16.
Qualche tempo fa, durante un mio soggiorno a Trieste, sono andata alla ricerca della chiesa armena. Lì infatti, prima di venir confusamente istruita sulle dottrine teologiche – prima degli otto anni dunque – accompagnavo a volte mia nonna Elsa alla messa della domenica. Ricordavo che, per raggiungerla, si percorreva una strada in discesa in fondo alla quale si vedeva, in lontananza, il mare, e che, accanto alla chiesa, sorgeva un edificio di grandi dimensioni, il palazzo degli armeni, appunto. Per arrivarci, si passava davanti a una villa circondata da un giardino ombroso che mia nonna mi disse essere la casa di Slataper.
Così, in una giornata di forte bora, girando per quelle vie silenziose, alla fine mi ritrovai davanti alla prima chiesa della mia infanzia. Era molto più piccola di come la ricordavo e in uno stato di avanzato degrado. Il cancelletto che immetteva nel piccolo giardino prospiciente era chiuso, le aiuole, ormai incolte e coperte di erbacce, accoglievano ogni tipo di rifiuto che la bora riusciva a trasportare – sacchetti di plastica, lattine, confezioni vuote di panettoni. Per cercare protezione dalla violenza delle raffiche, due o tre gatti spelacchiati e rognosi dormivano rasente ai muri.
Anche la canonica sembrava abbandonata da tempo e il cartello che indicava la comunità cattolica di lingua tedesca pareva non aver più alcun riferimento con la realtà. L’unica cosa che collegava l’immagine di cinquant’anni fa a ciò che mi stava davanti era il forte odore di pipì di gatto.
L’odore!
Non so se sia per la mia innata attitudine a indagare o per il dono ricevuto di un grande naso, ma da sempre gli odori hanno avuto un ruolo cardine nella mia memoria. In un tempo diviso equamente tra le puzze reali – l’inquinamento – e quelle sintetiche –, i deodoranti creati per nascondere gli afrori naturali – è sempre più difficile immaginare il ruolo guida che ha l’olfatto.
Eppure è così.
Grazie alla magnetite depositata nel loro becco, gli uccelli migratori percorrono migliaia di chilometri orientandosi con il sole e le stelle, ma quando giungono in prossimità della destinazione che volevano raggiungere, a guidarli nel riconoscimento non è lo sguardo, bensì l’olfatto. Per il lungo tempo dell’inverno, infatti, la loro memoria ha conservato gli effluvi che li hanno accolti quando, rompendo il guscio dell’uovo, sono venuti al mondo. Grazie a quei precisi odori sono in grado di raggiungere la stessa stalla, lo stesso parco, lo stesso albero in cui sono nati.
Così, come le rondini ritornano sempre nel posto in cui sono venute al mondo, altrettanto io tornai in quel luogo – la chiesa armena, appunto, dove, in quegli anni lontani, si radunava la comunità cattolica di lingua tedesca – come al luogo in cui, per la prima volta, ebbi la percezione che, nella realtà di tutti i giorni, si nascondesse qualcosa di diverso.
Odore di pipì di gatto, di muffa, di umidità.
Odore di inverno, di freddo, di assenza di riscaldamento. Intorno a me, tante persone che non conoscevo. Mia nonna portava sempre con sé un album da colorare o un giornalino da sfogliare, ritenendo tedioso per una bambina assistere a un rito di cui non capiva nulla.
Mi sedevo così sull’inginocchiatoio e, in silenzio, senza disturbare nessuno, passavo il mio tempo. Le storie di Tiramolla mi attiravano sempre più di quello che succedeva intorno all’altare.
Malgrado ciò, c’era sempre un momento in cui interrompevo la lettura. Era quando, all’improvviso, intorno a me scendeva un silenzio pressoché assoluto. Niente più colpi di tosse, né scricchiolii del legno. Ogni cosa si fermava. E, in quel silenzio carico d’attesa, a un tratto, trillava tre volte un campanello argentino.
Tling tling tling!
Tling tling tling!
Tling tling tling!
Quel suono – la manifestazione dell’epiclesi – rimane presente nella mia memoria come il gong delle illuminazioni buddiste.
Tling! La scorza della realtà è dura e opaca.
Tling! Ma questa è solo apparenza.
Tling! In realtà c’è un mistero nascosto là dentro!
Come molte figlie di Gerusalemme trasmigrate poi tra le braccia del cristianesimo, mia nonna frequentò le elementari presso le suore di Notre-Dame de Sion. Poi a dieci anni, per il periodo della prima guerra, si trasferì con la famiglia a Firenze e lì, in una bella villa vicino ai Boboli, venne iscritta a una scuola inglese privata tenuta da due signorine che – come diceva mia nonna – “dovevano essere molto amiche, perché le trovavo sempre abbracciate sul divano del salotto”.
Ritornata a Trieste, fu una delle prime ragazze a iscriversi al liceo classico e a concluderlo a pieni voti. Ma l’onta di Notre-Dame de Sion rimase profondamente impressa nel suo cuore. L’episodio delle pecorelle che cadono del burrone per i peccati, che ho raccontato in Va’ dove ti porta il cuore, appartiene alla sua educazione. Spirito libero e indipendente, mal sopportava il clima di moralismo fanatico e punitivo che imperava in quelle aule.
Proprio qualche giorno fa, una mia anziana cugina, Nadia Blitznakoff – una delle due uniche sopravvissute della foto dei nipoti con Olga Moravia –, mi raccontava di essersi salvata in quella stessa scuola perché, in quanto ortodossa, era dispensata dalle lezioni di religione cattolica. Così, per farle passare il tempo, una giovane suora la portava in cima alla torretta e da lassù, con dolcezza, le parlava dell’orizzonte del cielo e di quello del cuore.
“Ringrazio sempre il cielo di quell’incontro,” mi ha confessato una volta, prima di chiudere la telefonata, “perché altrimenti, se avessi assistito a quelle lezioni, sarei sicuramente diventata atea!”
Non so cosa fosse diventata mia nonna ma, di sicuro, non aveva nessuna affezione per gli insegnamenti della religione. E non l’aveva principalmente per un fatto: perché là dentro, prima di ogni altra cosa, aveva visto trionfare l’ipocrisia. E l’ipocrisia è il più grande veleno che si possa buttare in faccia a chi è alla ricerca della verità.
Nata da una madre giovanissima e da una famiglia che, nel corso di una sola generazione, aveva sperimentato un salto sociale di dimensioni impressionanti – da poveri droghieri di Marsiglia a ricchi industriali a capo di un impero diffuso in tutto il mondo –, mia nonna aveva caricato su di sé tutte le fragilità e le incertezze di una simile situazione. Quando penso a sua madre, la mia bisnonna, che aveva soltanto diciassette anni di più di sua figlia, e a lei, vedo lucidamente la frattura che divide l’Ottocento dal Novecento.
Nella vita della bisnonna Dora, ogni cosa era – e doveva essere – al suo posto. La vedo ancora entrare nelle stanze con la sua figura corta e massiccia, il suo bel viso sefardita, i grandi occhi scuri e tondi, con la voce forte e impostata di una persona che, per tutta la vita, si era dedicata al canto. Abitava nello stesso palazzo di sua figlia, al piano superiore, e la sua casa con i pavimenti di linoleum tirati a lucido e un soffuso odore di buona cucina, di cera, naftalina e mentine mi incuteva un certo timore.
La grande attrattiva di quell’appartamento era per me il pianoforte. Appena la bisnonna andava in un’altra stanza, sollevavo lentamente il coperchio, sfilavo il lungo panno verde e cominciavo a suonare. Non suonavo una musica prestabilita, ma soltanto quella che avevo nella testa: sui tasti alti, ricercavo il rumore argentino della pioggia, su quelli bassi, il poderoso risucchio della Fossa delle Marianne e, nel mezzo, la follia dodecafonica dei miei pensieri quotidiani. Quando la nonna Dora sentiva le note di quell’improvvisato concerto, piombava come un’aquila nella piccola stanza, mi faceva scendere dallo sgabello girevole, risistemava il panno verde sui tasti, abbassava il coperchio e chiudeva a chiave l’oggetto dei miei desideri.
Quanto avrei desiderato suonare il pianoforte!
E quanto beneficio probabilmente avrebbe avuto la mia mente da uno studio continuativo, capace di trasformare il caos in bellezza, quanta serenità mi sarebbe giunta dal comprendere e dominare l’armonia! Invece l’unico spartito che ero in grado di seguire era quello dell’assoluta dissonanza.
La musica aveva sempre fatto parte del patrimonio culturale della mia famiglia. La bisnonna Dora cantava, il bisnonno Bepi, oltre a suonare il violoncello da solo o in quartetto con i suoi fratelli, era direttore della Società dei Concerti, per cui i grandi musicisti dell’epoca passavano tutti per casa loro. Il fratello della bisnonna, Bruno, ebbe per un periodo una brillante carriera di concertista, mentre lo zio Ettore, caparbiamente, si intestardì per anni nello studio della ciaccona con il suo violino. Anche mia nonna Elsa studiò pianoforte, ma, come ripeteva, grazie al fatto di aver sciacquato i panni in Arno, lo ebbe presto in uggia e così la catena dei musicisti si interruppe.
In realtà credo che, più che la sua uggia, la distruzione del patrimonio musicale dipese dalla bomba che, il 20 febbraio del ’45, rase al suolo la villa in cui tutti, fino ad allora, erano vissuti. Bruciò il pianoforte a coda; bruciarono gli spartiti; un bel falò avvolse viole violini e violoncelli; vennero ridotti in cenere tutti i libri, i quadri e gli arredi, tutto ciò che, per due generazioni, aveva costituito la realtà delle persone che avevano vissuto in quella villa bianca.
L’unica cosa che sopravvisse a quella tremenda esplosione, a quelle fiamme fu una confezione di uova che, da crude, divennero perfettamente sode.
La bomba distrusse la memoria materiale della famiglia e, oltre a quella, la complessità dei rapporti umani creatisi in quell’ottantina di anni di forzata convivenza.
La fabbrica e la villa rimasero come misteriose entità fluttuanti nei racconti della mia infanzia. Una sorta di Eldorado che aveva accolto tutti nell’abbondanza e nella felicità, prima che un destino maligno lo distruggesse, costringendo i suoi abitanti a vivere nelle ristrettezze umilianti di appartamenti sparsi in giro per la città.
Per tutta la vita mia madre ha vissuto nel nostalgico ricordo della sua infanzia passata alla villa. Al contrario, mia nonna reputava quella bomba un dono del cielo, perché la liberò per sempre dal giogo di dover convivere forzatamente con la sua vasta e variegata famiglia. Considerava, infatti, il vivere insieme ai propri parenti una tentazione demoniaca, alla quale bisognava opporsi con tutte le proprie forze.
Sua madre, invece, la nonna Dora, anche se ormai stava al quarto piano di un caseggiato anonimo, continuava la sua vita come se niente fosse. Sicura di sé e dei valori del suo mondo, a tavola, suonava imperiosamente il campanello per chiamare la cameriera, come se intorno alla modesta stanza da pranzo ci fosse ancora una moltitudine di stanze, come se, fuori, l’attendessero i giardinieri e, nelle stalle, ci fossero ancora le carrozze con i cavalli lustri, il cocchiere con la frusta in mano, sempre pronto a scorrazzarla in giro per la città.
Se neppure le bombe poterono scuotere la nonna Dora dalle sue certezze, altrettanto quell’esplosione riuscì a placare l’inquietudine che, fin dall’infanzia, attanagliava sua figlia.
Per la nonna Dora, i privilegi della ricchezza erano qualcosa di dovuto e di indubitabile, mentre per Elsa erano fardelli di cui bisognava cercare di sbarazzarsi il prima possibile. Il matrimonio con mio nonno costituì un clamoroso atto di ribellione nei confronti di una realtà che percepiva come profondamente inquinata dall’ipocrisia e dalla superficialità.
Le nozze, comunque, non attutirono affatto la sua inquietudine, si ritrovò soltanto prigioniera in un altro tipo di gabbia. Nonostante gli anatemi della sua famiglia sulla vita grama che avrebbe avuto sposando quell’uomo venuto dal nulla, fu proprio grazie all’abilità negli affari di suo marito – l’albero della cuccagna in cima ai suoi pensieri – che ebbe un’esistenza borghese e confortevole, anche se nei riguardi di quelle convenzioni provava un senso di asfissia. Asfissia che manifestava esasperando i suoi lati peggiori: egoismo, prepotenza, vanità. Sentiva il vuoto intorno a sé, sotto di sé, ma a quel vuoto non sapeva dare un nome. Per non ascoltare il silenzio assordante che usciva da quella stanza, riempiva la sua giornata di costanti e inutili rumori.
Poi, verso i cinquant’anni, nella sua testa e nel suo cuore, all’improvviso si spalancò una porta. Per fortuna le suore di Sion erano ormai lontane. I ricatti, le ottusità, le meschinità più bigotte del cristianesimo si erano attenuate nella sua memoria.
Rincontrò un’amica d’infanzia che era sopravvissuta ad Auschwitz. Si frequentarono, passarono molti pomeriggi insieme. “All’inizio,” mi raccontava la nonna, “andavo da lei per farle compagnia. Dopo quello che aveva passato, pensavo avesse bisogno di essere distratta. Solo con il tempo, mi sono accorta che non era lei ad avere bisogno di me, ma io di lei. Solo con il tempo ho capito che lei era pura luce e che la sua luce, così diversa da quelle che avevo conosciuto fino a quel giorno, cominciava a toccare anche me. Luce dell’amore che tutto ha visto. Luce dell’amore che tutto comprende.”
L’inquietudine, così, arrivò al capolinea e mostrò il suo vero volto. La sete di verità.