5.
Volare sì.
Volare via, lontano, le ossa improvvisamente cave, il sacco aereo al posto dei bronchi. Una mattina mi sarei sporta dal balcone di cemento e da lì, nella meraviglia generale – ma guarda, chi l’avrebbe detto, ha imparato a volare! – mi sarei lanciata compiendo dei grandi giri di prova sopra il cortile. Poi sarei salita in alto, ancora più su, fino a vedere le case della città piccole e regolari come i cubi di legno con cui ero solita giocare.
Da lassù avrei poi deciso dove andare. A est, verso le alture da cui scendeva la bora, l’avevo già escluso per motivi di sicurezza. Il mare sembrava invece un’alternativa attraente. Più vai a sud e più è caldo, mi aveva detto mio fratello, e poi laggiù c’è Istanbul…
Istanbul! Già solo il nome mi faceva sognare.
Purtroppo, nonostante il mio impegno, i progressi nello spiccare il volo erano modesti, così decisi di spostare la data dei mio exploit al Duemila.
“Credi che voleremo nel Duemila?” chiedevo a mio fratello.
“Certo che voleremo,” rispondeva, “voleremo con il pensiero. Ci siederemo nel nostro canotto e lui, con noi sopra, volerà.”
“Senza volante? Senza niente?”
“Senza volante, senza niente. Pensiero e basta.”
Piccola pausa di riflessione, poi io chiedevo.
“Ma nel Duemila sarò ancora viva?”
“Per forza, avrai quarantatré anni.”
Già, ma intanto come sopravvivere fino al Duemila?
Dalla constatazione che non erano fatti l’uno per l’altra, i miei genitori avevano nel frattempo fatto progressi.
La presenza di mio padre si era fatta saltuaria, un po’ c’era e un po’ no, su quel un po’ no non c’era alcuna spiegazione. Non che cambiasse molto perché, anche quando era presente, non parlava. Se ne stava sempre seduto in poltrona con gli occhiali da sole a guardare il vuoto. Anche mia madre guardava il vuoto dietro a occhiali scuri, su un’altra poltrona. Un giorno, però, i suoi occhi si sono ammalati, così al posto degli occhiali portava una benda scura come quella dei pirati.
Noi cercavamo di essere la non esistenza.
Non fare rumore, non parlare, non disturbare, non avere sciocche esigenze.
Credo che mio padre avesse una ripulsa quasi fisica nei confronti dei bambini, esseri deboli, insignificanti, soprattutto irritanti. Quando si ricordava di averne generati due, era preda di improvvisi scoppi d’ira. Camminavamo così in punta dei piedi, trattenendo il fiato. Per fortuna mio fratello era bravissimo a guidare il tappeto dell’ingresso. Lui si sedeva davanti, io dietro e, su quel tappeto, andavamo lontanissimi. Tappeto nave, tappeto treno, tappeto volante, capace di portarci a Istanbul in un istante.
Cancellata l’idea di essere una famiglia, i miei genitori stavano cercando di immaginare nuove strade verso cui dirigere le loro vite. Era come se la nostra casa fosse diventata una stazione di autocorriere. Salivano su un mezzo, scendevano da un altro; alcune volte soli, altre in compagnia, spinti dalla loro ansia di esplorazione. Ogni tanto si incontravano nell’atrio per cambiare bagagli. Le loro espressioni erano sempre tristi, tese. In tutto questo andirivieni di arrivi e partenze, si erano dimenticati dei due pacchi che sarebbero stati di loro competenza.
I pacchi eravamo noi.
Stavamo lì sul marciapiede ad aspettare un segno, un cenno, un fischio, qualcuno che ci rivolgesse la parola, che ci mettesse un cartello al collo con sopra scritta la destinazione.
Proprio mentre stavamo lì in attesa di qualcuno che ci indicasse la strada, nella nostra vita comparve Gianna.
Gianna veniva il pomeriggio, dalle tre e mezza alle sette, e si prendeva cura di noi. Ora si chiamerebbe baby-sitter ma quella volta, a Trieste, si chiamava “signorina”, per diretta traduzione dal tedesco Fräulein. Rimase con noi dai miei tre anni ai sette e, più che una signorina, per noi fu una zattera. Dal tappeto volante dell’ingresso saltammo direttamente su di lei e, su di lei, restammo abbarbicati sfoderando tenaci unghione da bradipi.
Gianna era giovane, gentile, affettuosa.
Invece di trattarci come delle scimmie astutamente ribelli, ci trattava come dei bambini a cui voler bene. Spesso, nell’età adulta, mi sono ritrovata a pensare che forse, proprio grazie alla sua presenza mio fratello e io non siamo morti in giovane età in qualche gabinetto di periferia con un ago conficcato nelle vene.
Lei era il Virgilio con cui abbiamo cominciato ad attraversare in lungo e in largo la città. Uscivamo con qualsiasi tempo. Il bambino darwiniano infatti doveva essere assolutamente indifferente alle variazioni meteorologiche. Lasciavamo la palazzina di cemento – in piena estate, in sandali e maglietta; in inverno, con la bora che soffiava oltre i cento chilometri all’ora, nei nostri logori loden che svolazzavano come bandiere intorno al corpo – e andavamo a esplorare il mondo.
Ricordo lunghe marce attraverso le Rive, con le locomotive che transitavano fumose e lente, nascondendo in gran parte il mare; le soste in piazza Unità, dove c’era una vecchietta che vendeva cartocci di granturco per i colombi; i pomeriggi passati sul molo con le gambe a penzoloni, una togna in mano e la curiosità di sapere cosa mai sarebbe venuto su da quel filo trasparente che spariva nell’oscurità cupa dell’acqua del porto. E poi, appena il filo si tendeva, il terrore, perché “non uccidere” è stato fin dall’inizio per me un imperativo categorico.
Gianna ci aveva poi fatto scoprire l’Acquario, accanto al molo, luogo di elezione della mia infanzia. Un lato dell’enorme edificio di mattoni rossi lo conoscevo già perché era la Pescheria centrale e vi ero andata spesso con mia madre a fare la spesa.
All’interno, le voci rimbombavano in maniera straordinaria, c’era un odore fortissimo di pesce e il mio sentimento era sempre contrastante. Una parte di me, infatti, – quella che avrei conosciuto più tardi – era eccitata dall’idea di vedere tante forme di vita così diverse; l’altra, invece – quella che conoscevo già, l’insonne e devota alla morte – non riusciva a sopportare la vista delle branchie che si dilatavano spasmodicamente, di quei guizzi, quei salti, quei colpi di coda sempre più deboli, quegli occhi che via via si facevano più opachi.
Fu proprio in Pescheria che feci uno dei primi e più metafisici pianti della mia vita, davanti una cassetta di canocchie – vive!!! veniva scritto sulla lavagna nera con tre punti esclamativi. Com’era possibile sopportare la visione di tutto quel dolore, di quelle creature che si contorcevano disperatamente, che agitavano le infinite zampette, che dilatavano le branchie come bocche, emettendo un invisibile urlo?
Come si poteva osservare tutto quel tormento e restare indifferenti?
E per quale ragione bisognava infliggere quel dolore?
I miei bronchi vibravano con le loro branchie, le loro zampette erano spine pronte a trafiggere il mio cuore.
Mi guardavo intorno per vedere se qualcun altro fosse preda dello stesso sgomento, ma vedevo solo persone che parlavano, ridevano, facevano scivolare le povere bestie in cartocci di carta giallastra che, ancora tutti vibranti, venivano posati sulla bilancia.
Nel frastuono rimbombante dell’enorme Pescheria, io e il dolore del mondo eravamo uno di fronte all’altro, senza difese, soli.
Da quel momento, nelle notti insonni, ai lupi e agli scheletri si erano così aggiunte anche le canocchie. Mentre gli scheletri ballavano, loro si arrampicavano su per le tende. Le tende non erano di stoffa ma di carta paglia, così le loro zampe facevano un fruscio sottile. Più che un fruscio, era uno stridio acuto, acutissimo. Per non sentirlo e per evitare che mi facesse esplodere il cuore, ero costretta a tapparmi le orecchie con le dita.
L’Acquario, in questo senso, era un conforto. Gli stessi pesci che agonizzavano in Pescheria, là dentro vivevano nutriti e protetti, lontani dai pericoli e, per di più, con il loro nome scritto su una targhetta.
All’Acquario, allora, non c’erano gli esemplari multicolori che i bambini del mondo globalizzato sono abituati a vedere oggi, ma i pesci grigiastri e ordinari che vivevano nelle acque antistanti al porto. Guati e spari, sardine, menole, moli, cefali e branzini nuotavano di fronte a noi in mezzo a qualche alga di posidonia. Il motivo di eccitazione non stava nella loro visione – anche se era bello saperli in salvo – ma in quella della grande vasca con le mante e gli squali. E soprattutto nella coppia di pinguini che vivevano in una casetta come quella dei cani da giardino, con davanti una piccola vasca da bagno.
Della pinguina non ricordo il nome, forse perché è morta giovane, ma il nome di lui, Marco, lo ricordano tutti i triestini della mia età perché era una specie di eroe cittadino. Viveva lì da tantissimi anni e, nelle giornate di bel tempo, veniva portato a passeggio lungo il molo antistante all’Acquario, come fosse un barboncino.
La vasca delle mante era quadrata e foderata di piastrelle – una via di mezzo tra un bidet e una micropiscina – fornita di sgabelli di legno, per permettere ai bambini di guardare dentro. Gli squali credo fossero appena dei gattucci e le mante appena delle arzille, ma allora non lo sapevo, mi parevano soltanto dei mostri spaventosi.
Che gli squali potessero divorarti, lo sapevo già. Fu invece mio fratello a spiegarmi che anche le mante, con la loro coda puntuta, erano in grado di darti una scossa mortale. Mio fratello, infatti, non era mai in imbarazzo a manifestare un velato sadismo che si rivelò essere, da subito, un lato evidente del suo carattere. “Metti la mano nell’acqua,” mi diceva suadente, “vediamo se succede qualcosa.” Ma io tenevo le mani rigorosamente serrate nelle tasche del cappotto. Troppe volte mi ero fidata dei suoi inviti che non avevano tardato a trasformarsi in trappole.
Durante quelle visite, provavo un po’ di pena per il pinguino. Mi sembrava che vivere sui ghiacci dovesse essere più bello che passare la vita tra una vasca da bagno e una cuccia da cani. La prigionia dei pesci, invece, non mi faceva impressione perché cattività, per loro, voleva dire salvezza. Neppure a me, in fondo, sarebbe dispiaciuto vivere in un piccolo spazio confortevole, nutrita regolarmente, protetta dagli imprevisti e immersa in una costante penombra piena di blu-blu.
Con Gianna raggiungevamo le diverse piste da pattinaggio della città. Nei pomeriggi invernali, quando la luce terminava presto, ci portava a quella più vicina a casa, in piazzale Rosmini. Nelle giornate più lunghe, invece, andavamo a quella straordinariamente eccitante del giardino di San Michele – una pista fatta a otto, con salite e discese che, all’epoca, mi sembravano foriere di straordinarie prodezze – oppure alla pista lontanissima di Villa Revoltella.
Compito principale di mio fratello, in quei frangenti, era quello di farmi cadere nel peggiore dei modi il maggior numero di volte, e compito mio era quello di stare in piedi e cercare di salvare la pelle.
I ruoli rimanevano immutati quando, nelle giornate estive, andavamo al bagno Ausonia. Lì, invece di spingermi o strattonarmi, aveva l’abitudine di tenermi la testa a lungo sott’acqua. Quanto tempo poteva resistere un essere umano senza respirare? si chiedeva, curioso. Erano i tempi di Enzo Maiorca e, quando nessuno lo vedeva, credo cercasse di trasformarmi in una sua diretta emula. Per questo, anche a casa, mi faceva ripetere gli esperimenti nella vasca da bagno, nel lavandino e anche nella tazza del gabinetto.
Avevo il terrore di quegli esperimenti. Tra me e i pesci della Pescheria non c’era nessuna differenza. Entrambi, a parti invertite, lottavamo per sopravvivere – con branchie dilatate e polmoni compressi ci dimenavamo alla disperata ricerca di ossigeno.
Al bagno Ausonia risale anche uno dei pochi ricordi legati alla figura di mio padre. Dovevo essere molto piccola e l’acqua intorno era davvero cupa, striata dalle scie oleose degli scarichi del vicino porto. Mi avevano messo sulla sua schiena, le braccia allacciate intorno al suo collo. Lui lasciò la scaletta di ferro e cominciò a nuotare verso quello che a me sembrava mare aperto.
Stavo aggrappata sul suo dorso come fosse un delfino. Avevo paura del buio intorno, ma, al tempo stesso, percepivo la sicurezza nei suoi movimenti e questo mi tranquillizzava. Lo sentivo incredibilmente forte, potente e, per alcuni brevissimi istanti – mai più ripetuti – ho avuto l’impressione che mio padre fosse qualcuno di cui in fondo avrei potuto fidarmi.
Gianna ci portava anche avanti e indietro dalla casa dei nonni.
Con Gianna andavamo a prendere una pallina di gelato. Più spesso, quando le finanze non erano all’altezza, prendevamo solo il cono e il gusto lo aggiungevamo con la fantasia.
Nei pomeriggi di pioggia, con Gianna, guardavamo le avventure di Rintintin. “Yuuuu, Rinty!” era il nostro grido preferito.
Con Gianna, leggevamo i fumetti, costruivamo le casette con il Lego.
Gianna ci faceva fare la merenda sul tavolo della cucina. Pane e marmellata o pane burro e zucchero che scricchiolava meravigliosamente sotto i denti.
Sempre con Gianna guardavamo arrivare dal balcone i rimorchiatori che trascinavano le navi. Venivano da Istanbul, da Suez, dalla Polinesia, da tutti i luoghi che la fantasia geografica di mio fratello riusciva a suggerire.
Con Gianna eravamo felici.
Anche se c’era la bora che faceva tremare i vetri, quando c’era Gianna non eravamo a Trieste, ma a Capri.
Gianna ci faceva sentire amati.
Il trillo, puntualissimo, del suo campanello era il trillo pavloviano delle ore di felicità. Occhi lucidi, salivazione abbondante, incipiente senso di benessere.
Poi, un giorno, nell’autunno della mia terza elementare, il campanello rimase muto.
Tre e trentacinque, tre e quaranta, tre e quarantacinque. Fissavo l’orologio della cucina con ansia crescente, tre e cinquanta, tre e cinquantacinque. Alle quattro andai da mia madre in salotto, immersa, come al solito, nella contemplazione solitaria del vuoto.
“Gianna non arriva,” dissi timidamente.
E lei, senza interrompere la sua attività, rispose:
“Gianna non verrà mai più.”