20.

Con il tempo, ormai adulta, ho capito che mia madre aveva subito due grandi traumi e che proprio intorno a quei due traumi si era inanellata tutta la sua vita.

Ci sono tanti modi per reagire a un’esperienza forte: ci si può ribellare o si può sfuggirle, cancellandola, come si può anche, magari col tempo, tornare a elaborarla, sperando che questo lavoro di analisi ci conduca, un giorno più o meno lontano, a metabolizzare l’accaduto fino a riuscire a stemperare quel sordo dolore che ha oppresso i nostri giorni; possiamo affrontare le negatività che ci accadono, interrogandole, cercando di capire la domanda che ci pongono, oppure possiamo vivere nell’ombra di quei ricordi, come archi di trionfo sospesi sopra di noi, facendogli girare intorno tutta la nostra esistenza.

I due archi di trionfo che accompagnarono la vita di mia madre furono il crollo sotto le bombe della villa che l’aveva vista nascere e crescere e la fine, altrettanto brutale, del suo matrimonio. Per tutta la durata della sua esistenza, mia madre continuò infatti a inseguire il sogno di tornare, un giorno, ad abitare in una villa e di avere un matrimonio felice.

La villa riuscì a ottenerla, arrivando persino a montare, davanti l’esiguo giardinetto, il cancello di villa Veneziani, l’unica parte sopravvissuta alle fiamme e al calore delle bombe.

Di matrimoni ne ha celebrati tre e, se avesse vissuto un po’ più a lungo, di sicuro ne avrebbe contratto un quarto. Ma ho il fondato sospetto che la felicità non abbia mai davvero abitato quelle stanze.

Così, mentre monsignor Milioni passeggiava pensieroso sulle Rive e le cenette continuavano a impazzare a casa nostra, superai l’esame di quinta elementare e, con una sensazione di leggerezza per me insolita, mi apprestai ad affrontare l’estate che mi separava dai Campi Elisi.

D’abitudine, le nostri estati si dividevano tra un breve soggiorno ai primi di luglio in una pensioncina di Grado, i giochi in cortile con gli altri bambini a Trieste e il mese di agosto passato a Opicina dai nonni, assieme ai miei amati cugini.

Quel mese era per noi un mese di gloria, primo perché eravamo in cinque e potevamo stare all’aperto dalla mattina alla sera, poi perché lì dai nonni, come ricorda spesso mio fratello ancora oggi, finalmente si mangiava.

Ma quell’estate, l’estate del ’67, improvvisamente la routine venne stravolta. Alla fine della scuola, venni mandata insieme ad Anna, la signorina che intanto era stata assunta per occuparsi di mio fratello Lorenzo, da una sua vecchia zia in un’isola dell’attuale Croazia.

Lì per la prima – e ultima – volta, raccolsi sugli scogli una stella marina: era rossa e con i piedi tubolari; tutte quelle che avevo visto fino ad allora, nei fondi sabbiosi di Grado, erano piatte e biancastre, così davanti a quell’inaspettato splendore non resistetti. Volevo portarla a Trieste e farla vedere a mio fratello, dunque appena tornata dalla spiaggia presi un catino, lo riempii d’acqua sciogliendovi dentro un pugno di sale da cucina e, con delicatezza, vi immersi quel magnifico animale.

Quale delusione e che dolore, la mattina dopo, nel vederlo galleggiare, ormai biancastro e inerme, in mezzo alla bacinella! L’acqua intanto era diventata rossa e quel colore per molti giorni, per molti mesi, pesò sul mio cuore come la firma di un assassinio.

Ogni mattina, andavamo al mare, un mare di roccia, freddo, bello, circondato da un bosco di pini dal quale proveniva lo spaventoso e continuo frinire delle cicale. Nel pomeriggio riposavamo nella penombra della casa, con gli scuri accostati.

A volte Anna mi accompagnava fino al porto a prendere un gelato. Sladoled. Era quella la parola magica per farlo esistere. Come mi piaceva quel termine! Era infinitamente più bello e pregnante del nostro stupido “gelato”. Slad, slad: non era forse quello il rumore che faceva la lingua, nel leccarlo?

Non furono per me giorni infelici, quelli in Croazia, piuttosto sospesi. L’ordine degli eventi che, fino ad allora, avevo conosciuto e che mi aveva permesso di sopravvivere, aveva subito una brusca deviazione; intuivo che mi stavo affacciando su qualcos’altro ma, a parte la sensazione di leggero squilibrio, come camminassi in punta dei piedi, non ero in grado di vedere niente.

Soltanto al mio ritorno a Trieste, quella situazione di incertezza si tramutò in ansia profonda. Sostituito il costume da bagno con una giacca a vento, dopo qualche giorno ero nuovamente con la valigia in mano.

Destinazione: un Kinderheim in Austria.

Viaggio interminabile sui sedili posteriori della 850, con mia madre e l’avventore delle cenette; nausea per le curve, nausea per il caldo, nausea per l’abbandono che sentivo imminente.

Il Kinderheim consisteva in una specie di fattoria in montagna, già piena di altri bambini. Per mia fortuna, c’era qualcuno che già conoscevo e con cui avrei diviso la stanza: la figlia della migliore amica di mia madre. Aveva un anno più di me ed era già in balìa di interessi sentimentali, a me ancora del tutto estranei. Mentre lei passava il suo tempo a leggere Liala, io lo trascorrevo a piangere.

La direttrice, oltre a indossare prevalentemente maglie sintetiche, era anche poco amica dell’acqua, così l’unico istante in cui riuscivo a trattenere le lacrime era quando la vedevo avvicinarsi per un abbraccio consolatorio.

Non legavo con nessuno, come non provavo alcun entusiasmo nel parlare in tedesco. L’unico sollievo fu quello di imparare, con l’aiuto di un bambino, a catturare i porcospini. Ne avevo preso uno e lo avevo portato nella nostra camera. Lo nutrivamo con gli avanzi di cibo della tavola: frittate, mele, ciotoline di latte. Essendo un animale notturno, camminava tutta la notte per la stanza mentre di giorno dormiva in una scatola di cartone.

Era l’unica cosa che emanava calore intorno a me. Avrei voluto abbracciarlo, ma purtroppo aveva le spine! Così, quando me lo concedeva, gli grattavo l’unica parte morbida, la pancia.

Il tempo libero lo trascorrevo nella sala comune, costruendo castelli di carte e scrivendo lettere a mia madre. Le ho ritrovate tutte in un cassetto, legate con un fiocchetto, dopo la sua morte. Le righe vergate dalla mia mano infantile esprimevano una sempre maggiore disperazione. Dopo le prime missive interlocutorie, infatti – Come stai, cosa fai, cosa fanno i miei fratelli? – si affacciavano le prime crepe: So che non mi hai chiamato né scritto finora, soltanto perché vuoi che la mia gioia sia più grande, quando questo avverrà. Seguiti poi da piccoli tentativi di corruzione: Oggi ho comprato un bellissimo regalo per te, non ti dico che cos’è perché voglio farti una sorpresa, così come me la vuoi fare tu, aspettando di chiamarmi, ma se mi chiami, qualcosina posso dirti… È bello che tu faccia finta di esserti dimenticata di me… Ho raccolto dei fiorellini per te, ma ho paura che appassiscano prima che tu possa vederli… Scrivevo e le mie lacrime cadevano abbondanti sul foglio, sbiadendo in più punti l’inchiostro.

Lassù, infatti, tra quelle montagne piovose, con quella puzza di cipolla e di sudore, in quella solitudine consolata solo dagli aculei del porcospino, era successo qualcosa di incredibile: l’iceberg aveva cominciato a sciogliersi. Non era stato però l’abbraccio del sole a liquefarlo, ma un incendio divampato al mio interno. Un incendio senza fiamme, freddo, spietato come un’implosione atomica. Più che liberazione, in quelle lacrime c’era il progetto di una nuova e più invincibile prigione. Oltre a sciogliersi, il ghiaccio aveva un altro difetto, lasciava passare la luce. E la luce era vita, speranza, illusione testarda che, in qualche punto, in qualche momento, potesse ancora penetrare una qualche forma di calore.

Un giorno, per fortuna, arrivò una cartolina della signorina Anna: dietro alla fotografia di un cucciolo di cocker e di un gattino, c’era scritta qualche parola affettuosa. Quella cartolina fu la zattera che mi permise di arrivare viva alla fine del soggiorno. Dormivo con lei sotto il cuscino, non me ne separavo mai, neppure di giorno.

Al momento di partire la bambina-iceberg era scomparsa e il suo posto era stato preso, temporaneamente, dalla bambina-scendiletto. Stavo lì immobile, sottile, discreta, non respiravo quasi – una sorta di sogliola sdraiata sul pavimento, in attesa soltanto di essere calpestata.

Tornai a Trieste, ma non a casa mia, bensì in quella dei nonni.

“La nostra casa non c’è più,” disse mia madre. “Fra dieci giorni andiamo a vivere in un’altra città e questo – il frequentatore di bettole – è il nuovo compagno della mia vita.”

Monsignor Milioni, intanto, aveva finito il suo lavoro. “Un uomo intelligente, arguto,” ricordava sempre mia madre, rievocando i loro incontri, “un uomo con cui era piacevole chiacchierare.” Interrogati i protagonisti e i testimoni, valutate le risposte, consultati poderosi tomi e incassata la valigetta con il milione – come il signor Bonaventura di cui, probabilmente era parente – aveva alla fine dichiarato nullo il matrimonio dei miei genitori.

A settembre ci trasferimmo così in una nuova città.

Appena entrai nella nuova casa in affitto – una villa! – estremamente lugubre, sentii un’ondata di gelo salirmi lungo la spina dorsale. Avendo ereditato da mia madre la capacità di guardare avanti, cercai comunque di vedere il lato positivo della nuova situazione. Prima di tutto, dato che nella nuova casa c’era un giardino, mi fu concesso finalmente di prendere un cane al canile e, in secondo luogo, mia madre si era innamorata, c’era il fratello piccolo e agli occhi di tutti i vicini avremmo potuto sembrare una famiglia felice.

Una famiglia!

Quanto è radicato nei bambini il desiderio di questa realtà. Anch’io avrei potuto fingere che quel signore fosse mio padre, anch’io avrei potuto aspirare a una quieta normalità. Il signore, infatti, era diventato improvvisamente gentile con me, molto gentile, e io mi ero fatta ingannare da quella gentilezza, come gli uccelli si fanno fuorviare dallo zimbello. Avevo dieci anni e una voragine affettiva da colmare, che cos’altro avrei potuto fare?

Così per qualche mese, in quella nuova situazione, fui davvero felice. C’era un’unica ombra, un pensiero fisso che mi tormentava come un tafano.

Dov’era finito mio padre?

E se un giorno fosse tornato e avesse scoperto che il suo posto era stato preso da un altro?

E anche se non si fosse arrabbiato, dove avrebbe dormito? In giardino, nella sua spider? O dove?

All’epoca non c’era ancora sentore di famiglie allargate, dunque non riuscivo a immaginare quali orizzonti si aprissero davanti a noi. Così quella domanda inopportuna cominciò il suo lungo e avventuroso viaggio carsico. Saliva, scendeva, si inabissava, saliva nuovamente; sembrava scomparsa, ma tornava con nuovo vigore; la ricacciavo indietro e ricompariva da un’altra parte.

Un pomeriggio, alla fine mi decisi: era giunto il momento! Avevo accompagnato mia madre a fare una commissione e, sulla via del ritorno, raccolsi tutto il mio coraggio. Ogni dieci passi, mi dicevo: adesso, adesso! ma la voce non mi usciva. Soltanto quando vidi la casa in lontananza, feci un grande respiro da bambina-scendiletto e dissi:

“Mi chiedevo una cosa…”

“Che cosa?”

“Mi domandavo se, tra tutte le cose moderne che hanno inventato, tipo i razzi, hanno inventato anche un… un… un letto a tre piazze.”

Mia madre si bloccò in mezzo alla strada, guardandomi esterrefatta.

“Ma cosa dici?” mi chiese, gelida.

Con le ultime forze terminai il mio pensiero. “Ecco, insomma… mi chiedevo… quando arriverà il papà… dove andrà a dormire?”

“Il papà non verrà mai più,” rispose concisa, riprendendo a camminare.

“Perché?”

“Perché l’ha deciso la Sacra Rota,” mi rispose la sua schiena.

“Cosa ha deciso?”

“Che non è mai esistito.”

Fine della trasmissione.

Nei giorni seguenti, riuscii a raccogliere altri frammenti da mio fratello. La Sacra Rota viveva a Roma, nei palazzi che c’erano in piazza San Pietro e, tra i suoi poteri, aveva proprio quello di spezzare per sempre i rapporti tra le persone.

Per mesi la Sacra Rota popolò i miei momenti di dormiveglia; vedevo le porte bronzee di San Pietro aprirsi di colpo e apparire all’improvviso quel mostro roteante; era una sorta di pneumatico di dimensioni spaventose, al posto dei solchi del battistrada, aveva delle lamette da barba e, dall’inserto del perno, uscivano grandi sbuffi di incenso. Non per niente era sacra.

Dopo un attimo d’indecisione, quella gigantesca ruota dentata si lanciava giù dalle gradinate della basilica pronta a investire tutte le persone che sostavano nella piazza; per tentare di salvarsi dalle sue lame c’era allora un fuggi fuggi generale; tra grida di disperazione, tutti cercavano riparo dietro a una colonna o a una fontana; il destino, per coloro che non ci riuscivano, era inesorabile: venivano schiacciati e tagliati a pezzi dalle lame, i padri venivano separati dai figli, le mogli dai mariti, probabilmente, tra le vittime, c’erano anche dei nonni o dei cugini, travolti dalla furia di quella belva sanguinaria.

Evidentemente mio padre, quel giorno, doveva avere avuto la stupida idea di andare a passeggiare in piazza San Pietro…

Dopo la morte reale di mio padre, quando ero ormai adulta, volli risolvere il mistero della Sacra Rota. Com’era possibile, infatti, mi domandavo, annullare un matrimonio dal quale erano nati ben tre figli?

Andai così a trovare quello che sapevo essere uno dei testimoni della causa di annullamento. Era uno degli amici d’infanzia di mio padre e dunque lo conosceva molto bene.

“Prima di andare da monsignor Milioni,” mi disse, “mi ero preparato a dire ciò che pensavo che volesse sentire da me, che peraltro era la verità. Gli avrei detto che era uomo inaffidabile da tutti i punti di vista, dedito al bere, estremamente promiscuo, insomma un vero disgraziato, ma, appena aprii bocca, monsignor Milioni mi fece cenno di tacere. ‘Non voglio sapere niente. Mi dica una sola cosa sola: è massone?’”

“‘Sì, lo è,’ risposi.”

La Sacra Rota emise così il suo verdetto.