7.

Che cosa sappiamo davvero di ciò che si trasmette, attraverso i geni, da una generazione all’altra? Apparentemente molto, sempre di più, ma in realtà ancora quasi niente.

Quando penso alla mia linea di discendenza paterna, al gelo che usciva da quel portone e a quello anaffettivo che usciva da tutte le figure a me note, non posso pensare ad altro che a qualche micron di filamento trasmesso devotamente di generazione in generazione.

Il gelo dei Carpazi, il gelo degli Urali, il gelo dei Kurgan, popoli scesi dalle steppe assieme al vento a colonizzare le miti sponde dell’Adriatico, il gelo della Transilvania, dei vampiri addormentati nelle segrete dei castelli, dei morti viventi che, di paese in paese, attraversavano i Balcani bevendo slivovitz e raccontando storie.

La verità sulla morte della sorella di mio padre la conobbi soltanto intorno ai trent’anni, in modo piuttosto casuale.

Ero a Roma, durante una cena a casa di amici, e la mia vicina di tavolo, una signora di una certa età – allora non ero ancora una persona nota – vedendomi prendere il tovagliolo, esclamò:

“Le mani di Marisa!”

“Probabilmente sì,” le risposi, “dato che sono sua nipote.”

Allora la signora mi raccontò la storia che, da più di vent’anni, aspettavo di conoscere. Marisa era infatti la sua migliore amica, avevano fatto il liceo insieme, e con lei aveva trascorso gli ultimi giorni della sua vita. Mia zia allora viveva a Firenze, dove studiava Scienze naturali. La mia vicina di tavola invece si era trasferita a Venezia da Trieste.

Tornando a casa per le vacanze di Natale, Marisa si era fermata un paio di giorni a trovare la sua vecchia amica. Lì, vuoi per il freddo, vuoi per la stanchezza del viaggio, le era esplosa una brutta influenza, così aveva chiamato il padre chiedendogli di poter rimanere a Venezia fino a quando non si fosse sentita meglio. Ma il padre, uomo inflessibile – nuca rigida e baffetti stretti –, non ne aveva voluto sapere. “Il Natale si deve passare in famiglia! A questa regola non esistono eccezioni!”

Così, seppure molto malata, Marisa dovette mettersi in viaggio da Venezia a Trieste con la bora, con il ghiaccio, con i treni del 1936. Arrivata a casa, prese parte al pranzo natalizio – che cosa festeggiassero non mi è chiaro, visto che erano tutti dei feroci anticlericali – e si mise a letto. Qualche giorno dopo, in quello stesso letto, passò dal sonno alla morte.

Era sola a casa, il padre era uscito per andare al caffè e la madre a incontrare delle amiche. Rientrati all’ora di pranzo, trovarono il suo corpo ormai freddo. Il morbo misterioso, il fato maligno, alla fine, non fu probabilmente altro che una polmonite.

Dall’amica, poi, avevo saputo che Marisa era una persona libera, indipendente, ribelle e dotata di un grande fascino, oltre che di una grande passione per i cani. Amava molto anche la musica e, finché era vissuta, aveva tenuto una corrispondenza con Bruno Walter, il direttore d’orchestra.

Così, quella sera, dallo stampo il cui vuoto io avrei dovuto colmare, la zia Marisa si trasformò finalmente in un essere reale, una persona con lati del carattere che avrei potuto sentire molto affini. Per qualche ragione misteriosa, quel frammento di DNA – il frammento del gelo, della linfa che si trasforma in ghiaccio e da lì irradia una Siberia interiore – in lei non si era replicato, ma era stata proprio questa diversità ad averla resa fragile, anche se in modo diverso da me. Il gelo l’aveva colpita con la perentorietà degli ordini, con l’arroganza dell’autorità, con l’impazzare del credo darwinista.

Soltanto qualche anno fa sono andata a cercare la sua tomba. In una grigia giornata di nevischio, ho dovuto girare in lungo e in largo prima di trovarla. Dato che noi Tamaro eravamo solo vuoto generato dal vuoto, non ero mai stata messa al corrente dell’esistenza di un qualche tipo di umana sepoltura. Per quello che ne sapevo, i miei antenati paterni potevano anche essere impegnati a girare il mondo come zombi.

Ma alla fine l’ho trovata.

Dei semplici nomi incisi su una lastra di pietra circondata da una pesante catena. Nessun fiore, nessun ornamento – erbacce e rovi, come fosse il sepolcro di un romanzo gotico. Nello striminzito vasetto preposto agli omaggi, c’erano soltanto sassi. L’acqua caduta con la pioggia si era ghiacciata imprigionandovi delle pietre. Impossibile infilarvi la rosa che le avevo portato. Così l’ho deposta sul suo nome, su quelle date di una troppo breve vita. Poi sono scesa giù di corsa, senza più voltarmi.

Marisa, dolce vittima della durezza e della follia.

Per due anni ho frequentato l’asilo, del quale conservo pochi ricordi tristi e confusi legati per lo più al mio malessere nei riguardi della socialità.

L’estate antecedente all’ingresso alla prima elementare, invece, era stata un periodo di grande eccitazione. Presto avrei avuto una cartella e dei quaderni, un astuccio con delle matite colorate e finalmente avrei varcato anch’io l’austero portone in cui già da diversi anni entrava mio fratello.

L’edificio, a dire il vero, non era particolarmente entusiasmante. Adesso gli spazi dedicati ai bambini sono pieni di luce, colorati, con meravigliose vetrofanie alle finestre. Ai tempi della mia infanzia, invece, erano cupi, austeri, niente nel loro aspetto faceva pensare a un luogo di gioia o di svago.

La mia scuola era una costruzione di mattoni rossi, un lungo rettangolo con due minacciosi torrioni ornati da due leoni alle estremità – l’entrata dei maschi e l’entrata delle femmine – circondato da una acuminata recinzione. Un portone di legno pesantissimo fungeva da fauce oscura. I bambini vi sparivano inghiottiti come fosse la bocca di un mostro. Non sembrava particolarmente invitante. Più che un luogo di istruzione, aveva la parvenza di un carcere, ma questo suo aspetto non smorzava affatto il mio desiderio di varcare quella soglia.

Ricordo il primo giorno, la grande folla assembrata nella palestra, le maestre che, con una lista in mano e voce squillante, chiamavano gli scolari a loro assegnati, il gruppo che via via si assottigliava con le classi formate che uscivano dalla sala.

Il mio nome non usciva mai, mai!

Pensavo già che si fossero dimenticati di me o non mi volessero, quand’ecco: “Tamaro Susanna!” I passi che feci per raggiungere i miei compagni furono quasi di danza, le gambe tremavano per la paura, ma dentro di me c’era una forza più grande.

Sapevo che, varcata quella porta, niente più sarebbe stato come prima. Avrei imparato a leggere, a scrivere, avrei trovato finalmente qualcuno che avrebbe risposto a tutte le domande che avevo in testa e alle quali mio fratello non aveva saputo rispondere.

Le domande!

L’incubo, l’ossessione della mia vita, il filo rosso che univa i miei giorni alle mie notti, quel filo che molto spesso si trasformava in rete, in groviglio. Là dentro sì, avrei trovato il bandolo, qualcuno me lo avrebbe messo in mano e allora i miei pensieri si sarebbero dipanati ariosi, sarebbero stati pensieri-aquilone. Io avrei tenuto in mano un’estremità del filo e loro, sospinti da una brezza leggera, sarebbero saliti in alto, sempre più in alto con code colorate, lunghe, fruscianti. Sarebbe bastato alzare il naso per riuscire ad ammirarli.

I primi due anni sono stati meravigliosi. La mia maestra, la maestra Soldati – per una volta il nome non corrispondeva alla realtà –, era una persona allegra e serena, che amava molto il suo lavoro. Abbecedario, stanghette, lineette, curve, tabellina dell’uno, del due, castagne nel riccio, il grappolo con gli acini e i vasi pieni di fagioli posati nell’ovatta vicino alla finestra.

Gli unici anni di scuola in cui davvero ho imparato qualcosa sono stati quelli, piccolo sprazzo di Capri incastonato in una cupa caserma inglese. In sottofondo quasi si sentiva Funiculì funiculà. Mi ero persino dimenticata di essere una persona drammaticamente timida, una bambina che aveva enormi difficoltà a parlare.

Mio fratello e io andavamo e tornavamo a scuola a piedi, con qualsiasi tempo, in qualunque stagione.

Lungo la strada ogni tanto compariva un signore che ci invitava ad andare a vedere il suo acquario. A me sembrava una proposta piuttosto interessante, ma mio fratello neanche gli rispondeva e tirava dritto.

Allora non si sapeva neppure cosa fosse un pedofilo ma i bambini erano perfettamente addestrati a non parlare con gli sconosciuti, a non accettare caramelle e proposte di alcun tipo.

Poco prima della scuola, ci fermavamo alla panetteria a comprare la merenda. Ovviamente i soldi li gestiva mio fratello e così, fin da subito, ha cominciato a imbrogliarmi. “Sei malata,” mi ripeteva, “malata di fegato, per questo devi mangiare il pane senza niente dentro.” Così nell’intervallo, addentavo sempre un panino tagliato in due e vuoto. E lui si mangiava doppia razione di cioccolata.

Quegli anni – i miei sei, sette – sono stati anni di relativo respiro. C’era Gianna e la promessa luminosa del sapere, con l’affettuosa presenza materna dell’adorata maestra. Ancora non ero scesa nel mio iceberg, ancora potevo illudermi di essere una bambina come tutte le altre. Avevo persino stretto amicizia con una compagna di classe che abitava nel palazzo accanto al mio. Lei, Daniela, era quello che io non ero: fisicamente robusta, estroversa, intraprendente e, come se non bastasse, padrona anche di un cane dalmata, Lady, cosa che nell’epoca della Carica dei 101 non era davvero poco.

Aveva una madre con lunghi occhi verdi che faceva la madre, aspettava il ritorno da scuola dei figli e preparava patate fritte e cotolette croccanti. Con Daniela condividevo l’assoluta insofferenza per i giochi delle altre bambine e una certa inclinazione per l’avventura, che in me era per lo più teorica, ma che lei era abilissima a trasformare in pratica.

Ricordo ancora con vero terrore la volta in cui abbiamo deciso di andare in canotto a Venezia. Avevamo fantasticato per giorni su questo. Volevamo arrivare a piazza San Marco, scendere dal mio minuscolo canotto – quello che doveva volare –, parcheggiarlo, dare da mangiare ai piccioni e tornare indietro.

Sembrava un’impresa davvero meravigliosa. Peccato che una volta arrivate al largo avessimo scoperto l’esistenza delle correnti. Remavamo, remavamo e il canotto andava dalla parte opposta! L’immagine dei piccioni di piazza San Marco si trasformò allora in quella di Robinson Crusoe, di cui da poco avevo visto le avventure in televisione. Resto sempre stupita di quanti pochi bambini muoiano ogni giorno per le conseguenze dei loro giochi.

Primo ottobre della terza.

Rientro in classe, dopo le vacanze, con passo leggero ed esco, cinque ore dopo, con il cuore racchiuso in un morso d’acciaio. Il pavimento aveva ceduto e la maestra non c’era più, era stata inghiottita da quel gorgo oscuro, come un maelström che in perpetuo movimento roteava intorno a me.

Scomparsa la maestra Soldati, sparita la classe, smembrata e diluita nelle aule intorno.

Credo di aver pianto per un mese intero.

Mi svegliavo e piangevo, mangiavo e piangevo. Andavo a scuola e piangevo. Facevo i compiti e piangevo. Dormivo poco e, al risveglio, il cuscino era sempre bagnato. Persino mia madre, mossa a pietà, mi aveva bisbigliato: “Non è morta, è solo andata in pensione.”

In quel mese di ottobre, una parte di me – la parte che aveva sperato, che si era illusa – era completamente morta. Sapevo che, da quel giorno in poi, avrei dovuto conviverci. Per un po’, forse, sarei riuscita a tenerla nascosta, ma poi il suo forte odore di decomposizione avrebbe finito per svelare anche agli altri la mia reale situazione.

La nuova maestra aveva una difficile situazione familiare e dunque il suo comportamento era molto diverso da quello che conoscevo. Urlava, si spazientiva per poco. Sotto le sue urla mi trasformavo in un paguro bernardo. Entravo nella conchiglia e chiudevo le paratie stagne.

Non sentire, non sapere, non vedere.

Ogni tanto percepivo una sorta di eco lontana – spiegazioni, grida, risate dell’intervallo, tutte cose che non mi riguardavano più.

Durante l’ora di ginnastica, marciavamo al ritmo di un tamburello. Avanti e indietro, indietro, avanti, fianco dest, fianco sinist, paaasso, dietrofront. Io battevo sempre il passo fuori tempo, mi giravo sempre dalla parte sbagliata. Sopra sotto, destra, sinistra, niente mi era chiaro dello spazio intorno. Spazio di rischio, spazio di minaccia.

La creatività letteraria latitava notevolmente. Nei pensierini liberi scrivevo “Oggi c’è il sole”, se quel giorno c’era il sole; se invece c’era la pioggia “Piove e fa freddo”. La libera espressione – quella che al giorno d’oggi va tanto di moda – mi metteva in una condizione di assoluto terrore.

I numeri invece mi davano conforto. Erano lì e lì stavano dalla notte dei tempi. Le dita di una mano erano cinque e questo era valido in tutto il mondo. Se le mani erano due, diventavano dieci, e anche questo era universalmente riconosciuto.

La stessa cosa valeva per i solidi. Una palla era una palla, un dado un dado; solo un pazzo avrebbe potuto negare una realtà così evidente.

Riflettendo nel silenzio della mia conchiglia, ero giunta alla conclusione che ogni oggetto esistente dovesse avere il valore anche di un numero e che dunque, sommandoli tutti insieme, avrei potuto arrivare a quello che da sempre cercavo – il numero dei numeri, il numero che conteneva tutto ed era in grado di generare tutto.

Così, con l’umiltà di chi sa di avere davanti a sé un lungo lavoro, mi ero messa a contare. Era quella, infatti, l’unica strada che conoscevo per giungere alla meta. Contavo in tutti i momenti liberi del giorno. La sera, su un foglietto, scrivevo la cifra raggiunta e la mattina dopo ripartivo da lì. Contavo quando mio padre c’era e quando non c’era; contavo quando mia madre guardava il vuoto con la benda sugli occhi e quando se la toglieva per cucinare; contavo quando mi schiantavo brutalmente sul cemento della pista da pattinaggio; contavo sulle soglie della notte; contavo per la strada, sull’autobus, sotto il tavolo della stanza dei nonni.

Contavo e quei numeri erano il filo d’oro dei miei giorni, che si dipanava di stanza in stanza, di curva in curva, come nel labirinto di Minosse. Seguivo quel filo e i miei giorni avevano un senso, una direzione, sapevo da che parte andare e perché ci stavo andando, nessuno ancora mai mi aveva dato delle risposte così esaurienti. Ho contato con devozione, con pazienza, con segreta felicità. Ho contato finché una mattina, al risveglio, una domanda terribile è sorta nella mia mente. Come avrei potuto riconoscere il numero così grande da contenere e generare tutti gli altri numeri? Sarebbe successo come nei flipper dei bar, quando d’improvviso si illumina tutto?

Oppure…?