30.

Da trent’anni tengo un diario, perché il diario è il preludio, la miniera, lo scavo necessario per affrontare qualsiasi altra forma di scrittura.

Non so dire quanto tempo sia passato tra quel momento su Ponte Sisto e la stesura del primo romanzo. Ricordo, nel frattempo, di avere scritto delle poesie ma, già scrivendole, mi rendevo conto che si trattava soltanto di una stazione di passaggio. La mia destinazione era un’altra.

So però che era ancora di maggio e avevo 23 anni.

Avevo trascorso una settimana a Vienna con il mio innamorato di allora e l’ultima sera eravamo andati a vedere Il flauto magico. Mentre la Regina della Notte cantava, qualcosa avvenne nella mia testa. La mattina seguente, dopo averlo accompagnato all’aeroporto – veniva da un paese dell’Estremo Oriente – mi trovai sola e senza nessuna voglia di tornare a casa.

Vidi allora degli autobus in movimento, davanti a me e, tra tutti, uno che aveva per destinazione Illmitz. Quel nome mi piacque – Illmitz, limite – e vi salii sopra.

Il paese, circondato da bassi laghi paludosi, si trovava ai margini della pianura ungherese, sui tetti nidificavano le cicogne. Mi sistemai in una pensione, aprii il quaderno che avevo con me e cominciai a scrivere. Scrissi ininterrottamente per venti giorni e, quando arrivai all’ultima pagina, capii di avere in mano un romanzo.

Tornata a Trieste, lo comunicai a mia nonna: “Ho scritto un romanzo,” dissi, con il tono con cui avrei potuto dire: “Ho combinato un pasticcio.”

Avevo fatto il possibile per resistere, cercando di distrarre in tutti i modi la mia attenzione da quel progetto ma, alla fine, quella forza straordinaria era riuscita a vincere ogni mia resistenza.

La nonna lo lesse. “Sarò forse parziale, ma a me sembra bellissimo,” commentò. Toccò poi alla sua amica Maria, che glielo restituì dicendo: “Meraviglioso!”

A quel punto, in quell’affettuoso triumvirato affettivo senile che seguiva i miei passi, giunse il momento di passarlo alla zia Letizia.

La zia Letizia!

Non era forse a causa sua che, in quegli anni, avevo scalciato tenacemente contro il demone che bussava alla mia porta? Provavo imbarazzo alla stessa idea di scrivere, avevo la sensazione di saltare su un cavallo già domato da altri fingendo che fosse selvaggio. Anche il padre della zia Letizia, infatti, aveva scritto dei libri nel tempo libero dal lavoro. Nessun editore però li aveva ritenuti degni di pubblicazione e così alla fine si era dovuto arrendere e li aveva stampati a sue spese. Per non confondere i due piani della sua vita, scelse uno pseudonimo.

Italo Svevo anziché Ettore Schmitz.

Per questo mi vergognavo a scrivere, mi sembrava ridicolo, se non impossibile, che nella stessa famiglia convivessero due scrittori. Inoltre, in un paese malato di familismo, mi pareva anche una cosa di pessimo gusto, come a voler saltare sul carro di chi ha già vinto, farsi illuminare da riflettori già accesi per altri.

Comunque, anche la zia Letizia lesse il libro e me lo restituì dicendo: “Hai proprio un bel talento!”

Lo feci poi leggere, a Roma, alla mia amica Irene, fedelissima e instancabile accompagnatrice di quegli anni di tormento. Posso dire che, grazie alla sua affettuosa e affettiva presenza, sono riuscita a compiere il grande salto: senza qualcuno, infatti, che ti tenga saldamente per mano come un bambino, è impossibile camminare a lungo sull’orlo del baratro. Anche a lei piacque molto.

Mia nonna mi disse allora che, se davvero ero una scrittrice, dovevo frequentare altri scrittori e così mi portò dall’unico scrittore che conosceva. Giorgio Voghera.

Voghera trascorreva la maggior parte delle mattine al Caffè San Marco contornato da un’allegra compagnia. Tra i fedelissimi, la cugina Alma Morpurgo e Piero Kern. Il caffè era molto diverso da quello attuale, risorto dopo il restauro; ogni cosa era polverosa, cadente, con vassoietti di inox in mano e le camicie ornate di aloni di sudore, i camerieri ciabattavano avanti e indietro per il locale.

Gli avventori avevano il posto fisso e quello di Voghera era nell’angolo in fondo a destra, una postazione ormai scomparsa. Si mormorava che proprio Giorgio Voghera fosse l’autore di Il segreto, un volume uscito da Einaudi negli anni sessanta firmato da un fantomatico “Anonimo Triestino”. Lui negava strenuamente, sostenendo che fosse in realtà un’opera del padre matematico che aveva sbirciato tra i suoi diari di ragazzo. Comunque, chiunque fosse l’autore, io avevo letto il libro e lo avevo amato moltissimo; non potevo non riconoscermi in quel bambino perennemente esitante, sempre assorto nei suoi pensieri.

E poi, con Voghera, condividevo la passione per le scienze naturali. Negli anni trascorsi in kibbutz, aveva studiato a lungo il comportamento delle galline e discutevamo a lungo di quello. L’etologia degli animali e quella degli uomini erano spesso al centro della nostra conversazione. Non eravamo mai soli ma sempre contornati da un cerchio di persone che mutava nel corso della mattina. C’era così il momento in cui si risolvevano insieme il rebus o la sciarada che Il Piccolo proponeva quel giorno e quello in cui si commentavano i necrologi, la frazione sospesa del witz o la discussione sull’ultimo libro di Singer e sulla teoria di Konrad Lorenz riguardo ai cani. Spesso la cugina Alma declamava i suoi ultimi versi e lo squilibrato di turno si affacciava nel consesso, ponendo domande a cui era impossibile rispondere. Voghera, con la sua barba sempre mal rasata e le sue magliette cosparse di macchie, ascoltava tutti tentennando lievemente il capo e dava a tutti una risposta come fosse un oracolo.

Io ero l’unica persona giovane della compagnia ma non provavo alcun disagio perché, fin da bambina, la mia felicità era stata vivere accanto alle persone anziane.

Quell’angolo del Caffè San Marco era l’ultimo lembo di una cultura europea che si stava ormai spegnendo. Non c’erano i computer nelle case e, nelle vite, ancora era contemplata la presenza dell’ombra. Il mondo della volgarità, del consumo, del fine che giustifica i mezzi, del protagonismo narcisista sparso ovunque, delle luci sempre accese e mai in grado di illuminare per davvero, della manipolazione planetaria delle menti, dell’informazione trasformata in sapere, era di là da venire. Soltanto mia nonna, a un certo punto, aveva cominciato a dire: “Sai, sono felice di morire perché il mondo che vedo avanzare non mi piace per niente.”

Quando lei si ammalò, non andai più la mattina al Caffè San Marco, perché nei miei brevi soggiorni a Trieste, tutte le mie energie venivano assorbite dalla cura della nonna. Mi è dispiaciuto molto perché Giorgio Voghera, con i suoi libri e con la sua persona, è stato uno dei compagni importanti della mia avventura.

Anche lui aveva letto il mio libro e lo aveva molto amato. Di sua iniziativa, l’aveva spedito all’Adelphi perché era stato amico di Bobi Bazlen e lo era ancora di Luciano Foa.

Fu proprio Foa in persona, a ricevermi, a Milano. “Il libro è interessante,” mi disse, gentile, “ma noi, purtroppo pubblichiamo solo autori morti.”

Non riuscii a salutare Voghera, prima della sua morte, ma penso che, se da qualche parte è, in qualche altro caffè, in un’altra dimensione, con la sua testa eternamente tentennante, sta dicendo ai suoi compagni: “Ghe vavevo dito che la putela la iera piena di talento…”

Anche la zia Letizia, nel frattempo, si era data da fare e aveva inviato il libro con una lettera di accompagnamento a tutti gli editori di sua conoscenza. “Mi pare che mia nipote abbia un certo talento per la scrittura,” aveva scritto. Ma tutti le risposero picche, scambiando quelle righe per il frutto di un compassionevole cedimento senile. Anch’io, come suo padre, secondo loro, avrei dovuto pagare per pubblicare i miei libri.

Internet non era ancora realtà, così come i contatti on line, le agenzie letterarie, sorte un po’ ovunque come funghi negli anni ottanta e novanta, e tutto il glamour che oggi contorna il mondo delle lettere. Cercare un editore voleva semplicemente dire andare all’ufficio postale, spedire i pacchi e tornare, dopo qualche mese, a ritirarli.

L’impiegata dell’ufficio sotto casa, una signora giovialmente formosa, dopo qualche anno si era appassionata alle mie sorti. “Novità?” mi chiedeva con affetto materno non appena comparivo allo sportello. Scuotevo sempre il capo. “No, nessuna.” Sul suo viso scendeva allora un afflitto sconforto.

Chissà se ha potuto rendersi conto che la mittente di quei pacchi che, per otto anni, sono passati tra le sue mani alla fine è diventata un’autrice letta da milioni di persone.

Lo zio Ettore e io condividiamo lo stesso segno zodiacale – il Sagittario; il medesimo ambito famigliare – l’ottusissima e geniale famiglia Veneziani; la città in cui siamo cresciuti – Trieste; i caparbi rifiuti degli editori; l’affetto di due persone – la zia Letizia e la nonna Elsa, che oltre a essere cresciuta nella stessa villa aveva condiviso per qualche tempo il suo esilio londinese; il fatto di essere dei corpi totalmente estranei alla cultura italiana; la tomba di famiglia e il patrimonio genetico di due antenati – Abramo Moravia e Sara Levi.

La sua opera e la mia si sfiorano in diversi punti. Il cane Argo del suo racconto è lo stesso cane Argo di Va’ dove ti porta il cuore, così come Augusta, la più giovane di casa Malfenti della Coscienza di Zeno, è ispirata alla madre della protagonista di Va’ dove ti porta il cuore.

Anche nel rapporto verso la psicanalisi, il nostro modo di affrontarla si intreccia e si sviluppa in modo conseguente. Un giorno, quando sono a tavola, alla madre della protagonista di Va’ dove ti porta il cuore spiegano che se qualcuno sogna degli spaghetti vuol dire che ha paura della morte perché gli spaghetti rappresentano i vermi che, dopo la morte, divoreranno il suo corpo. Allora lei, continuando a mangiare, obietta serenamente: “E se sogno i maccheroni?”

Ecco, questo era il rapporto che si intratteneva nella mia famiglia con la psicanalisi, considerata più che altro un gioco bizzarro, una fonte infinta di witz e di boutade, un meraviglioso intrattenimento letterario ma mai, per nessuna ragione, una pratica valida. “Non è bene per un uomo,” ripeteva spesso lo zio, “mostrare come è fatto dentro.”

Bruno, il fratello della mia bisnonna Dora, era stato a lungo in cura da Freud. Essendo omosessuale, la voce che a Vienna ci fosse un medico in grado di guarire quella che allora veniva considerata una malattia era giunta fino a Trieste e così lui aveva deciso di partire per la città austriaca.

“Io ho aderito volentieri alla tua prima cura con il dottor Freud,” gli scrive il padre Gioacchino, “pareva giovasse e non fu così, perché ne intraprendesti un’altra con un altro dottore, Groddeck, e poi un’altra con l’attuale, con che risultato? A che ti giovano codeste cure nelle quali non si vede chiaro e di nessun vantaggioso risultato? Durano tanto a lungo e senza vederne nemmeno prossima la fine! Essa ti ha costato un capitale e se prosegui così te ne costerà un altro…”

Era questo l’ambito in cui nacque il rapporto di Svevo, e di conseguenza anche il mio, nei confronti dell’ingombrante presenza della psicanalisi nel Novecento. “Se proprio ne abbiamo bisogno,” disse un giorno James Joyce allo zio Ettore, “teniamoci la confessione.”

La mia famiglia materna si trovò ad attraversare come una meteora l’epoca compresa tra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento e la loro apparizione sulla scena avvenne nel cuore della cultura di quel mondo variegato, complesso e profondo che era l’impero austroungarico.

Grazie a una fortunata formula segreta scoperta da un trisavolo, verniciarono gli scafi delle navi in tutto il mondo e, con la bulimia dei nouveaux riches, si abbeverarono a piene mani dell’arte e del pensiero del loro tempo. Musicisti, filosofi, scrittori e poeti si alternarono per anni sui divanetti di villa Veneziani. Adesso, vengono pubblicati libri, si tengono seminari su queste persone ma, allora, erano soltanto amici e conoscenti che venivano a prendere il tè.

Tra tutte le navi verniciate dalla mia famiglia, ci fu anche il Titanic e la mia bisnonna venne così invitata con il marito al viaggio inaugurale, ma quando scoprì di essere incinta e soffrendo di relative nausee, rinunciò a partire.

Forse per questo, grazie allo scampato pericolo dei miei avi, venni al mondo con delle grandi orecchie aperte, pronte a captare i primi segni del naufragio.