17.

La vita come possesso.

La vita come cammino.

Sono queste le due condizioni tra le quali, alla fine, ci troviamo a scegliere. Individuare un luogo, raggiungerlo e lì rimanere fermi, oppure andare avanti, sentire che nessun posto è veramente giusto; trovare un vestito della taglia giusta e tenerselo stretto. Con il tempo, però, cresciamo e il vestito rimane sempre lo stesso, si adatta alle mutate condizioni del nostro corpo; così, lentamente e inesorabilmente, si trasforma in corazza.

La corazza protegge, rassicura, sostiene un corpo che, via via, si fa più debole. Che bisogno c’è della spina dorsale, se c’è già il suo acciaio a tenerci dritti? L’interno, allora, diventa molle come quello di un gasteropode. Noi non ce ne accorgiamo, anche agli occhi degli altri siamo persone assolutamente normali. In realtà, il nostro interno si disfa lentamente, collassa, e allora i nostri sentimenti, i nostri valori, i nostri pensieri diventano quelli della corazza.

Rigidi, limitati, stretti.

Alla fine l’esoscheletro ha vinto sull’endoscheletro.

Se uno schiaccia un coleottero, sente il crash della corazza chitinosa ma, dopo il crash, sul pavimento resta poco più di una poltiglia acquosa. Ben diversa è la consistenza di chi è dotato di vertebre.

Tutte le fedi – con la sola gravissima eccezione del cattolicesimo che relega il corpo, nel migliore dei casi, a livello di inutile zavorra – parlano dell’importanza della spina dorsale. La spina dorsale è ciò che ci fa stare dritti, ciò che ci fa salire come gli alberi, verso l’alto. Lungo la colonna vertebrale sono situati i chakra e, dall’armonia del loro funzionamento, dipende molto la salute del corpo. Se, nella sua crescita, tende a inclinarsi da un lato o dall’altro, si dice che ha un vizio, un “vizio di postura”. E un vizio cos’altro è, se non l’allontanarsi dalla retta via?

Tempo fa, un ortopedico mi raccontava di avere in cura bambini di nove, dieci anni. Stando sempre sdraiati sul divano a guardare la televisione, accartocciati sul computer o su un videogioco, non hanno più modo di sviluppare il loro apparato scheletrico. Invece di crescere sul piano verticale, si espandono su quello orizzontale. E questo è un segno di mutazione antropologica piuttosto inquietante. Con le parole, possiamo fare discorsi meravigliosi, ma se quelle parole non hanno fondamento nel corpo – nel qui e ora che ci fa esistere – si può mascherare facilmente la falsità di quello che diciamo.

La vita come stabilità delle cose, come stabilità della colonna.

Ma paradossalmente, per raggiungere la stabilità, bisogna portare all’estremo l’instabilità. L’uomo realizza se stesso alla massima potenza soltanto quando accetta la legge profonda del cambiamento. Quanta tristezza, quanta cecità nelle persone che si trincerano dietro alle loro solide opinioni, che malinconia in chi afferma fiero: “Io sono fatto così e non posso farci niente!”

Anche quando non lo sapeva, mia nonna era una nemica della corazza. La indossava certo, perché non conosceva altre condizioni, ma, fin da subito, ne percepì l’errore di misura. Troppo stretta, troppo corta, troppo crudele nel limitare ogni movimento.

In questo senso, ma solo in questo, Va’ dove ti porta il cuore è la sua storia, perché è la storia di ogni persona che, invece di stare ferma, decide di andare avanti, di modificarsi, di cercare quel filo rosso che unisce la banalità dei giorni e, improvvisamente, offre loro un senso.

Va’ dove ti porta il cuore è la storia della ricerca del proprio sé più profondo. Il grande abbassamento culturale degli ultimi anni – unito alla carica di giornalisti che hanno invaso il campo con le loro storie vere in forma di romanzo – ha stravolto il ruolo della letteratura, facendo credere a molti che un libro altro non sia che una trascrizione di un fatto realmente avvenuto.

Quante risate abbiamo fatto con mia madre!

Capitava spesso infatti, nelle situazioni più impreviste, quando lei svelava di essere mia madre – non portavamo lo stesso cognome –, che qualcuno esclamasse: “Ma come? Non è morta?” E lei naturalmente faceva scongiuri di ogni tipo. Mia madre, infatti, era figlia di mio nonno e non il frutto di un adulterio, mentre io non sono stata affatto allevata da mia nonna. Quando già vivevo a Roma, passavamo le vacanze estive insieme e non perché era mia nonna, ma perché eravamo anime affini e stare vicine ci rendeva felici.

Uno dei nostri argomenti preferiti erano i corteggiatori, che lei aveva avuto in abbondanza e che anch’io, all’epoca, avevo in abbondanza. Vicino al telefono le lasciavo dei bigliettini-guida. “Se telefona A. chiamami. Se invece telefona B., fallo aspettare e digli che forse torno stasera. Se poi telefona C. digli che sono partita per un mese.”

Si divertiva molto.

Ogni tanto, con aria gioiosamente infantile, diceva: “Non è imbarazzante che parliamo soltanto di spasimanti?”

“E di cosa dovresti parlare?”

“In fondo sono tua nonna… Potrei dire qualcosa di barboso e di saggio, no?”

Per fortuna, nonna Elsa era già morta quando è uscito Va’ dove ti porta il cuore, così non ha potuto leggere la gran quantità di castronerie scritte sul libro da parte di chi si era accontentato di sfogliarlo inforcando le spesse lenti del pregiudizio.

La protagonista, infatti, è una donna lucida e crudele, una persona capace di dire, riguardo alla figlia morta precocemente, che “non era per niente intelligente”. Una donna che ha mentito a tutti e che, con la menzogna, ha costruito la catastrofe della sua vita. Confondere l’analisi del sentimento profondo con il sentimentalismo è un altro grande segno di ignoranza umana e culturale.

Tra le poche cose lasciatemi in eredità da lei, comunque, c’è una piccola stampa che stava sopra il suo letto e che ora è sul mio. Rappresenta uno scheletro appoggiato con un gomito su un sarcofago come fosse sdraiato su un divano. Sotto, in greco, c’è scritto: “Conosci te stesso.” Bisogna essere spietatamente crudeli per obbedire a questo imperativo.

Fino oltre ai cinquant’anni, mia nonna procedette sulla strada dell’inquietudine e dell’irrequietezza, progredendo più per rifiuti che per aperture. L’incontro con l’amica sopravvissuta ad Auschwitz impose una brusca sterzata a questo suo cammino.

All’improvviso, si trovò davanti a nuove domande, davanti a una sete di conoscenza in un campo che, fino ad allora, le era stato totalmente estraneo.

Proprio a quel periodo – le cose accadono sempre quando il tempo è maturo – risale l’incontro con padre Dietrich, il sacerdote che guidava la comunità cattolica tedesca e che celebrava la messa nella chiesa armena. In lui trovò una guida anticonvenzionale, coraggiosa, capace di infrangere ogni suo dubbio, ogni suo tentennamento. Immersa nelle Scritture, scoprì improvvisamente una nuova linfa per la sua anima ormai appassita. La donna viziata e infelice stava trasformandosi in una persona che camminava verso la leggerezza e la gioia.

Ricordo anch’io il viso di padre Dietrich, un volto dagli zigomi scolpiti, da tedesco del Nord. A lui, alla sua memoria, ho dedicato il personaggio di padre Thomas. Sul prato sia il prato, sotto l’albero sia l’albero, con gli uomini sia tra gli uomini.

Purtroppo, fu stroncato da un tumore ancora in giovane età, lasciando così mia nonna orfana delle sue frequentazioni domenicali.

Ma intanto, in quella chiesa, aveva conosciuto Maria.

Maria era l’esatto opposto di mia nonna. Maestra elementare – nella mia stessa scuola tra l’altro – aveva cominciato a lavorare a vent’anni, percorrendo in bicicletta tutte le zone più desolate del Carso e dell’Isontino. A differenza della nonna, non aveva mai avuto un corteggiatore o, se l’aveva avuto, l’aveva scartato in quanto non di suo gusto, ed era stata sempre una donna indipendente. Non erano molte, allora, le donne che si mantenevano con il proprio lavoro e credo che mia nonna un po’ la invidiasse per questo. Alta, magra, camminatrice, appassionata di botanica, parlava perfettamente il tedesco ed era una grande conoscitrice della letteratura di quella lingua. Di spirito protestante, conosceva bene le Scritture. Viveva al pianterreno di una villetta nello stesso quartiere dove sono nata.

Alla morte di mio nonno, diventò la grande compagna di mia nonna. Stavano insieme e parlavano fino allo sfinimento di letteratura, di teologia, di qualsiasi cosa venisse loro in mente.

La sete di conoscenza e di verità di Maria coincideva perfettamente con quella di Elsa. Era la prima volta nella sua vita che trovava una persona con la quale confrontarsi a un livello alto.

“Solo dei corteggiatori non posso parlare con lei,” si lamentava ironicamente con me.

“Pazienza,” le rispondevo. “Puoi sempre farlo con me.”

Insieme leggevano, insieme studiavano, insieme viaggiavano. Insieme, con allegria, con passione, con curiosità, si sono avviate verso quell’età che, di solito, viene considerata la più triste. Da giovane Maria aveva avuto la tubercolosi ed era rimasta di salute cagionevole. “Povera Maria, è così delicata,” ripeteva sempre mia nonna, che non aveva mai avuto nulla, neppure un’unghia incarnita. Malgrado ciò, se ne andò vent’anni prima della sua amica, dopo aver affrontato l’atroce oscurità dell’Alzheimer. Così ho ereditato l’amicizia di Maria nella mia vita.

Maria, la mia prima grande lettrice, la mia prima grande incoraggiatrice! Quando passavo per Trieste, andavo regolarmente a prendere un tè da lei. Parlando dei giorni trascorsi con mia nonna, spesso si commuoveva.

Che gretta ottusità pensare che i legami dettati dal sangue siano i più importanti! Che prigione mediocre ritenere il sesso ciò che lega davvero le persone!

È nell’amicizia che l’essere umano conosce la forma più imprevedibilmente alta di rapporto.

Nel cuore di mia nonna, il posto di padre Dietrich non venne poi più preso da nessun altro. Fece alcuni deboli tentativi di trovare dei sostituti, ma, come le incontentabili principesse delle fiabe, li scartò uno dopo l’altro. Troppo poco uomini, troppo moralisti, superficiali, melliflui. Tutti troppo interessati a una sola cosa. Ricevere dei soldi.