12.

Mia nonna materna era una persona di intelligenza straordinaria. All’acutezza della mente, univa quella meravigliosa dote che è l’ironia priva di sarcasmo. Donna inquieta, estremamente in avanti sui tempi, ripeteva spesso di aver sposato il nonno per immettere una miglioria nella genetica della nostra famiglia. Aveva molti corteggiatori, raccontava, ma le loro mani molli e le loro vocette tremule non promettevano niente di buono.

“Quando a un ballo incontrai vostro nonno, capii all’improvviso cos’era davvero un uomo.”

A quei tempi, per una figlia dell’alta borghesia mitteleuropea, voler sposare un uomo che arrivava dalle montagne dell’Italia centrale, era più o meno come sposare oggi un immigrato clandestino del Kurdistan. Dato che era ancora minorenne, per opporsi a questa passione, la famiglia la spedì dallo zio Ettore che lavorava in un loro stabilimento a Londra. Speravano che il tempo e la distanza le facessero dimenticare quel poco appetibile partito. Ma così non fu e, appena raggiunta la maggiore età, mia nonna tornò a Trieste e convolò a nozze con il bel tenente dalle origini oscure. In quella battuta gioiosamente ironica, credo ci fosse un fondo non indifferente di verità.

Sulle pareti della mia casa di Trieste è appesa un’unica foto di famiglia, in bianco e nero. Risale al 1930 o al 1931 e rappresenta la mia trisavola, Olga Moravia, seduta in veranda, contornata da tutti i suoi nipoti. Tiene in braccio le ultime nate, mia madre e sua cugina Dora. Se ne sta lì appesa al muro, non per affetto o per nostalgia, ma semplicemente come monito.

La maggior parte, infatti, di quei bambini e di quelle bambine che sorridono nei loro vestiti alla marinaretta è stata falciata da un destino di distruzione. Droghe, suicidi, alcol, guerre, persecuzioni, disturbi mentali li hanno spazzati via uno dopo l’altro prima del tempo.

Il sangue del nonno, un sangue abituato alla sopravvivenza primordiale, era ben diverso da quello dei marinaretti cresciuti sotto l’occhio vigile delle nannies. C’era energia, forza, salute, oltre alla volontà caparbia di andare sempre e comunque avanti, sopravvivendo a tutte le difficoltà. Era forse proprio quella forza che, nei tentativi di asfissia, mi costringeva comunque ad aprire la bocca. Ed è proprio quella forza che, nei tanti momenti oscuri della vita, mi ha permesso sempre e comunque di andare avanti, di immaginare un futuro in cui le cose sarebbero state diverse.

Tra i racconti delle infanzie dei miei nonni – lei che andava a scuola con un calesse trainato da pony bardati con ciuffi, provando un’enorme vergogna nell’attraversare i quartieri operai intorno alla fabbrica, e mio nonno che scalava tutti i pali della cuccagna delle valli intorno nella speranza di arraffare qualche fila di salsicce – c’era un abisso spazio-temporale per me difficile da colmare.

Da bambini, la domenica andavamo a pranzo da loro, insieme ai nostri cugini. A differenza dei nonni paterni, ricordo benissimo la casa, insieme al senso di benessere che mi prendeva ogni volta che varcavo quella porta. Si mangiavano grandi piatti di spaghetti – pietanza etnica introdotta dal nonno – e c’erano degli spazi dedicati esclusivamente a noi: un cassetto con matite colorate e fogli di carta, un libro illustrato e tre dischi che, con il permesso del nonno, potevamo ascoltare all’infinito, mettendoli sul giradischi custodito in un grande mobile di legno.

Uno dei dischi faceva rivivere la storia di Bambi, il secondo quella delle Tigri di Mompracem e il terzo conteneva le terrificanti canzoncine di un classico tedesco, Strwwpeter, da noi tradotto in Pierino Porcospino.

Anche il libro corrispondente stava purtroppo in quel cassetto e le sue illustrazioni a penna sono ancora tutte ferocemente depositate nella mia memoria. Si trattava di un volumetto dagli intenti pedagogici che, con i suoi agghiaccianti esempi, mirava a trasformare i bambini, da piccoli selvaggi indisponenti, in fanciulli virtuosi. Le diverse storielle avevano tutte un finale edificante. Dietro a un bambino che si succhiava estatico il pollice spuntava un sarto che con una lunga forbice glielo tagliava di netto, lasciando il poveretto con la mano monca a fissare a terra il dito in questione in una pozza di sangue. A questa vicenda, che dava i brividi persino a mio fratello, seguiva la storia della dolce Lisetta. Anche Lisetta era un po’ birichina. Lei, invece di succhiarsi il dito, giocava con i fiammiferi, nonostante i suoi genitori glielo avessero proibito. Immagine numero uno: Lisetta che gioca con gli zolfanelli, lo sguardo inebriato e felice; immagine numero due: i suoi vestiti che prendono fuoco; immagine numero tre: due gattini che piangono calde lacrime davanti a un mucchietto di cenere con due scarpette rosse, tutto ciò che rimane della povera Lisetta. E che dire di Gasparino che non vuole mangiare la minestra? Capricci oggi, capricci domani e, alla fine, del florido bambino non resta che un cumulo di terra con una croce e una bella zuppiera fumante sopra.

Della vicenda del bambino Filippo ricordo ancora la canzoncina, che cantavo sempre insieme a mio fratello. Dondola, dondola Filippo dondola. Dondola, dondola, poi non c’è più! Filippo, infatti, aveva l’abitudine di dondolarsi con la sedia, durante i pasti, facendo orecchie da mercante davanti ai ripetuti rimproveri dei suoi genitori. Così alla fine succede l’inevitabile. La tavola si ribaltava con tutto ciò che c’era sopra e lo travolgeva, uccidendolo.

Ancora adesso, quando penso alla copertina di quel libro – un lurido bambino puzzolente e spettinato con le unghie delle mani così lunghe da toccare quasi i piedi – non posso non provare un senso di profondo turbamento. Spietatezza, crudeltà, sadismo – spinto fino alla morte – era il destino dei bambini che uscivano appena un po’ dalle righe.

A parte questo volume – che costituiva l’unico punto oscuro in quelle giornate – a casa dei nonni era permesso anche prendere delle coperte e degli stracci e con quelli costruire delle casette tra le sedie dove passare il pomeriggio. Il nonno aveva una visione benevola dell’infanzia, non era né darwiniano né domatore. Pur essendo severo nei nostri confronti, aveva sempre un atteggiamento positivo. La vita – credo pensasse – riservava già abbastanza difficoltà, non occorreva inventarsene di nuove per amareggiare i bambini. La nonna amava cucinare dolci e spesso, il pomeriggio, faceva le palacinche per noi nipoti.

Per tutta la mia infanzia, però, non ho avuto un rapporto particolare con lei. È stata proprio la nonna a confessarmi, quando ero già adulta, che era impossibile relazionarsi con me. “Avevo paura solo a guardarti,” mi ha detto una volta. “Eri completamente muta, immobile, con lo sguardo assorto in un mondo irraggiungibile.”

Lo sguardo, già, dove si posava?

Dove non avrebbe dovuto posarsi.

Il pianto che accompagnò la cerimonia della prima comunione fu uno dei miei ultimi grandi pianti. Ancora non lo sapevo ma, da lì a poco, tutte le lacrime che con tanta abbondanza versavo nelle situazioni più imprevedibili sarebbero scomparse, trasformando la loro essenza acquatica in quella più solida del ghiaccio. Il mio iceberg mi aspettava docile, come lo stampo di un uovo di Pasqua. Bastava andarci dentro e chiudere la porta.

Tutti i pianti non fatti si addensarono intorno alla mia persona, creando una corazza inespugnabile. Quello spessore trasparente e glaciale mi permise di andare avanti. Nessun sentimento mi toccava più. Ero, volevo essere, soltanto un automa che ubbidiva agli ordini. Persino i lupi e le streghe, scocciati da tanta indifferenza, cominciarono a defilarsi.

L’atarassia è stato il modus vivendi – o meglio supravivendi – della mia seconda infanzia. Non legarsi a nulla, non provare nulla. Ci sono persone che si sottopongono ad anni di privazioni, a esercizi estenuanti, a maratone di meditazione, per cercare di raggiungere questo stato, al quale io arrivai per vie assolutamente naturali.

A otto, nove anni, tra me e il piccolo Buddha non c’era nessuna differenza. Non avevo desideri, non avevo attaccamenti. Sentire qualcosa, legarsi, voleva dire soltanto provare una serie infinita di sofferenze.

A tutti offrivo un sorriso enigmatico, una docilità assoluta, uno sguardo apparentemente fermo. Ogni tanto, per non creare troppo sgomento intorno, fingevo di interessarmi alle cose che normalmente attraggono i bambini. Me ne stavo seduta sulla cima di una montagna mentre la vita avveniva laggiù, nelle valli. Di tutto il suo frastuono, ai cambi di vento, mi giungeva appena un’eco – il muggito di una mucca che si è persa, la brusca frenata di un’auto.

I lupi, le streghe e gli scheletri vennero sostituiti, nella mia mente, dalla Fossa delle Marianne, l’abisso oceanico profondo undicimila metri situato in prossimità delle Filippine. Anche quella scoperta, come quella dell’iceberg, la feci grazie alla raccolta di figurine Genti e Paesi. Un gorgo enorme che, come un terrificante imbuto, sprofondava vorticando verso le profondità più oscure della terra.

Il rumore di quel gorgo cominciò presto a popolare i miei giorni e le mie notti. Vuoom, vuuomm, vuuom. Anche se era lontanissimo dal mare Adriatico, sapevo che tra me e lui c’era una profonda relazione stabilita dal destino.

Da pochi anni, un essere umano era riuscito a calarsi là dentro e a raggiungerne il fondo. Non era andato con la maschera e le pinne, ma con una batisfera, una specie di sommergibile tondo. Quella batisfera si chiamava Trieste e non certo per una casualità sentimentale, ma perché era stata costruita ai cantieri navali San Marco, cioè a poche centinaia di metri da dove sono nata e cresciuta. Mentre muovevo i primi passi e ascoltavo, senza sapere cosa fosse, la lugubre sirena dei cantieri, là sotto, bang bang, stavano già martellando lo scafo che avrebbe compiuto l’impresa.

Al tempo del mio ingresso all’asilo, 1960, la batisfera, con due persone a bordo – un ufficiale e un oceanografo, Jacques Piccard –, lentamente si calò negli abissi. Per raggiungere il fondo impiegò diverse ore e a undicimila metri si fermò per una ventina di minuti. Andarono laggiù da soli, o almeno così credettero, perché in realtà assieme a loro c’ero anch’io. Solo che loro risalirono quello stesso giorno, mentre io continuai a vivere là sotto per un bel po’ di tempo.

Il gorgo, l’abisso, il nulla.

Un buco di undicimila metri, largo duemilacinquecento chilometri, tremila metri più dell’Everest. Ma mentre l’Everest aveva il conforto della solidità della roccia e, comunque, si ergeva verso l’alto, verso la luce e gli spazi aperti del cielo, la fossa precipitava nell’oscurità e il movimento che compiva vorticando era centripeto, capace dunque di risucchiare e ingoiare senza pietà tutto quello si presentasse nelle sue vicinanze.

Undicimila metri.

Per quanti metri, scendendo, ci sarebbe stata la luce?

Già al bagno Ausonia, guardando sotto dove l’acqua era alta provavo un assoluto sgomento. A Grado si vedeva comunque il chiarore della sabbia, il tappeto di alghe che si muoveva lentamente, ma lì no, c’era solo il blu nero che poteva nascondere qualsiasi cosa. Gli squali potevano tranquillamente prendere il posto dei lupi, le mante, con le loro scosse, alla fine erano peggio delle streghe. Ma a mille, duemila, cinquemila metri, neppure loro erano in grado di arrivare. La pressione della colonna d’acqua li avrebbe rapidamente trasformati in frittelle.

L’abisso, invece di essere vuoto, era abitato da mostri.

Non c’era luce laggiù, ma quelle spaventose creature erano fluorescenti, per questo noi riuscivamo a vederli. Vedere cosa? Principalmente, enormi file di denti acuminati, qualche coda, mandibole di dimensioni straordinarie, pinne, zanne, lance, dardi velenosi, l’improvviso gonfiore di uno stomaco.

Nella Fossa delle Marianne, l’esistenza esibiva la sua più profonda e nuda verità. Vivere è divorarsi a vicenda. Divorare e venir divorati. L’abisso, con la sua oscurità in perpetuo movimento, non consentiva la menzogna.

C’era la Fossa delle Marianne, nell’oceano Pacifico, e c’erano altre fosse delle Marianne sparse nella falsa quiete dei giorni. Anche se tutti facevano finta di niente, era chiaro che stavamo sempre sospesi su un baratro. Bastava un nonnulla, una distrazione minima per mettere il piede in fallo e sprofondare tra quei sinistri bagliori, tra le lance, le zanne, la ferocia dei dardi.

Un giorno, prima dalla lezione di nuoto, feci un capriccio colossale. Sapevo di avere qualche speranza di spuntarla dato che era toccato alla nonna di portarmi in piscina. Mi aggrappai alla portiera della Seicento con la bora che mi sbatacchiava di qua e di là, ma non importava. Mollata alla fine la presa, mi buttai per terra. Per fortuna la nonna non aveva la verve del domatore e l’idea di trascinarmi a peso morto per il braccio fino agli spogliatoi non le venne neppure in mente, così, mentre ancora mi dimenavo sull’asfalto, disse: “Va bene, allora per oggi, niente piscina.”

Prima di mettere in moto l’auto, però, guardandomi fisso, mi chiese: “Cosa succede? Che c’è che non va?”

Con lo sguardo vuoto della bambina-iceberg, osservai il cruscotto. “Niente,” dissi. “Non lo so, niente,” ripetei ancora tremante.

In realtà, sapevo benissimo perché. La piscina aveva un enorme tappo sul fondo e quel tappo, da un momento all’altro, avrebbe potuto saltare. Il risucchio allora sarebbe stato potente e rapidissimo. Nonostante le tavolette galleggianti, in pochi secondi saremmo stati tutti inghiottiti dall’abisso. Non era un capriccio dunque, ma il tentativo di sottrarsi a un infausto destino.

Solo molti anni dopo, nell’età adulta, ho letto la dichiarazione resa da Jacques Piccard al ritorno in superficie. “Pensavo di trovare laggiù l’oscurità totale, invece, a un certo punto, con mia grande sorpresa, il fondo apparve luminoso e chiaro.”