19.
Ormai ero in quinta elementare. L’arrivo del fratellino portò una ventata di aria fresca nella nostra vita. Era un bambino buono e sorridente e io amavo prendermi cura di lui, mentre mio fratello Stefano era felice di poter rinnovare la sua creatività con l’invenzione di nuovi esperimenti di sopravvivenza. Il suo preferito era quello di mollare la carrozzina all’inizio di un marciapiede in discesa. Voleva capire, infatti, quanto fosse importante il fattore di accelerazione nella dinamica dei corpi in movimento. Una volta lasciata, correva in basso per accoglierla prima che deragliasse o si sfracellasse.
Mia madre intanto aveva capito che i mille soffi del Wu wei erano assolutamente inafferrabili e dunque fece l’unica cosa che poteva fare: si rimboccò le maniche e cercò un lavoro. Aveva una mente molto creativa e in tutti quegli anni trascorsi tra la pittura e l’Optical Art aveva acquisito anche una certa abilità nel campo del disegno.
Così il suo primo lavoro fu proprio quello di grafica.
Ricordo l’anno della quinta come un anno d’inaspettata leggerezza: il neonato che rallegrava la casa, mia madre che finalmente lavorava e l’idea che in fondo l’età adulta – l’età della liberazione – non fosse poi tanto lontana. La scuola elementare era stata infatti per me un pesante giogo che aveva costretto il mio sguardo perennemente verso il basso.
Avendo lo stesso spirito del buon soldato Švejk, avrei sempre voluto comportarmi nei migliori dei modi: essere efficiente, diligente, capace di conquistare l’ammirazione e il plauso di chi mi stava sopra, ma poi le cose andavano sempre in senso contrario. Quando la maestra faceva una domanda, il più delle volte conoscevo la risposta, avrei potuto alzare la mano, saltellando dall’impazienza sulla sedia, e dire: “Lo so, lo so, signora maestra!” Invece ripetevo la risposta dentro di me, scartandola per la sua semplicità.
Sarebbe bello che la risposta fosse questa, mi dicevo, ma è evidente che non è così; è solo l’apparenza della risposta, un tranello appositamente teso per trarci in inganno, o forse il punto di partenza per andare alla ricerca della vera risposta.
Così mentre le compagne rispondevano con voce argentina, io vagavo per i meandri della mia mente, alla ricerca di altre possibili risposte innescate da quella domanda.
Nel racconto “Un’infanzia” in Per voce sola, il protagonista deve risolvere un problema di aritmetica riguardante la capienza di una vasca da bagno; invece di scoprire, attraverso calcoli ben definiti, il numero di litri necessari per riempirla, il narratore si perde nelle sue elucubrazioni, immaginando che il soffitto della stanza da bagno crolli e che l’inquilino del piano di sopra precipiti nella vasca, facendola improvvisamente traboccare e rendendo obsoleta la soluzione del problema. E così, oltre ad aver espresso in maniera intuitiva il principio di Archimede, il giovane protagonista ha anche aggiunto un ulteriore quesito da risolvere: come rimuovere il corpo inerte del morto.
Con una testa così, ogni giorno di scuola era un Everest da scalare, un deserto del Kalahari da attraversare, sfuggendo a feroci formiche rosse. Le rare volte in cui osavo lanciarmi, mi accadeva come ai paracadutisti a cui, in volo, non si apre il paracadute.
Ricordo che, una volta, avevo da giorni una parola in mente di cui non conoscevo il significato, così quando la maestra ha chiesto: “Avete qualche domanda?” ho alzato subito il braccio, scattando in piedi accanto al banco e, scandendo bene le parole, ho detto: “Signora maestra, che cosa vuol dire castrare?”
Per questo la fine delle elementari – con l’abbandono di quel cupo edificio di mattoni rossi nel cui atrio erano esposti tutti i tipi di bomba e di mina su cui avremmo potuto saltare in aria – mi sembrava la liberazione da un carcere che, per troppo tempo, mi aveva tenuta prigioniera.
La scuola media non era molto distante e aveva un nome che mi faceva sognare: Campi Elisi. Completamente all’oscuro di cosa fossero i campi elisi, ero convinta che avessero sbagliato la trascrizione e che si trattasse in realtà di campi di fiordalisi. Amavo e amo moltissimo i fiordalisi e così l’idea di frequentare un tale istituto mi dava un senso d’insperata leggerezza.
L’edificio che ospitava la nuova scuola, anch’esso di mattoni rossi, era stato costruito durante il protettorato degli americani e, con le sue finestre incorniciate di bianco, il suo tetto con le tegole, i suoi alberi e i suoi cortili interni, sembrava uscito direttamente da quell’oasi di felicità che ritenevo essere gli Stati Uniti d’America.
Nella scuola dei campi di fiordalisi, gli insegnanti non avrebbero potuto essere altro che eternamente sorridenti e quella loro felicità, pensavo, si sarebbe senza dubbio riversata su noi alunni. Per raggiungerla, avrei dovuto fare lo stesso percorso della vecchia scuola, imboccando però, pochi metri prima, una strada in discesa che, in lontananza, lasciava intravedere il mare e le gru dei cantieri. Dopo un paio di curve e l’attraversamento di una zona sterrata e incolta – ora occupata da palazzi – avrei raggiunto l’oasi della mia felicità.
A sancire questo cambiamento, ci sarebbe stato anche l’abbandono della fedele cartella a favore della cinghia per i libri, segno evidente di una nuova leggerezza che mi avrebbe traghettato verso l’età adulta.
Da mesi insomma, quelle due curve in discesa stavano lì sospese nella mia mente. Ero troppo piccola per sapere che immaginare di fare una cosa non è sempre preludio per riuscire poi a farla per davvero.
Ancora non sapevo che, sui nostri desideri e sui nostri sogni, veglia costantemente il destino, che le sue curve non sono le nostre, e che, tra una svolta e l’altra, il nostro bene è probabilmente l’ultimo dei suoi pensieri. Fino a quel giorno, infatti, ero stata convinta che esistesse una certa ritmica consequenzialità nello scorrere dell’esistenza – i giorni di scuola e quelli di festa, i sabati dalla nonna paterna, le domeniche dagli altri nonni, il Natale e la Pasqua, con tutta la famiglia riunita dai bisnonni, i pomeriggi d’inverno a pattinare e quelli d’estate al bagno Ausonia o a Grignano, a Sistiana, se non addirittura a Grado, raggiunto magari con la vecchia motonave Ambria Bella, sembravano costituire un’ossatura stabile della ritmicità del tempo, capace di contenere e smorzare tutte le follie, le incapacità, le confusioni dei miei genitori.
Ancora non sapevo che, mentre contemplavo beata la pace dei campi elisi contornati da fiordalisi, sentendo già nelle orecchie il fruscio delle vele del brigantino che mi avrebbe portata in Madagascar a studiare gli aye aye e i camaleonti, il destino, come in un autoscontro, aveva bruscamente girato il volante.
Tutto cominciò con delle cenette.
Cenette a cui io e mio fratello ovviamente non eravamo invitati. Noi mangiavamo prima, già in pigiama e, subito dopo Carosello, andavamo a letto. Solo allora arrivava questa persona, un collega conosciuto sul lavoro, e cenava in cucina con mia madre. Aveva una voce molto forte, sgradevole, che non esiterei a descrivere come un timbro da osteria.
Ricordo la luce accesa fino a tardi e quel rumore, inusuale per una casa abitata da tre bambini, invadere con violenza le nostre stanze. Al risveglio, poi, il nostro appartamento non era più lo stesso ma sembrava più l’angolo di angiporto sopravvissuto a una notta di bagordi. Bottiglie e bicchieri sparsi dappertutto, la cucina avvolta da una nebbia puzzolente di fumo freddo che, dai posaceneri pieni di cicche, si diffondeva in tutta la casa. Preparandomi per andare a scuola, non riuscivo a trattenere dei conati di nausea.
Una cenetta. Due cenette. Dieci, venti cenette. Più le cenette si moltiplicavano, più sentivo montare l’inquietudine. E l’inquietudine, per me, era sempre foriera di quesiti. Non erano domande immediate, spontanee, quelle che avrebbe fatto un bambino normale in una situazione normale; temevo, infatti, più di ogni altra cosa di dover affrontare lo sguardo gelido e carico di odio della signora B.
Tuttavia non riuscivo a tacere, così l’elaborazione delle mie domande subiva un percorso non molto diverso dalle acque carsiche: s’inabissavano in forre, scorrevano rumoreggiando sottoterra, si precipitavano a cascata verso un livello ancora più basso e laggiù si disperdevano in rigagnoli fino quasi a estinguersi per poi, senza alcun preavviso, erompere di colpo in superficie in un modo incontrollato.
Così una sera, mentre ero già in pigiama e la signora B stava preparando l’ennesima cenetta, entrai in cucina e dissi: “Spero almeno che il signor X, prima di andarsene, ti paghi il conto.”
Era una frase che avevo ponderato con estrema attenzione in ogni sua parte, dato che la mancanza di soldi era da sempre il refrain della nostra vita e noi figli eravamo la causa di quell’irragionevole salasso. Vedendo che mia madre, ogni sera, preparava dei manicaretti – fatto del tutto inusuale, visto che mangiavamo sempre purè di patate con dentro una fetta di prosciutto sminuzzato o una minestra di piselli secchi – e che la nostra casa era sempre più simile a una bettola, mi era sembrato giusto trarre le logiche conseguenze.
Se mia madre aveva intrapreso una nuova attività di ristoratrice era giusto che si facesse pagare, altrimenti a che pro tutto quel lavoro, quel rumore, quella puzza di fumo che avvelenava l’aria?
Non avevo neppure finito di dire “conto” che già mi ero accorta del tragicissimo errore. Tutto il lungo percorso di purificazione e decantazione delle acque non era servito a nulla. Come scintille nella sterpaglia assetata d’agosto, le mie parole fecero divampare ciò che più di ogni altra cosa temevo: lo sguardo inceneritore. La signora B coltivava dei sentimenti per niente benevoli nei nostri confronti e non aveva alcun pudore, quando eravamo soli, nel manifestarli. In quegli occhi c’era ghiaccio e c’era fuoco e quel ghiaccio e quel fuoco si fondevano insieme in una forza nuova, capace di distruggere qualsiasi cosa.
Avevo la bocca ancora a forma di “o” quando la sua mano afferrò il mio braccio come fosse l’artiglio di un’aquila, le unghie conficcate quasi nell’osso e, scuotendomi con forza, gridò: “Non ti permetterò mai di interferire con la mia vita! MAI! MAAIII!” e, con uno spintone violento, mi buttò fuori dalla cucina.
Quel “Mai!” era fatto di sassi acuminati, di acciaio, di cocci di vetro, di rotoli di filo spinato. Quel “Mai!” era un ostacolo, un’arma, un cavallo di Frisia, messo per sempre a difesa della sua vita.
Intanto monsignor Milioni era sceso in uno dei migliori alberghi della città e scartabellava documenti, scriveva appunti, convocava testimoni, concedendosi, a spese di mio nonno, gustose cene di pesce nei vari ristoranti del centro.