13.

Ho sempre sofferto di chinetosi.

Durante le nostre gite sul Carso, il nonno, dal posto di guida, mi inondava di consigli. “Stai dritta, guarda davanti, apri il finestrino…” Malgrado ciò, la nausea e il capogiro salivano in maniera irrefrenabile e, alla prima curva un po’ più aspra, succedeva l’inevitabile.

Lo stesso tipo di nausea mi assaliva quando accompagnavo mia madre nelle sue peregrinazioni artistiche. Oltre a quello di fare la madre, infatti, l’altro sogno che coltivava fin da ragazza era quello di poter frequentare l’Accademia di Belle arti a Venezia. Il padre però, uomo all’antica, non glielo concesse e così decise di convolare a nozze con il giovane uomo di cui era profondamente innamorata.

Nel momento in cui la struttura cominciò a franare e la casa divenne l’atrio di una stazione, decise di salire sull’autobus che l’avrebbe finalmente portata nel Paese dell’Arte. Il fratello del famoso pediatra era uno scultore e, grazie a lui, cominciò a frequentare un gruppo di pittori della sua generazione. Usciva spesso con loro. In fondo era una ragazza giovane, molto carina e piena di vita. Era normale che, per scrollarsi di dosso i calcinacci del proprio matrimonio, andasse in giro a divertirsi.

Ricordo una sera in cui ci portò con sé a una festa. Per motivi credo principalmente meteorologici – non deve essere simpatico stare al trentesimo piano con la bora che soffia a 150 km orari – a Trieste esistono pochi edifici alti e uno di quelli sorgeva sulle Rive e veniva chiamato appunto Grattacielo.

La festa si svolgeva lassù. C’era moltissima gente, ragazze in minigonna e pettinatura a carciofo, giovanotti con i jeans rivoltati in fondo, un giradischi che suonava all’impazzata musica jazz, tantissimo fumo, un numero spropositato di bottiglie, risate, rumore di bicchieri. Venimmo parcheggiati su un divanetto dell’ingresso e lì rimanemmo finché il sonno non ci colse.

Il parcheggio sui divanetti, sulle poltrone, sulle varie sedie fu un po’ la costante di quei nostri anni trascorsi nel mondo dell’arte.

Nel frattempo, mia madre era diventata amica di Umbro Apollonio, l’allora direttore della Biennale, e così il Lido di Venezia, durante l’estate, divenne la nostra seconda casa. Ricordo la noia di pranzi interminabili, cene infinite, attese senza fine, discorsi incomprensibili che dovevamo subire senza protestare.

A volte la figlia di Apollonio, Gabriella, ci portava ai giardinetti, ma queste visite costituivano un sollievo di breve durata. Oltre ai pranzi e alle cene, c’erano purtroppo anche le mostre. La Biennale in primis. E andare a visitare una mostra voleva dire stare per ore immobili, rannicchiati su una sedia, con pance e gambe che ti passavano costantemente davanti. Di tanto in tanto qualche faccia sconosciuta si chinava su di te, chiedendo: “Farai l’artista come la tua mamma, da grande?” Dato che ero la bambina-iceberg, la bambina-gorgo, il “no” che usciva dalla mia bocca era piuttosto flebile, ma quello che risuonava dentro era potente come un ruggito. NOOO! Non avrei fatto mai l’artista, per nessuna ragione al mondo. Per quale motivo avrei dovuto annoiarmi in quel modo?

E poi, sebbene fossero tutti pittori, dai loro pennelli e dalle loro tele, con mia grande meraviglia, non usciva mai nulla che riuscissi a riconoscere: un albero, una casetta, un volto, niente. Soltanto cubi, cerchi, righe, rombi, triangoli, preferibilmente di colore bianco e nero, o di metallo luccicante, lamierette rotanti, sospese nell’aria con invisibili fili di nylon.

Erano i primi anni sessanta e impazzava l’Optical Art, con il suo astrattismo geometrico. La posta in gioco non era più il cuore, ma la retina; l’anima bella era diventata ormai oggetto di studio della psicologia sperimentale. Tale, infatti, era l’assunto del suo fondatore Victor Vasarely a cui tutti si erano adeguati inventando forme geometriche sempre nuove, sempre più astruse ai miei occhi, sempre più foriere di spaventose ondate di malessere. Più che di psicologia sperimentale, quei quadri mi sembravano tentativi di gastroenterologia. Fa vomitare? Non fa vomitare? Probabilmente era su questo valore che venivano giudicate le opere.

Ricordo ancora in una mostra di mia madre un enorme cubo arancione costellato dai soliti geroglifici geometrici. Ma l’esterno ancora non era niente. Appena si aveva la sventura di posare l’occhio su una sorta di cannocchiale conficcato su uno dei lati, il cubo cominciava a oscillare, cosicché l’optical racchiuso nella scatola diventava un optical all’ennesima potenza, in grado di scatenare non la nausea delle miti curve del Carso, ma quella violenta del passo dello Stelvio.

Almeno i nostri amati fumetti riuscivano a vendicarci. A Topolinia e Paperopoli succedeva spesso infatti che Paperina, Minnie e Clarabella andassero in estasi davanti a degli incomprensibili sgorbi, nelle mostre di arte moderna, ma per fortuna Pippo o Paperino, con i loro maldestri commenti, esprimevano la verità su quegli astrusi ghirigori.

Un paio di anni fa, mio fratello – che ha condiviso con me tutto il training optical – in ricordo di quei giorni nauseabondi mi portò dalla Finlandia una maglietta con su scritto: “Ce l’ho fatta a scappare dal museo di arte moderna!”

Proprio quello che noi, in quei giorni, avremmo voluto fare. Fuggire a mille miglia dall’attuale e dal fattuale, dalla fattualità in atto e dall’attualità in fatto. Fuggire dal mondo della noia pomposa, condita da parole altisonanti. Fuggire per passare i pomeriggi sdraiati sul pavimento a disegnare battaglie, bombardamenti, esplosioni, fortini di nordisti, attacchi di indiani, casette con camini e alberi, cieli con le stelle – tutto il mondo che, ai nostri occhi di bambini, aveva ancora un senso.

Nel suo cammino di intellettualizzazione artistica, mia madre non tralasciava nulla. Doveva recuperare il tempo fatuamente perso inseguendo il sogno di diventare una perfetta madre di famiglia. Così una sera si sdraiò sul divano con un libro in mano e, su quel divano, con lo stesso libro, rimase sdraiata per anni.

Il tempo della lettura era sacro.

Vietato fare rumore, vietato avere qualche necessità o dare vita alle solite scaramucce di sopravvivenza a cui mi sottoponeva mio fratello. Scivolavamo per la casa, silenziosi, in pantofole, e per parlare tra di noi abbassavamo la voce come si fa ai funerali.

Bisbigli, sussurri, sospiri.

Sdraiati sul pavimento, la guardavamo da sotto in su. Sulla copertina bianca del libro, c’era la foto di un signore con i baffi e sopra un nome: Marcel Proust.

Con il tempo, il signor Proust, con i suoi baffi e il suo sorriso indisponente, divenne il nostro nemico giurato, l’argomento dei nostri conciliaboli segreti. Tutto il tempo che avrebbe potuto passare con noi, lo dedicava a lui e non ne capivamo la ragione.

Cosa ci poteva essere scritto in quelle pagine di così interessante? Erano pagine optical? Pagine ipnotizzanti?

Dopo qualche mese, approfittammo di una sua giornata di particolare buon umore per chiederle: “Ma quando finisce questo libro?”

“È già finito,” ci rispose, “questo è un altro.”

La guardammo stupefatti. Il signor Proust era sempre là, sulla copertina bianca, e anche il titolo era lo stesso, però nostra madre diceva che era un altro.

Ci stava forse prendendo in giro?

All’altro, comunque, ne seguì un altro, e poi ancora un altro. Con il tempo, fummo presi da una sorta di cupa rassegnazione. Era inutile competere con quel tipo coi baffi per avere più attenzione, perché era evidente che il signor Proust – Marcel, Marcello, già il nome ci sembrava odioso – aveva carte da giocare molto migliori di noi.

Da grande, ho interrogato mia madre sul suo rapporto con la Recherche. “L’ho letta per intero una volta,” mi rispose “e, appena l’ho finita, l’ho ricominciata da capo, per gustare in profondità ogni sua frase.” Ecco svelato il tempo infinito della nostra Recherche!

A quel tempo risale anche il nostro primo incontro con un artista. A dire il vero, di artisti alla Biennale ne avevamo già incontrati tanti – tra loro ricordo bene Miela Reina e Getulio Alviani –, ma erano persone dell’età più o meno di mia madre, che mangiavano e bevevano insieme a noi, dunque non mi era chiara affatto la differenza tra un artista e un guidatore di autobus.

Insomma, fare l’artista mi sembrava un mestiere come un altro ed era chiaro che, tra l’artista e il guidatore d’autobus, avrei sicuramente scelto il secondo.

Ma un giorno accadde qualcosa di speciale. Mia madre ci convocò in cucina e ci disse: “Questa sera verrà a cena un grande artista.”

“Grande quanto?” chiese allora mio fratello, come sempre interessato alla fisicità della questione.

“Grandissimo. Un grandissimo poeta.”

A questo annuncio, seguì il decalogo della domatrice, con tutto ciò che non avremmo dovuto fare in quell’occasione. Oltre al respirare, ben poco ci venne concesso. Trascorsi il resto della giornata assorta nelle mie abituali elucubrazioni. Se era grandissimo, doveva certo essere molto più alto di mio padre, che comunque era già alto. Ce l’avrebbe fatta a passare per la porta o avrebbe dovuto chinarsi, come se stesse entrando in una spelonca di nanetti? E le sedie, il tavolo? Sarebbero stati sufficientemente adeguati? O ci saremmo trovati nella stessa situazione di Riccioli d’Oro quando fa ingresso nella casa dei tre orsi? Forse, nel pomeriggio, mi dicevo, qualcuno avrebbe portato una seggiola gigante…

E poi, che cosa voleva dire un poeta?

L’unico rapporto che avevo avuto con la poesia era un bel cinque preso in seconda elementare. Era ottobre e dovevamo imparare a memoria un componimento celebrativo sull’impresa di Cristoforo Colombo, dal titolo Le tre caravelle. Interrogata dalla maestra, mi alzai in piedi, facendo scena muta. Invece delle caravelle, mi venivano in mente soltanto le caramelle e, intorno a esse, il vuoto più assoluto.

Nel pomeriggio, chiesi a mio fratello: “Non è che ci interrogherà su qualcosa?” “No, non credo,” mi rispose, ma non sembrava molto convinto.

Finalmente arrivò l’ora di cena. Il campanello suonò, la porta si aprì e comparve un uomo piccolo, un po’ curvo, con i capelli bianchi e due occhi azzurri dardeggianti in un volto devastato dalle rughe. Mia madre prese il suo cappotto, muovendosi con circospezione, come fosse un oggetto di estrema fragilità.

A noi, ovviamente, non fu concesso di mangiare con loro, ma il poeta, già seduto a tavola, ci convocò al suo fianco. A me chiese della carta e io subito corsi a prendere l’agenda vicina al telefono. Gliela porsi e lui estrasse dal taschino una grossa stilografica nera dalla quale tolse il tappo, e iniziò a scrivere…

Straordinaria magia, tutte le parole erano colorate di verde.

Svelato il mistero!

Le poesie sono parole verdi!

Il giorno dopo, a scuola, ebbi finalmente qualcosa di interessante da raccontare. Non vedevo l’ora di rivelare ciò che avevo scoperto la sera precedente, così alzai la mano e dissi:

“Signora maestra, ho conosciuto un grande poeta!”

“Ah sì? E come si chiama?”

“Ungaretti. Giuseppe Ungaretti!”

La maestra scosse il capo, desolata.

“Perché sei così bugiarda?”