a fare molto meglio.

Rientrata dalla montagna, lo chiamai come promesso, ma non rispose. Piuttosto normale, lo faceva spesso. Riprovai ancora il giorno dopo, a ore diverse e la situazione non cambiò. Al terzo giorno, con un sentire tutto viscerale, capii che era morto.

Telefonai allora a un’amica a Roma – io ero a casa mia, in campagna – e le chiesi di andare a vedere se c’era la macchina in garage. C’era. Al citofono, però, non rispondeva. Così la pregai di chiamare i pompieri, poi telefonai a mia madre e dissi: “Credo che il papà se ne sia andato.” “Dimmelo con certezza,” mi rispose, “perché devo andare al cinema con le mie amiche.”

Mentre stavo per salire in macchina per raggiungere la capitale, qualcuno mi chiamò, dicendo: “È morto, ma pare non di morte naturale. Probabilmente è stato ucciso durante qualche incontro erotico.” Ci poteva essere un banchetto più luculliano per lo spirito da iena che aleggia nei mass media? Quando ancora ero in viaggio, sull’autostrada, i titoli dei telegiornali infatti strillarono: “Trovato uomo nudo morto a casa della Tamaro.”

Al mio arrivo a Roma, la ressa di giornalisti e telecamere sotto casa sua era così fitta che la questura mi mandò a prendere con un’auto civetta a piazzale Clodio. “La scientifica è già sul posto e sta facendo tutti i rilievi,” mi dissero. “L’hanno trovato nudo, pieno di sangue, con una bottiglia di vino accanto e un tavolo sfasciato.”

Pare che fosse presente pure una pistola sulla scena del delitto.

Scortata dagli agenti, superai la muraglia di flash e salii all’appartamento, dove trovai, con mia somma felicità, come magistrato di turno, Lucia, una delle mie amiche più care, che mi disse subito. “Non preoccuparti, è tutto nelle mie mani.”

Entrai e vidi mio padre disteso di traverso sotto un telo bianco; praticamente occupava tutta la casa. C’erano molte persone nella stanza, vidi anche qualcuno che stava cercando di arrampicarsi sul balcone per fare la foto milionaria: la scrittrice di libri sentimentali che singhiozza davanti al padre morto durante un’orgia.

Non sollevai il telo perché la mia amica aveva già fatto il riconoscimento, così chiesi di stare un po’ sola con lui. Mi misi in seizan accanto a lui e lo guardai. Soltanto una mano e i suoi capelli sporgevano dal lenzuolo: capelli ancora neri, sottili, da bambino, la mano identica alla mia, soltanto un po’ più grande.

Alzando gli occhi, vidi la spina del telefono staccata dal muro e capii che era caduto mentre stava cercando di raggiungere l’apparecchio per chiedere aiuto.

Non lontano dal suo corpo, già segnato dalla scientifica, c’erano un foglietto e un pennarello caduti a terra; prima di morire aveva cercato di scrivere qualcosa. Sicuramente era per me, perché sapeva che sarei stata io a trovarlo. Sul foglio, soltanto una linea dritta, avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, ma io, chissà perché, intravidi l’inizio di una P. La P di perdono.

Immersi in quel silenzio profondo restammo a lungo, lui e io, da soli.

Mi venne allora in mente una delle ultime volte che eravamo andati a cena insieme. “Sai,” mi confessò quella sera, “per tutta la vita ho cercato di capire cos’è l’amore, ma non ce l’ho fatta. Adesso mi sento molto smarrito.” Vedendo i suoi occhi inumidirsi, non parlai, ma mi ricordai la frase che suo padre amava ripetergli appena lo vedeva: “Eri tu che dovevi morire, non Marisa!” Così presi quella grande mano ormai rigida e fredda, l’accarezzai e gli dissi: “Adesso lo sai. L’amore saremmo stati noi, la vita che hai generato.”

Qualche giorno dopo, nel piccolo paese in cui vivo, celebrammo il funerale di nascosto, come carbonari. Volevamo evitare la stampa che, in quei due soli giorni, si era profusa in pezzi di rara oscenità. Da quando era famosa, l’aveva abbandonato nella sua miseria, aveva scritto la mezza calzetta dal manto maculato di turno.

Naturalmente, si scoprì che non era stato ucciso, ma aveva avuto un’emorragia interna provocata dalla cirrosi epatica.

Per il funerale venne da Trieste anche mia madre, preoccupata che la chiesa potesse essere vuota. “Era solo come un cane,” ripeteva, “chi vuoi che venga? Sarà una tristezza tremenda.”

Invece la chiesa era piena; c’erano, infatti, molte persone che volevano bene a me. Mentre seguivamo il feretro a piedi, lungo la strada contornata di querce che portava al cimitero, mio fratello minore disse: “Non ho la minima idea di chi sia la persona di cui sto seguendo la bara.”

Qualche giorno dopo, mia madre mi confidò che, quando sarebbe venuto il momento, avrebbe voluto essere seppellita con lui invece che con uno degli altri mariti. “Con lui, con Giovanni, il padre dei miei figli; l’uomo che ho sempre amato.”

Mia nonna se n’era andata già da tempo, purtroppo. La morte l’aveva colta nel ’92, ma la sua mente era sprofondata nel tunnel dell’Alzheimer già da otto anni.

Avevamo fatto un patto, noi due: che avrebbe vissuto almeno fino a cent’anni e in buona salute, come avevano fatto sua madre e la maggior parte delle sue amiche, ma lei tradì quel patto. A parte Illmitz, non ha potuto leggere nessun altro mio libro né rallegrarsi del fatto che fossi finalmente riuscita a pubblicarne uno, perché le tenebre l’avevano già avvolta.

È stata la mia anima gemella, la grande compagna della mia vita e averla dovuta accompagnare nel tunnel della malattia è stata una delle devastazioni della mia esistenza.

La zia Letizia, che pure aveva sette anni più della nonna, morì più o meno nello stesso periodo. Lo venni a sapere in un motel di Wolfsburg, durante un viaggio promozionale per il mio primo libro.

L’ultima volta che andai a trovarla, al momento del congedo mi mise in mano una busta. Aspettai di giungere sul lungomare di Barcola per aprirla. Con la sua bella grafia regolare, a matita, aveva scritto alcuni versi. Parlavano dell’impazienza sfinita di una madre che non riesce a morire, a tornare vicino ai suoi figli.

Camminai fino a Miramare, sforzandomi di trattenere le lacrime.

Mia madre pensava di essere destinata, geneticamente e per carattere, a una lunga vita. Se ne andò invece in un’età – settantadue anni – che, per i nostri tempi, viene ormai considerata ancora giovane, lasciandoci del tutto sgomenti. Eravamo cresciuti, noi figli, con la certezza che sarebbe stata lei a seppellirci. Del resto anche la bisnonna Dora – morta alla soglia dei cent’anni – quando mia nonna, sua figlia, andava a trovarla, le diceva: “Elsa, non so come farò quando tu morirai…”

Nella sua forza fuori dal comune, già da tempo si erano aperte delle crepe e, da quelle crepe, come nei grandi alberi che cadono schiantati da un fungo o da un coleottero, si era insinuato il male che in poco più di un anno l’ha portata alla morte tra atroci sofferenze.

L’essere diventata vedova – e soprattutto nonna – l’aveva negli anni un po’ addolcita.

Tra una vedovanza e l’altra, avevamo ripreso a frequentarci. Quando non era costretta a fare la madre, era una persona deliziosa, divertente, allegra, ironica, con cui era impossibile annoiarsi.

Avrei dovuto odiarla per come mi aveva trattata, invece ho scelto il cammino più lungo e impervio del perdono. Che cosa me ne sarei fatta dell’odio, una volta che lei fosse morta? Come una scheggia gelata sarebbe rimasto per sempre conficcato nel mio cuore.

L’odio è un veleno di cui bisogna liberarsi il prima possibile perché, in esso, non c’è alcuna possibilità che la vita risorga.

Conoscendo poi l’importanza della memoria, sapevo che sarebbe stato orribile sopravvivere avendo, al posto di una madre, un buco nero; come avrebbero potuto colmare le signore B C D E il grande vuoto che c’era alle mie spalle?

Così decisi di immergermi ancora una volta nelle tenebre e di andare alla ricerca della signora A. Dov’era finita, infatti, l’instancabile sferruzzatrice di copertine?

La vita saggia è quella che ricerca l’unità, mia madre invece, per tutto il corso dei suoi giorni, non ha fatto che inseguire la molteplicità. Il punto di svolta credo sia stato proprio il crollo del sogno familiare; da lì in poi ha assunto infiniti volti, uno più infelice dell’altro.

Rimasta sola, con una figlia accanto che sapeva occuparsi di lei – e di cui lei non doveva occuparsi –, poté finalmente abbassare la guardia. Abbiamo fatto due viaggi memorabili, insieme: uno in Israele, l’altro in Namibia. D’estate, la portavo in campeggio con me. Adorava quella vita fatta di brandine cigolanti, di sabbia, di picnic con scatolette. Forse, per la prima volta nella sua vita, si sentiva libera.

Un giorno, guardandola riposare sotto i pini marittimi, pensai che forse, in quell’istante, era davvero felice. E che cos’altro desidera un figlio, se non la felicità della propria madre?

Credo che mia madre mi sia stata grata di non averla mai giudicata; la libertà dal giudizio le ha permesso di aprire uno spiraglio in direzione dell’amore, verso quello che avrebbe voluto essere e che non era stata capace di essere.

Per i miei quarant’anni, mi regalò una radice di tiglio levigata in cui era evidentissima la figura di una madre che tiene raccolto tra le braccia un figlio. Poco prima di ammalarsi, poi, furtivamente mi mise in mano una scatoletta di legno con un piccolo cuore disegnato sopra e dentro un biglietto con su scritto: “Ti voglio bene, anche se non ti capisco.”

L’ho accompagnata per tutta la parte finale della sua malattia e le sono stata vicino anche nell’istante della morte, ho sentito la sua mano diventare da calda a fredda in pochi istanti. Considero un grande privilegio poter stare accanto ai morenti.

Erano le cinque e mezzo del mattino. Fuori soffiava una bora furiosa, una bora con neve e ghiaccio, come nel giorno in cui ero venuta al mondo. Aprii la finestra e feci entrare il vento nella stanza, permettendo a lei di uscire. Mentre aspettavo il medico legale e fuori albeggiava, mi ricordai quello che mi aveva confidato una volta: “Mi sentivo molto sola, da bambina. Un giorno in giardino, trovai un bulbo di narciso e feci amicizia con lui, lo portavo con me tutto il giorno e la sera lo mettevo sotto il cuscino.” Tutti abbiamo bisogno di perdono, abbiamo tutti bisogno di misericordia.

In salotto, ho fissato a lungo, nella cesta con i suoi gomitoli, il pullover che stava facendo per me e che non sarebbe mai riuscita a completare. Come la protagonista di Sotto la neve, incredibilmente, per tutto il corso della sua vita, non ha fatto altro che sferruzzare decine di magnifici maglioni destinati a me. In essi, forse, ha tentato di trasmettermi il calore che non era riuscita a darmi in altro modo.

Il giorno dopo la sua morte, nel suo comodino, nascosto tra altre riviste, ho trovato un numero di Mani di fata del 1957: là dentro, intatto, c’era il disegno della mia copertina rosa, azzurra e bianca.