18.

“Milioni! Ti rendi conto?” raccontava mia madre. “Si chiamava Milioni! E come altro si poteva chiamare, se non così?”

Milioni, infatti, era il cognome del sacerdote patrocinatore alla causa di annullamento del loro matrimonio presso la Sacra Rota. E diversi milioni di lire – la legge sul divorzio ancora non esisteva – furono sicuramente quelli che mio nonno dovette versare per permettere alla sua amata figlia di tornare nubile.

Già, perché intanto le cose erano andate avanti. Mio padre si era trasferito definitivamente a Roma, dove viveva in improbabili seminterrati popolati di brandine pieghevoli e di minuscoli fornelli da campeggio per scaldarsi il cibo. Non aveva un lavoro, se non si considera lavoro il fatto di essere un bell’uomo e vivere nel turbine della dolce vita che, in quegli anni, impazzava nella capitale.

Bello come un attore americano, misterioso e sfuggente come si conviene a ogni vero seduttore, mio padre penso abbia vissuto molti anni alle spalle dei suoi amici e delle donne a cui aveva infranto il cuore.

Quando mi trasferii anch’io a vivere a Roma, mi capitò più volte di incontrare delle signore che, a sentire il mio cognome, esclamavano sognanti: “Tamaro! Conoscevo un uomo con quel nome…” e alle quali, immancabilmente, rispondevo: “Temo che sia mio padre.” Mi squadravano allora, stupefatte: “Davvero? Gianni non mi ha mai detto di avere dei figli.”

Aveva una natura estremamente frugale, natura che io ho ereditato. Sosteneva che, per esseri liberi, bisognava sottrarsi alla terribile schiavitù del desiderio. Era capace di vivere con la stessa indifferenza alle soglie della povertà o nel lusso estremo. La spider blu Pinifarina era stata cambiata con una 850, sempre spider e, schiacciato dentro quella scatoletta – era un uomo imponente –, andava in giro per la capitale a fare danni.

La prima volta che andai a trovarlo a Roma con mia madre, avevo otto anni e l’unica cosa che mi interessava davvero era poter visitare lo zoo. Tornai poi un paio di altre volte, ormai adolescente, insieme a mio fratello. L’unico motivo di felicità di quelle nostre visite era costituito dal fatto che ci portava alle bancarelle a comprare i vestiti americani che a Trieste era impossibile trovare. Jeans, maglioni blu che venivano da Livorno, e persino una giacca da marinaio con i bottoni d’oro che per mesi ho tolto soltanto al momento di andare a dormire. Quella giacca, infatti, mi sembrava il preludio della mia futura vita di navigatrice a bordo dei brigantini.

Ogni tanto, sempre più raramente, veniva a trovarci a Trieste. A ogni visita sembrava di ritorno da qualche località balneare. Arrivava con i jeans sfrangiati, le infradito ai piedi o con dei sandali che si era fatto fare su misura sulla costiera amalfitana. Veniva da Marrakech, ci diceva, o da Capri o da Taormina. Di carnagione molto scura – negli ultimi anni aveva assunto un’inquietante somiglianza con Saddam Hussein – sembrava appena uscito dal mare. Si scuoteva di dosso la sabbia e il sale e, per due o tre giorni, faceva la sua comparsata da padre, intervallando nei nostri confronti momenti di rabbia violenta – rivolti soprattutto a mio fratello – a confortanti momenti di meditazione filosofica sul vuoto assoluto delle nostre vite.

Nei lunghi periodi trascorsi sulle varie spiagge alla moda o in altri luoghi di sublime ozio, si era infatti avvicinato al pensiero indiano, diventando un devoto lettore di Krishnamurti. Sul suo volto aleggiava quasi sempre una sorta di mezzo sorriso, mentre i suoi occhi non ti guardavano mai davvero. Anzi, non ti vedevano proprio, perennemente immersi com’erano nella lontana visione delle pendici dell’Himalaya.

Le continue rimostranze per i soldi non lo toccavano minimamente, come non sembrava riguardarlo neppure il fatto che, dato che lui non ci dava una lira, anche lei non spendeva una lira per noi. Fu allora che incominciammo a intuire che avevamo due madri: la signora A e la signora B. E ognuna sembrava ignorare la presenza dell’altra.

Per tutta la nostra infanzia, abbiamo mangiato pochissimo. E anche da adulti, quando nostra madre ci invitava a pranzo, ci premuravamo di prendere qualcosa prima, per sopravvivere ai cinquanta grammi di pasta che ci sarebbero stati offerti. I nostri vestiti erano sempre consunti, riciclati.

Sul nostro benessere, insomma, si combatteva l’aspra e testarda battaglia dei loro principi. “Per te non spenderò neanche cento lire!” è stato il refrain che ha accompagnato il corso di tutta la nostra vita in famiglia.

Proprio per questo, fu una vera sorpresa quando un giorno – ero in quarta elementare – tornammo da scuola e trovammo i nostri due genitori, benevoli e sorridenti, ad aspettarci davanti a una tavola imbandita.

“Bambini, vi dobbiamo parlare,” esordì mia madre e a quelle parole iniziarono a tremarmi le gambe, perché il “vi dobbiamo parlare” era di solito l’anticamera di qualcosa di terrificante. Però, quel giorno, sembravano stranamente tranquilli. A mio padre mancava soltanto la fiammella sulla testa delle divinità induiste. Attendemmo quindi il seguito con un barlume di fiducia.

“Dobbiamo darvi una bella notizia.” Piccolo sospiro di felicità interiore. “Avrete un fratellino.”

Gong!

Barcollando, mio fratello e io raggiungemmo il bagno per lavarci le mani in silenzio, continuando a guardarci perplessi. Tornati a tavola, non riuscii a trattenermi dall’aprire la bocca e chiesi:

“Perché?”

Quella domanda rimase per un po’ fluttuante sopra la tavola imbandita, poi mia madre fece un respiro profondo, ci guardò con lo sguardo dolce della signora A e disse:

“Quando due persone si amano, nascono i bambini.”

Gong! Gong! Gong!

Ecco l’irruzione del koan nella mia vita! Tra il battito di una mano sola e quell’affermazione, che differenza c’era? Entrambi, per ottenere una risposta, richiedevano una brusca uscita dalle rassicuranti leggi della consequenzialità.

Quando due persone si amano, nascono i bambini.

Il bambino stava arrivando.

Ma le persone che si amavano, dov’erano?

Pur con questo koan che rimbombava dentro – a cui ho dedicato delle pagine nel racconto “Un’infanzia”, in Per voce sola – mio fratello e io fummo tutto sommato contenti di questa novità. Facevamo aprire la bocca a nostra madre e, da lì, gridavamo dei messaggi per nostro fratello. Preparavamo la culla, i completini, il bugigattolo vicino alla cucina che sarebbe diventato la sua stanza.

La signora A sembrava aver conquistato più spazi, mandando la B momentaneamente in cantina. Credo proprio che mia madre provasse una vera e propria gioia fisica nel suo essere in stato interessante. A un certo punto contrasse la rosolia e ricordo la sua inquietudine mentre stava a letto. Temeva di perdere il figlio o che potesse nascere con qualche grave handicap, così mio fratello e io cercavamo di distrarla. Se ci fosse stata data la possibilità, se i nostri genitori ci avessero visti, se ci avessero lasciati avvicinare, saremmo stati di sicuro dei figli devoti, affettuosi e dolci.

Su quella gravidanza mia madre ripose grandi speranze di rinnovamento, mi confessò più tardi. La parte di sé più positiva, quella della ragazza che sognava di realizzarsi nella maternità, si illuse che quel figlio giunto in extremis avrebbe toccato il cuore di suo marito riportandolo al posto dal quale, meno di dieci anni prima, era fuggito.

Invece, qualche giorno dopo l’annuncio, mio padre ripartì, rapidamente riassorbito dai gorghi indolenti della dolce vita romana.

L’8 settembre di quell’anno – era il 1966 – nacque così il mio secondo fratello. Il primo e io eravamo a Opicina, nella casa che i miei nonni materni avevano comprato da pochi anni e dove avevamo trascorso l’estate. Il travaglio durò appena una ventina di minuti, dalle tredici alle tredici e venti, permettendo a mia madre di tornare a piedi nella sua stanza, come se fosse andata a fare una passeggiata per sgranchirsi le gambe.

Per festeggiare il suo arrivo, noi due fratelli maggiori facemmo una corsa in bicicletta e mio padre, come il genio della lampada di Aladino, si rimaterializzò. Asciutto, abbronzato, elegante nei suoi completi comprati a Porta Portese, si chinò estatico sulla culla, osservando l’ultimo prodotto della sua inesausta virilità, e, dopo aver emesso un profondo sospiro, sentenziò: “Ogni figlio è una benedizione del cielo!”

Proprio in quel tempo, infatti, il suo mondo filosofico si era aperto a nuovi orizzonti: dalle pendici dell’Himalaya il suo sguardo si era spinto più in là, raggiungendo le valli e le vette del Tibet. Si era iscritto all’Istituto per l’Estremo Oriente e, oltre a studiare la lingua cinese, aveva iniziato a immergersi nella complessità del pensiero taoista. Il concetto di Cielo gli piaceva molto. Il Cielo, che contiene in sé i mille soffi ancestrali, è nostro padre. Bisogna abbandonarsi al non agire per permettere a lui di agire, elargendo saggezza. Che bisogno c’era, dunque, di un padre terrestre, dato che ce n’era uno celeste? Il padre biologico poteva fare soltanto una cosa: arrendersi al non agire, per permettere al padre grande, il Cielo, di portare al termine le sue azioni senza alcuna interferenza umana.

La foto del battesimo di mio fratello Lorenzo – celebrato da padre Dietrich – è l’unica immagine che possiedo di me con entrambi i miei genitori, e mi ritrae seduta con il neonato in braccio su una grande poltrona di finta pelle marrone, fasciata in un vestito marrone – l’unico vestito elegante della mia infanzia, fatto sicuramente con uno scampolo e da me ferocemente odiato – e vegliata affettuosamente da mia madre e mio padre, in piedi alle mie spalle, accanto a mio fratello Stefano appollaiato su un bracciolo, in giacchetta e cravatta, con un’aria ancora più scocciata di quella che aveva alla mia nascita.

Dopo il battesimo, mio padre realizzò in pieno il Wu wei, smaterializzandosi quasi subito.

Fu allora che anche la pazienza di mio nonno – che si chiamava Giovanni Battista e al quale le fumoserie orientaleggianti non erano particolarmente gradite – si esaurì. Erano ormai più di dieci anni che, con i risparmi di una vita di lavoro, tamponava i danni e le stupidaggini compiute da suo genero, mantenendo figlia e nipoti, diventati improvvisamente tre.

Era arrivata l’ora di cambiare musica e l’unico modo di farlo, a quei tempi, era quello di preparare l’ennesima valigia di soldi e chiamare monsignor Milioni.