27.

Tornare a Trieste, in qualche modo, aveva voluto dire tornare alle mie radici. Mi era mancato molto il soffio del vento, come anche l’assenza del Carso aveva lasciato un vuoto che non era stato sostituito da nulla.

In quelle asperità, nel biancore aguzzo del calcare mi riconoscevo molto di più che nelle dolci colline moreniche che contornano la pianura friulana. C’erano voragini nel Carso, cose nascoste, fatica, stentatezza; tutto lì cresceva “nonostante”. Nonostante il vento, nonostante lo strato minimo di terra, nonostante l’assenza di acqua.

La vita sul Carso era una vita “contro”. Non crescono grandi alberi lassù, ma solo boscaglia dalle radici uncinate. Una vita che, per esistere, è costretta ad affermare la sua caparbietà.

Come potevo non identificarmi con quella condizione?

Oltre a questo, il Carso a quei tempi era anche una terra divisa. Il confine con quella che una volta si chiamava Jugoslavia passava a pochi chilometri da dove vivevo ed era un confine ben diverso da quello che, ad esempio, separava l’Italia dalla Francia. Lì finiva l’Occidente e cominciava l’Oriente, dove per Occidente si intendeva tutto il mondo libero e Oriente stava a indicare tutti quei paesi la cui la libertà era stata sottratta dai regimi comunisti.

All’epoca – il trattato di Osimo non era ancora stato firmato – l’altopiano si divideva in zona A e zona B e noi abitanti eravamo forniti di un lasciapassare, la propusnica, che ci permetteva di muoverci avanti e indietro, senza attraversare i valichi di confine maggiori. Da bambini, andavamo spesso a fare la spesa con la nonna nella zona B, dove tutto era più conveniente, ma anche più povero e più grigio.

Se sono riuscita a non farmi stordire dalle sirene dell’ideologia, che tanti pensieri hanno sottratto ai miei coetanei, penso abbia contribuito anche questo precoce e disincantato rapporto con i paesi in cui il comunismo non era un sogno, ma un’opprimente realtà. Tutti i picnic e le passeggiate della nostra infanzia sono stati segnati dal timore delle esercitazioni, dei mitra e dei fucili che potevamo trovarci spianati addosso appena facevamo un passo falso, dalle grandi pietre che sapevamo benissimo non essere pietre, ma camuffamenti che nascondevano cannoni, dai cani che abbaiavano in continuazione e non appartenevano ai gitanti, bensì alle continue ronde che di giorno e di notte andavano alla ricerca di eventuali sconfinatori. Sconfinatori casuali come noi, da picnic, oppure sconfinatori lucidi e determinati. Persone in fuga da quel mondo che, in Occidente, molti ci incitavano a sognare.

Oltre al fenomeno potentemente ansiogeno di quel confine persecutorio, qua e là, sparse per l’altopiano, c’erano anche delle voragini il cui ingresso era sigillato da una lastra di pietra con una croce sopra. Ce n’era una, in particolare, attorno alla quale andavamo spesso a raccogliere i ciclamini che, in quel punto, crescevano più grandi e più profumati che altrove.

“Che cosa c’è qua dentro?” chiesi un giorno a mia nonna, seduta sul fresco di quel marmo, dondolando le gambe, con il mazzolino di fiori in mano.

“Morti,” mi rispose. “Qua sotto ci sono molti morti.”

La solita, monotona risposta. Quella volta, mia nonna non si diffuse in spiegazioni sugli eventi della seconda guerra mondiale, ma fu invece mio fratello a farmi da maestro, appassionato divoratore qual era della rivista Storia illustrata.

Mi raccontò che li legavano a due, i prigionieri, per risparmiare le pallottole, poi però sparavano a uno solo, così l’altro veniva trascinato giù e moriva comunque, magari dopo giorni di agonia, schiacciato da altri corpi.

Oltre a quel dettaglio, di cui la mia sensibilità esasperata non aveva certo bisogno, mio fratello provvide anche a farmi conoscere sui misteri del nazismo. I bunker di Berlino erano una delle sue ossessioni. “Non c’è alcuna prova,” ripeteva per rassicurarmi, “che Hitler davvero sia morto lì; non è stato trovato il corpo, né il cranio, niente.” In realtà, lui aveva soltanto fatto finta di avvelenarsi con il cianuro, sosteneva. Da tempo, a sentire mio fratello, il dittatore nazista, essendo un uomo previdente, aveva fatto scavare dei cunicoli sotto l’oceano Atlantico e, attraverso quelli, con i suoi fidi, aveva raggiunto il Sudamerica. Lì viveva indisturbato sulle Ande e presto, percorrendo le gallerie all’incontrario con un nuovo esercito e risalendo dalle fogne, sarebbe tornato a riconquistare l’Europa. Immaginavo allora i suoi fedeli non molto diversi da ratti giganti, vedevo i loro nasi neri e sensibilissimi uscire vibrando dalla tazza del cesso: snuff snuff snuff, ucci ucci, sento odor di ebreucci.

Come non pensare alla zia Letizia e al suo racconto sulla seconda guerra mondiale? Un giorno, alla casa nelle campagne venete in cui si era nascosta con la sua famiglia, bussò imperiosamente un drappello di tedeschi. Attimi di panico. Che fare? Alla fine lei, con il suo incedere da regina, andò ad aprire la porta; la zia e i soldati si squadrarono a lungo, a vicenda. “Desiderate?” “Haben sie salami?” Invisibile ed enorme respiro di sollievo: “Salami? Aber natürlich!”

Credo che quel drappello si sia allontanato da casa avvolto in file di salsicce come un albero della cuccagna. Troppo affamati, troppo stanchi per accorgersi del volto squisitamente mediorientale della persona che glieli stava arrotolando intorno al collo. Ricordo ancora la risata sonora della zia Letizia quando mi raccontava questa storia. “Salami? Ma certo! Anche prosciutti, salsicce, cotechini, sanguinacci…”

Ma non sarebbe stato possibile ingannare i ratti! Per anni, il loro fiuto era stato addestrato soltanto a riconoscere anche la minima molecola in circolazione di quel popolo infame. Meglio allora chiudere ogni sera la tavoletta del gabinetto, meglio serrarla – come la faceva la protagonista di Per voce sola – anche di giorno, magari con un peso sopra.

Passeggiando sul Carso, in quei mesi, mi tornarono in mente tutti i pensieri, tutte le angosce che la Storia aveva depositato sulla mia anima nel corso dell’infanzia; angoscia per la fine perennemente in agguato nei giorni; angoscia per l’ingovernabilità degli accadimenti; angoscia per il fatto di appartenere al genere umano – tra tutte le specie di creature, la più assetata di sangue.

Se fossi cresciuta tra le dolci colline delle Marche, nell’Agro Pontino o a Capri, il mio sentire della vita sarebbe stato completamente diverso. Invece ero lì, sospesa tra quegli stentati arbusti e quelle pietre assetate di sacrifici umani. Camminavo per ore tra la boscaglia e i prati giallastri, tra le crepitanti macchie di pino nero e i balzi di roccia bianca che precipitavano verso il mare. Uscivo la mattina e tornavo la sera, non c’era anfratto, non c’era dolina o castelliere che mi fosse sconosciuto. Non mi era chiaro se qualcosa inseguivo o da qualcosa stavo sfuggendo. Intanto continuavo ad andare avanti, improvvisamente commossa per l’inaspettato apparire di un fiore. Una genziana, una pulsatilla – la memoria della presenza del bello.

Nei giorni di vento, poi, raggiungevo un certo valico attraverso il quale la bora si incanalava con particolare forza. Lì in piedi aspettavo le raffiche e, al loro arrivo, aprivo le braccia, abbandonandomi a peso morto al loro abbraccio. Avrei dovuto cadere, invece, finché il vento era con me, rimanevo sospesa nell’aria.

Il vento che sibila, che ulula, altera in profondità l’equilibrio del tuo corpo senza chiedere il permesso. Quello della postura non è che il più evidente. Ti pieghi, barcolli, cerchi disperatamente di aggrapparti a qualcosa. In questo smarrimento delle verticalità si nascondono altri sconvolgimenti. La linfa, il sangue, la sostanza in cui è avvolta la scatola cranica iniziano a scorrere in modo intermittente, i pensieri si confondono, strappati di colpo dalla loro consequenzialità e i sentimenti, sotto quell’invisibile sferza, all’improvviso si alterano, impennandosi come cavalli imbizzarriti.

Per la medicina cinese, l’elemento “vento” è uno dei più destabilizzanti perché grazie a lui i pori si aprono e i soffi perversi penetrano all’interno. La medicina occidentale non deve essere arrivata a conclusioni molto diverse dato che, in molti paesi, un delitto compiuto in un giorno di forte vento viene giudicato con più indulgenza.

La casa dei miei nonni materni si trovava proprio di fronte al tribunale: un enorme e opprimente edificio costruito negli anni del fascismo. Ricordo che, nelle notti di forte bora, si raccoglieva una piccola folla davanti al suo portone. Arrivavano alla spicciolata e lì rimanevano gran parte della notte, inveendo con i pugni alzati contro la facciata di quel cupo palazzo e io mi addormentavo cullata da quell’incomprensibile cantilena alternata alla potenza delle raffiche. Una delle statue poste a ornamento della facciata teneva in mano una bilancia ed era contro quella che le persone raccolte là sotto protestavano. Esiste davvero la giustizia, nel mondo degli uomini? Basta avere una conoscenza anche minima della vita, per potersi darsi una risposta. Quella bilancia è un’ipocrita finzione. La giustizia terrena riguarda infatti molto limitatamente gli esseri umani: palazzi, carte, avvocati e giudici non sono altro che una modesta messinscena per rendere meno evidente quella verità. Era questo che offendeva e feriva le persone là sotto.

Il vento dunque scoperchia le pentole, mette a nudo ciò che è pura convenzione, scombina i pensieri dal loro percorso obbligato, facendo intravedere nuove direzioni verso cui muoversi.

Anni fa conobbi uno studioso che stava tentando di analizzare in che modo l’effetto destabilizzante del vento avesse potuto influire sulla prosa di James Joyce. Per comprendere l’influsso del vento sulla sintassi basterebbe ascoltare i triestini: parlano tutti in modo velocissimo, come se nelle profondità del loro respiro fosse racchiusa una raffica di bora.

Il vento, insomma, porta con sé ogni tipo di instabilità ed è proprio questa instabilità che permette di affacciarsi su altri mondi.

Avevo già cominciato a scoprire la poesia durante l’adolescenza, grazie all’amicizia con Luisa. Non era stata la frequenza della scuola ad averci avvicinate – lei, infatti, frequentava il liceo classico – ma quella forma sottile di insoddisfazione che ci rende facilmente e misteriosamente diversi dagli altri: ci si annusa, ci si intuisce simili e quella similitudine, a un tratto, unisce più di qualsiasi rapporto di sangue. Alla fine, in fondo, una delle ragioni più evidenti di diversità tra gli esseri umani è proprio questa: la capacità di inquietarsi per l’invisibile o il non vederlo affatto. Tra le due condizioni, ovviamente è preferibile la seconda, perché è evidente che il mondo è retto e dominato da chi possiede questa felice cecità. Tuttavia, senza la prima, la vita di tutti noi sarebbe straordinariamente più povera.

Le sfide dell’arte e della scienza nascono proprio da questa inquietudine. Gli inquieti si legano tra loro senza bisogno di molte parole.

Luisa e io eravamo innamorate della poesia.

Leggevamo soprattutto i poeti francesi perché a scuola studiavamo entrambe quella lingua e, con l’enfasi esagerata dell’adolescenza, passavamo ore a discutere sul significato dei loro versi. Villon, Baudelaire e Rimbaud erano i nostri preferiti perché riconoscevamo in loro un estremismo che combaciava perfettamente con il nostro di allora. Sognavamo di trasferirci a Parigi, da grandi, la capitale francese era la nostra città mito, come lo è, per i ragazzi di adesso, Londra, probabilmente grazie a Harry Potter. Lì avremmo vissuto nel turbine della bohème: grandi amori, alcol, di tanto in tanto un po’ di oppio e una vita sempre e comunque fuori dall’ovvietà del quotidiano.

Che grandi giornate abbiamo passato assieme! Per noi tutto era troppo piccolo, troppo meschino. Luisa viveva in un piccolo e grazioso paese in collina, in una casa dalla posizione infelice, accanto a un cavalcavia. Andavo spesso a trovarla e lì fantasticavamo per ore sulla vita meravigliosa che avrebbe sfavillato davanti a noi nel momento in cui fossimo riuscite a sfuggire da quell’opprimente grigiore.

In qualche modo, Luisa ha tenuto fede a questo impegno perché poi si è sposata con un vero poeta e hanno vissuto felici insieme fino a che la morte – di lui – non li ha separati.

Leggevamo poesie, è vero, ma non mi pare proprio di ricordare che le scrivessimo. Quei versi mi entusiasmavano per il loro vigore, per la carica eversiva che traspariva delle loro parole, ma l’eco interiore, a dire il vero, fu piuttosto scarsa. Con la poesia russa andò un po’ meglio, anche se la vera apertura della mente e del cuore per me avvenne con la poesia tedesca.

Con Rilke, soprattutto. Camminando sul Carso, un giorno arrivai alle bianche falesie di Duino e aprii a caso le Elegie duinesi. Quando lessi:

Ma chi ci ha rigirati così

Che qual sia quel che facciamo

È sempre come fossimo nell’atto di partire? Come

Colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una

Volta ancora

Tutta la sua valle, si ferma – indugia –,

così viviamo per dir sempre addio.

all’improvviso, visceralmente e in forma larvale, capii che, da qualche parte, tra me e le parole era stato scritto un destino.