4.

Nascere a Capri o nascere a Trieste non è la stessa cosa.

A Capri, avrei trovato prima o poi qualche zia affettuosa in grado di prendersi cura di noi nipoti, un simpatico cugino che ci avrebbe portati a fare delle gite in barca, una nonna capace di scacciare la nostra tristezza con dei calzoni ripieni appena tolti dal forno.

A Capri, avrei potuto contemplare la dolcezza del mare, farmi stordire dalla fioritura dei limoni e da quella dei gelsomini, accompagnare mia madre al mercato e rendermi conto che la vita era un’avventura piena di colori e rumori, un’avventura allegra, lieve, che valeva la pena di essere vissuta.

A Trieste no.

Trieste, in quegli anni, era una città cupa, sinistra, piena di fumo.

Il fumo dei treni che attraversavano lenti le Rive diretti verso Campo Marzio.

Il fumo della Ferriera che tutt’ora incombe come un fungo nucleare su una parte della città.

I fumi dei riscaldamenti, alimentati per lo più a carbone.

E i fumi della Storia.

Il fumo dell’odio razziale, dell’odio etnico.

Il fumo delle navi di profughi che arrivavano dall’Istria e dalla Dalmazia.

Il fumo dei milioni di vite sacrificate per riportare la nostra città all’Italia durante la prima guerra mondiale. Trento e Trieste. Quante volte mi sono sentita a chiedere, “Sono vicine, vero?”

Il fumo del comunismo che, da lì a Vladivostok, stava appollaiato alle nostre spalle.

Il fumo della delusione, perché già cominciava ad apparire chiaro che il ritorno alla Madre Patria in fondo era stata una gran fregatura.

E tutti questi fumi non esplodevano in manifestazioni esterne, come magari sarebbe successo a Capri, ma piuttosto implodevano, si trasformavano in un veleno freddo. E quel veleno, assieme al sangue, cominciava a scorrere nelle vene.

Anch’io respiravo quei fumi silenziosi.

Attraverso i pori, quelle sostanze tossiche entravano dentro di me. Assorbivo arsenico, cianuro, radon, amianto. Fin dai primi anni, senza che me ne rendessi conto, si erano depositate nella linfa, precipitate nel sangue e, dal sangue, correndo si erano diffuse in ogni dove. Il veleno era la mia camera di combustione.

Di giorno, naturalmente, vivevo tutte le normali passioni infantili. Scendevo con mio fratello a giocare in cortile con gli altri bambini del palazzo, sempre come mascotte o come palo. Ero comunque grata di essere ammessa nel mondo dei grandi.

Il loro gioco preferito era quello degli indiani e dei cow-boy, e il mio ruolo, neanche dirlo, era quello di fare il morto. “Adesso tu muori” mi dicevano e io, docile, mi sdraiavo per terra. Oppure mi sparavano con la mano tesa a pistola e allora dovevo stramazzare al suolo di colpo. La seconda variante era quella di venire legata a un palo e venir trafitta dalle frecce degli indiani al grido di: “Muori, cane!”

Alle prime morti, quando non ero ancora una professionista, chiedevo timidamente a me stessa: “Ma poi rinasco?” Temevo infatti che la finzione potesse sfiorare la verità. Chi mai poteva dire se facessi davvero finta, se non venissi scambiata per una morta vera? Magari era possibile passare da uno stato all’altro, per sbaglio, senza accorgersene. Così morivo sempre con un occhio semiaperto, per essere pronta, nel caso, a gridare: “Non dormo, non sono morta, sono sveglia. Sto solo giocando!”

E poi, durante quelle prolungate morti apparenti, mi chiedevo: “Ma quante volte si può morire nella vita? Una sola, oppure tante?” E questa domanda era legata a quella più cruciale. Dov’ero prima di essere in questo mondo? Dove, o chi, o quando?

Pur sapendo di essere nata in quella notte di tempesta, non potevo non sentire qualcosa di diverso che vibrava dietro quell’evento. Era un po’ come se osservassi il passato con un caleidoscopio; dietro a un piano, ce n’era un altro, con colori smaglianti. Bastava scuotere il tubo perché quel piano crollasse e ne comparisse uno diverso, di incomparabile bellezza. Ruotandolo poi, il paesaggio luminoso cambiava ancora, con prospettive che prima era difficile intuire.

Quante vite, mi chiedevo allora, ci sono dietro una vita?

Quelli erano davvero i miei genitori o solamente i figuranti di una nuova rappresentazione?

E se di rappresentazione si trattava, quale mai sarebbe stato il mio ruolo su questo palcoscenico?

E dopo di queste ce ne sarebbero state altre?

Un giorno sarei morta, mi avrebbero fatto il funerale e, mentre tutti – pochi – piangevano, io mi sarei svegliata da un’altra parte, in un’altra culla. Magari una culla di giunco sotto le palme di un’isola tropicale, con due genitori con gli occhi a mandorla che mi avrebbero sempre sorriso. E anch’io avrei sorriso loro, avrei risposto al mio nuovo impronunciabile nome e avrei imparato a zampettare sulla spiaggia e a raccogliere conchiglie.

Ogni tanto, di notte, mi sarei svegliata di soprassalto perché qualcosa di orrendo sarebbe entrato nel mio cuore, nella mia mente. Avrei risentito un sibilo, anzi un ululato. L’ululato di un vento feroce. Un vento con neve, con ghiaccio, con volti di lupi, di streghe, di adulti che non sorridono e non prendono in braccio. Mi sarei svegliata urlando, sudata, e i miei genitori di turno sarebbero subito accorsi e mi avrebbero consolato. “È tutto passato,” mi avrebbero detto baciandomi con labbra fresche la fronte.

L’idea che quello fosse soltanto uno dei tanti passaggi, in qualche modo mi rasserenava. Se la vita non era molto diversa da una lotteria, bisognava solo avere un po’ di pazienza e attendere la nuova estrazione. Ero convinta che questa verità fosse chiara a tutti.

“Ma tu, dove vivevi prima?” chiesi infatti una volta a una mia compagna di prima elementare. “Ho sempre vissuto a Trieste.” “Ma no, prima,” insistetti scioccamente. “Nell’altra casa, con gli altri genitori!” Invece di rispondermi, riprese caparbiamente a cancellare il suo foglio.

Cancellare!

Ecco, era proprio quello che avrei dovuto fare anch’io, con tutta l’enorme quantità di cose che avevo in mente.

Stavo cominciando a comprendere che c’era un mondo nella mia testa e un altro all’esterno e che questi due mondi avevano raramente la felice idea di coincidere.

Con l’ingresso nella vita pubblica – asilo e poi scuola – fu subito chiaro a tutti che l’essere socievole non rientrava nei programmi della mia vita. Vivevo immersa nei miei pensieri e mi riuscivano incomprensibili le leggi non scritte della socialità. Quelle delle bambine poi mi sembravano particolarmente irritanti. Il mondo a cui facevano riferimento era quello delle fate e dei principi, dei frizzi e dei lazzi, delle piccole cattiverie vicendevolmente sussurrate alle spalle. Tutte realtà che non mi riguardavano in alcun modo, intuivo in esse sempre qualcosa di superfluo, di superficiale, di falso. Tanto ero felice di fare la squaw nei giochi del cortile e preparare papponi di fango nel tepee per i capi indiani, altrettanto ero disperata quando, all’asilo, mi veniva affidata la parte della damina.

Amavo i giochi dei maschi perché in quei giochi era sempre presente la morte. E la morte, già allora, mi pareva l’unica garanzia di verità.

Oltre che per la morte, in quel periodo avevo una vera passione per le figurine del formaggino Mio. Si trattava di minuscole immagini tridimensionali, bastava muoverle un po’ per vedere comparire, dietro la prima figura, una seconda. Ne avevo un paio e le conservavo come un tesoro.

Dunque era vero, dietro una realtà se ne nascondeva sempre un’altra e questo mi dava un certo conforto.

Risale a quell’epoca anche il sogno di imparare a volare. Avendo una natura ossessiva, mi esercitavo ogni giorno. Correvo in cortile fino a farmi scoppiare il cuore e, quando la velocità era abbastanza alta, cominciavo a frustare l’aria con le braccia. Poi, al momento giusto, come fossero i carrelli di un aereo, tentavo di sollevare i piedi.

Mio fratello era spesso testimone dei miei tentativi.

“Ho volato?” domandavo speranzosa, alla fine.

“Sì. Un po’ mi sembra, sì,” rispondeva generosamente lui.